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Quando c’erano i comunisti e altri racconti
Quando c’erano i comunisti e altri racconti
Quando c’erano i comunisti e altri racconti
E-book108 pagine1 ora

Quando c’erano i comunisti e altri racconti

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Info su questo ebook

I racconti contenuti in questo libro scivolano veloci lungo il tempo. Essi si aprono nella Romagna dei primi anni Cinquanta, quando il Paese stava per entrare nel boom economico e forte e acceso era lo scontro politico tra cattolici e comunisti, questi ultimi visti con curiosità dagli occhi infantili della protagonista. Sulla scia degli anni che passano si notano i cambiamenti di costume e mentalità, anche ricordando fatti drammatici, fino alle cronache più recenti.

Donatella Di Cicco Naldini da molti anni vive a Rimini. Ha pubblicato: La rimessa del Poeta (ed. Ponte Vecchio, Cesena 2011), L’Etrusco del Rione Montecavallo (ed: La Stamperia, Rimini 2014), Il romanzo della bilancia scomparsa (ed. La stamperia Rimini,2016), La bellezza della solitudine (ed. Guaraldi, Rimini 2017), Volavo con l’aquilone (ed. Raffaelli, Rimini 2019).
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2022
ISBN9788830667839
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    Quando c’erano i comunisti e altri racconti - Donatella Di Cicco Naldini

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    Donatella Di Cicco Naldini

    Quando c’erano

    i comunisti e altri racconti

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6029-8

    I edizione giugno 2022

    Finito di stampare nel mese di giugno 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Quando c’erano i comunisti

    e altri racconti

    Il ricordo ha un retro e una facciata

    È un po’ come una casa.

    Ha anche una soffitta

    per i rifiuti e il topo

    e la cantina, inoltre più profonda che

    muratore abbia mai scavato.

    Attenzione a non essere inseguiti

    dai suoi baratri.

    Emily Dickinson

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Quando c’erano i comunisti

    Ero una bambina che frequentava le prime elementari quando c’erano i comunisti. Ero curiosa ma anche timida e più che attaccarmi alle sottane della mamma preferivo seguire mio padre nelle ore libere dal lavoro.

    Mi sentivo più sicura e protetta con lui.

    Mio padre non era comunista ma al circolo del partito ci capitava qualche volta al pomeriggio per bere un caffè e scambiare qualche frase di circostanza prima di tornare a casa mano nella mano con me.

    Si vedevano uomini seduti ai tavoli, chi in silenzioso cupismo, chi si agitava con un certo linguaggio e non capivo. E chiedevo il perché.

    «Perché quell’uomo urlava così forte e arrabbiato babbo?» dicevo appena usciti sulla strada.

    «Mah è un comunista» rispondeva lui.

    Mio padre era un militare e siccome indossava una divisa avevo l’impressione che lo guardassero in un certo modo ma poi mi accorgevo che i saluti erano normalmente educati, quasi cordiali come da conoscenti di vecchia data.

    Oggi mio figlio mi ha chiesto:

    «Mamma ma tu te li ricordi i comunisti?»

    «Certo» e lui mi chiede ancora guardandomi con una punta di curiosità:

    «Ma come erano, come te li ricordi?»

    «Avevano un fazzoletto rosso attorno al collo, erano sempre esagitati, gli occhi sporgenti dalla rabbia e sorridevano poco.» «Perché?» mi chiede ancora.

    «A quel tempo sapevano che tornando a casa dopo un corteo avrebbero dovuto togliere il fazzoletto per indossare la cravatta, assumere un atteggiamento più pacato.... e soprattutto tenere il braccio con la mano distesa, basso e tranquillo. Forse neppure pensavano che i tempi sarebbero cambiati.....». «Neppure un gesto per accompagnare una frase tipo vaffa c...»

    «Neppure.»

    «Poveretti, mi dispiace.»

    «Anche a me.»

    Nei primi anni ‘50, Fulvia era andata ad abitare in un paese raccolto tra le colline, non particolarmente esteso, con qualche migliaio di abitanti che vivevano per lo più all’interno, nel cuore, si potrebbe dire; dove al centro si apriva una grande piazza per poi perdersi ai lati con alcune strade che si inerpicavano verso l’alto in una specie di collinetta.

    Il resto del paese, si spargeva da una estremità all’altra. C’era un fiume che l’attraversava nella zona più bassa; si estendeva come una linea serpentina e delineava lo spazio tra una parte e l’altra del territorio.

    In piena estate si prosciugava e faceva trapelare a tratti le pietre levigate che luccicavano al sole, gli argini erosi dal tempo e in disordine, con qualche orto attorno rappezzato alla meglio. Quando arrivavano le piogge dell’autunno, le più intense dell’anno, diventava il vero protagonista del luogo.

    Dall’alto del paese, verso la collina si vedevano masse d’acqua ondeggianti e spumose; il serpente si muoveva con tutta la forza, la potenza che gli erano proprie. Dove andasse a finire tutta quell’acqua, proprio Fulvia non riusciva a capire.

    A meno che la piazza centrale finisse per allagarsi formando una specie di lago, cantine e negozi attorno ai vecchi portici che la circondavano si riempivano di quell’acqua galleggiante di colore giallastro e ci volevano giorni per disfarsene. Stranamente non si udivano grandi lamentele; come in un rito antico, i proprietari svuotavano rassegnati in silenzio e tutto in pochi giorni tornava come prima del diluvio.

    Allora Fulvia si metteva tranquilla perché si considerava fortunata, abitava nella parte alta, una zona un po’ defilata dal centro più affollato di villette lungo la strada principale che culminava con la chiesa, la più antica del paese.

    Si incontravano lungo il percorso case costruite di recente, villette più datate in stile liberty. Quelle ancora più vecchie apparivano di uno stantio Ottocento, circondate da alberi grandiosi e giardini che appena si notavano dalla strada, occultati da muri ed alti cancelli.

    Mentre gli abitanti della parte bassa erano per lo più commercianti e proprietari di negozi e bar che davano

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