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Libertà
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E-book118 pagine1 ora

Libertà

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Libertà: Revan Kwonitz è un architetto di grande fantasia e spiccata capacità comunicativa. In tutti i progetti che gli vengono affidati, infatti, riesce a trasfondere la propria visione della vita, con il ricorso a elementi architettonici e stilistici dal forte valore simbolico. L'incontro-scontro con l'ideologia propugnata dal capo di una sorta di setta religiosa, in occasione dell'incarico per la progettazione di un tempio, lo farà meditare sul concetto di libertà, da intendersi quale riflesso del rapporto interpersonale, fondamentale per lo sviluppo dell'individuo, sia come singolo che nell'ambito di una comunità.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2019
ISBN9788830605565
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    Anteprima del libro

    Libertà - Pietrino Antonio Ibba

    Erica

    PARTE I

    Ouverture

    Aveva da poco superato i cinquant’anni, mentre iniziava il terzo millennio.

    Revan Kwonitz era nato a Perraux, città francese di circa trentacinquemila abitanti, ove risiedeva ed esercitava la professione di architetto. Località pacifica, Perraux, in cui ognuno pensava soprattutto a sé; appariva industriosa, votata al lavoro e, com’era naturale, al profitto; non troppo ospitale, poco raggiunta dai flussi migratori dall’Africa e dall’Asia. I nonni paterni di Revan, originari della Polonia, erano sfuggiti agli eccidi e alle deportazioni perpetrati durante le invasioni nazista e sovietica all’inizio della seconda guerra mondiale e si erano rifugiati in Francia. Il nonno, ufficiale della marina militare polacca, aveva poi combattuto a fianco dei francesi contro gli invasori nazisti, a dimostrazione della propria riconoscenza per l’asilo ricevuto. Il padre era nato in Francia, poco dopo la guerra, così i nonni avevano deciso di stabilirsi lì; integrarsi, lavorare e crescere il figlio, comunque, non era stato facile. Il papà di Revan aveva studiato ed era diventato insegnante; aveva sposato una cittadina francese, la madre di Revan, anche lei insegnante, conosciuta nella scuola dove lavoravano entrambi. Revan si sentiva perfettamente e orgogliosamente francese, europeo e occidentale per nascita e formazione ma, quanto a personalità, provava a non avere etichette territoriali o culturali.

    Situata nella Francia centro-occidentale, Perraux aveva conosciuto un consistente sviluppo nella seconda metà del ventesimo secolo; vi erano palazzi, scuole, aree verdi, luoghi di culto, un tribunale e una stazione della gendarmerie. Da ameno borgo rurale legato ai ritmi della natura, ricco di verde e di casette graziose, si era trasformata in un insediamento produttivo industriale di medie dimensioni; ormai gli abitanti vi restavano perché impiegati negli opifici della zona, i più grandi dei quali erano una ferriera e una centrale termoelettrica che serviva buona parte della regione. Strade e ferrovie collegavano il sito con i porti affacciati sull’oceano, e ogni giorno la vita lavorativa scorreva febbrile; non mancavano il piccolo commercio, la vita scolastica dei ragazzini, le chiacchierate in piazza degli anziani: tutti aspetti che prima dello sviluppo industriale caratterizzavano ogni cittadina a misura d’uomo legata all’economia agricola. Ora però cedevano gradualmente il passo allo sviluppo delle periferie, con la costruzione di quartieri dormitorio, grandi condomini, scuole tecniche e centri commerciali frequentati soprattutto di domenica. Le campagne non erano più, dall’alba al tramonto, il luogo di lavoro degli abitanti della cittadina, in questo ruolo quasi completamente sostituite dalle fabbriche, dove era occupata la quasi totalità della popolazione locale; da qui la nascita dei dopolavoro, di impianti sportivi e circoli culturali su iniziativa delle maggiori imprese, a ciò incoraggiate dagli amministratori pubblici. Le nuove strutture periferiche, su cui campeggiavano ovunque e a grandi lettere le denominazioni delle aziende operanti nella zona, creavano rioni distinti, per aspetto e ritmi di vita, dalla parte centrale e storica della cittadina. Questa, sebbene in apparenza poco cambiata nel corso degli anni, in realtà era in stato di decadenza, e lo si poteva notare passando per il centro, dando uno sguardo ai balconi e sentendo il profumo dei fiori ornamentali, osservando, tra i vari luoghi, Place de la République, la Rue du commerce, il mercato, la scuola per l’infanzia. Questi scorci non colpivano né stimolavano più i giovani, il cui interesse, anche estetico, era suscitato da altro; gli stessi aspetti ispiravano invece nostalgia a chi, ormai vecchio, vi associava ricordi di un tempo andato. C’erano sempre meno negozi in centro, e sempre meno persone vi passeggiavano la sera o nei fine settimana; anche la collocazione degli esercizi commerciali era cambiata: prima si trovavano sul piano del marciapiedi ed erano più piccoli e più numerosi, con le vetrine meno ampie e fornite; la gente vi entrava e si rivolgeva subito al negoziante. Ora le vetrine erano grandi e strapiene; gli avventori accennavano un saluto e si soffermavano a guardare in silenzio la merce esposta; prima di rivolgersi a un negoziante, spesso facevano il giro di tutti gli esercizi simili, per poi tornare dove avessero intuito una maggiore possibilità di ottenere sconti e, forse, maggiore considerazione, fosse anche per il solo interesse a concludere l’affare, quasi che questo fosse un aspetto della professionalità da apprezzare.

    Una massiccia affluenza caratterizzava invece i centri commerciali della periferia, lungo la Rue du Travail; era un consueto viavai, specie la domenica, quando la libertà dal lavoro consentiva finalmente di svagarsi con gli acquisti.

    La città – I

    Era stato incaricato di concepire e progettare un’opera inusuale, poiché per fronteggiare il boom demografico mondiale già da tempo si preferiva il recupero degli immobili inagibili di insediamenti già esistenti, piuttosto che la ricerca di soluzioni alternative. In quel caso, invece, si trattava di costruire una nuova città, dal nulla: nessuna strada di accesso né case, negozi, linee elettriche, reti del gas o telefoniche, internet, niente aree verdi, luoghi di culto, scuole, palestre, biblioteche: solo una spianata di terra brulla di quasi duemila ettari, con un po’ d’acqua sotto.

    Aveva concepito singole opere – realizzate, pareva, con soddisfazione sua, dei committenti e degli impresari – ma progettare un’intera città non era certo semplice.

    Svolgeva il suo lavoro con costante passione e non aveva mai rifiutato un incarico, anzi ne aspettava con ansia sempre di nuovi; specie nella fase iniziale del concepimento del progetto, la sua fervida creatività sembrava straripare dal cuore, oltre che dal cervello. Il suo palazzo, la sua scuola, il suo parco dovevano parlare oltre che servire a chi ci stava, o anche solo ci passeggiava vicino. Era sempre più convinto che le cose dovessero avere una funzione non solo pratica, ma anche spirituale, e che la loro bellezza, soprattutto, dovesse esprimere valori, concetti, intenzioni; i materiali, pur inerti, dovevano comunicare per colore e forma, lasciare messaggi e impressioni, e le persone dovevano poter dialogare con essi. Per creare questa relazione tra individui e opere, prima di iniziare un progetto voleva conoscere a fondo sia i luoghi e la storia – naturale e geologica – del territorio, sia le comunità che ci vivevano. Parlava a lungo con i committenti e con i futuri ospiti; viaggiava molto e volentieri, cercava di conoscere la lingua o il dialetto della zona in cui si sarebbero dovute costruire le sue opere, sondava con particolare meticolosità le convinzioni profonde di coloro che vi avrebbero abitato, lavorato o semplicemente trascorso del tempo nei dintorni.

    Inoltre, anche dopo la realizzazione dei suoi progetti, studiava ancora e ancora, per verificare – così riteneva – quali influenze, quali novità si potessero ricondurre, pur solo parzialmente, all’intervento da lui ideato.

    E allora, che grande romanzo, che sublime sinfonia sarebbero potuti sgorgare da una città intera… se non fosse stato per l’impressione suscitatagli dal cliente, di cui non era entusiasta; era questo il problema, e le sue titubanze si mostrarono fondate, tanto che – si disse, alla fine – sarebbe stato meglio dar retta a quelle sensazioni.

    Sai, amore, quella persona era già entrata altre due volte nella mia vita, senza che lo sapessi. E non perché ero io, ma per caso! Mi ha usato come campione statistico dell’umanità, gli rappresentavo proprio uno qualsiasi. Mi ha messo alla prova, o forse si è messo alla prova confrontandosi con me. Forse, pur godendo del suo status, in fondo non trovava in esso la motivazione di cui invece sentiva il bisogno.

    Il tribunale – I

    La prima volta fu per l’incarico in Africa… la tua Africa.

    «Deve costruire il suo tribunale», disse l’interprete. Revan, come suo solito, aveva ascoltato in silenzio. D’altra parte, gli era bastato uno sguardo per intuire che il personaggio che aveva davanti non si sarebbe fatto influenzare, neppure nel tono da infondere alle proprie parole, da niente e nessuno.

    Domandò: «Mi scusi se le appaio curioso, ma per me è importante sapere una cosa. Credevo che lei fosse un sacerdote, all’interno della sua comunità; un componente che cura lo spirito, che conosce il modo di mettere in rapporto gli uomini con gli dei in cui credete. Il suo tribunale, mi ha detto l’interprete: intendeva dire che lei è invece un giudice, un magistrato? Lei dispensa dunque giustizia, fa rispettare le leggi?»

    Gli rispose direttamente lui, in francese, con la stessa espressione, lo stesso tono e la stessa sicurezza. L’interprete si limitò ad annuire, intervenendo di rado, e sempre con fare rispettoso. «Da noi, il popolo elegge tra i propri membri colui che dovrà guidarlo sinché avrà forza, spiegando le leggi del vivere. Queste leggi possono essere antiche o nuove, e riguardare tutti gli aspetti della vita, l’avere come l’essere; la guida le insegna ai giovani, le ricorda ai lavoratori e ai guerrieri, e in base a esse rappresenta la comunità nei rapporti con gli altri popoli. La guida conosce, interpreta, applica e insegna anche le leggi religiose,

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