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Tradizioni popolari di Napoli
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E-book419 pagine5 ore

Tradizioni popolari di Napoli

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Usanze, curiosità, riti e misteri di una città dai mille colori

Un affascinante viaggio nella tradizione napoletana e nella sua continua trasformazione. Nessuna cultura è un'isola, e la stessa realtà è un flusso continuo, un fiume nel quale non ci si bagna mai due volte. Ciò che invece sembra immutabile sono i giudizi, i pregiudizi e gli stereotipi costruiti nei secoli sulla città, e ai quali talvolta i Napoletani finiscono con l'identificarsi: «sono napoletano perché canto, perché sono superstizioso, simpatico o al limite “filosofo”». Tutte cose che non hanno nulla a che vedere con la vita concreta delle persone. Eppure la retorica della napoletanità funziona. Questo volume vuole osservarla, tentando di scardinare i luoghi comuni e inserire la cultura napoletana – le sue Tradizioni Popolari – in un più ampio e corretto ambito europeo. Mai come ora infatti è importante comprendere cosa siano le Tradizioni in una città che accoglie continuamente nuove culture e nuovi stili di vita.

Una Napoli vera, tra tradizione e post-modernità

Tra gli argomenti trattati:

• il calendario rituale
• sogni smorfiosi
• storia e origine del lotto
• nascere con una camicia in più e una parola in meno
• cantare la madonna
• il presepe: il sogno di una storia
• la chiesa e i fuochi
• del maiale, non si getta via niente
• canta che ti passa
• dai carri all’albero di cuccagna, passando per un mito
• san Gennaro, il santo cittadino
• le superstizioni dei napoletani
Claudio Corvino
Ha interessi che spaziano dall'antropologia alla storia. Tra i suoi libri: Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana (con E. Petoia); Guida insolita della Campania; Lo sguardo del lupo; Il libro nero delle streghe; Storie Irpine; Maometto. Le radici dell'Islam per capire la nostra storia (con L. Capezzone); Orso. Biografia di un animale dalla Preistoria allo sciamanesimo. Scrive su vari quotidiani e riviste e cura la rubrica “Un antropologo nel Medioevo” per il mensile «Medioevo».
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2017
ISBN9788822714770
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    Anteprima del libro

    Tradizioni popolari di Napoli - Claudio Corvino

    Introduzione

    Difficile parlare di Napoli, e ancor più delle sue tradizioni popolari. Per quanti sforzi si possano fare è impossibile osservarla a occhio nudo, come voleva il titolo di un noto libro di Fucini. Perché, se è vero che lo sguardo oggettivo sulle cose è poco più che una vaga aspirazione del positivismo, Napoli d’altronde non è mai stata una città neutrale. Come molte altre scolpite nell’immaginario – Parigi, New York, Roma – la città partenopea non è mai un semplice sfondo, un reticolo di strade, piazze e palazzi che ospita le vite dei suoi abitanti. Sembra essere più – lo scrive Alberto Castellano –

    uno di quei grandi set naturali, uno di quei luoghi che nel cinema diventano molto spesso coprotagonisti […]. Barocca ed eccessiva, violenta ed esuberante, seducente e ingannevole, multiforme e caotica, è uno degli scenari più affascinanti e rischiosi del mondo (per le trappole oleografiche, la difficoltà a catturare le sfumature significanti, le insidie della semplificazione e della parzialità) ed esibisce una diversità che spesso intimidisce l’obiettivo.

    La citazione di un critico cinematografico non è peregrina, perché Napoli ha sempre avuto e ha un problema di sovraesposizione mediatica che riguarda appunto la sua immagine che, alla stregua di un prodotto commerciale, risulta essere quella più esportata nel mondo.

    Napoli è la città in cui più potentemente si sono stratificati gli stereotipi di viaggiatori, intellettuali e artisti che fin dall’Ottocento hanno cercato con il loro Grand Tour un esotico domestico a portata di mano, un mondo arretrato ai limiti del selvatico ma anche dell’elegiaco, abitato da un buon selvaggio, ma locale ed europeo. La narrazione di questo mondo rimasto ai margini delle magnifiche sorti e progressive doveva stupire, doveva essere un dramma in cui il lettore cittadino o il borghese rurale restasse sinceramente coinvolto negli interrogativi esistenziali che le trasformazioni del nascente capitalismo stavano ponendo loro. Inevitabilmente, per ragioni letterarie, tali narrazioni saranno pervase da immagini stereotipate, oscillanti tra la nostalgia di un mondo in declino e la speranza di uno migliore, di descrizioni elegiache di piccoli e grandi drammi popolari che celavano profondi cambiamenti, dai tratti a volte rivoluzionari, che stavano potentemente investendo quei mondi marginali. Anche dopo la stagione verista, questa poetica non fu del tutto abbandonata: come dimenticare le meste descrizioni dei paesaggi abruzzesi di D’Annunzio o quelli sardi di Deledda, i Vermi di Mastriani? Luoghi, e vicoli, abitati da popolazioni semiferine dotate di tumultuosi istinti primordiali che inevitabilmente conducevano a passioni devastanti e folli. Quelle passioni, quei pregiudizi, quelle melense descrizioni, che neanche il tardo Romanticismo riuscì a far convivere con le moderne classi dirigenti ma che pure in qualche modo sottile residuano ancora oggi in quella alterna e costante produzione di film, romanzi, rappresentazioni teatrali, articoli di giornale.

    La stessa cultura popolare sarà una scoperta del Romanticismo, e diverrà un nuovo filone di studi che si legherà ai differenti ed emergenti nazionalismi: sarà in questa fase che si deciderà ciò che di puro resisteva nelle contrade europee o italiane e quanto di corrotto negli usi e nei costumi delle classi urbane e contadine. Tendenzialmente, le prime saranno classi delinquenti – ne vedremo un esempio con il femminello di De Blasio – le seconde pure e conservatrici dell’indole nazionale, almeno nei loro canti, nelle loro fiabe, nelle loro tradizioni. Anche perché quelle urbane cominceranno a essere infettate dal virus del socialismo.

    La tradizione popolare, qualunque cosa si intenda con questo termine, ha anche bisogno di spazi, di luoghi, al pari dello sport, della religiosità, persino dei sentimenti… Ma con l’affermarsi della modernità i suoi spazi d’espressione cominceranno a venir meno: le piazze, i bassi, i fondaci, le taverne, le viuzze. Gli sventramenti ottocenteschi che allargarono le strade di tutta Europa creando i boulevard e i corsi, cercando così di liberare le città dai pericolosi miasmi portatori di malattie, eliminarono le strutture abitative e di sociabilità popolari in favore di più alti, ariosi e savoiardi palazzoni. Lazzari e sans-culottes – coloro che qualche moderno urbanista ha definito ostacoli umani – furono sbattuti via dai loro quartiers dal barone Haussmann a Parigi o dalla Società pel Risanamento di Napoli di turno. Gli spazi destinati alla vita tradizionale si contrassero a beneficio di quelli commerciali o funzionali all’accumulazione capitalistica: lo Stato divenne nemico dei luoghi di aggregazione pubblica. Un’inimicizia che residua ancora oggi in quell’apparente odio verso le panchine delle città. Quelle benedette panchine sulle quali si sviluppa tanta parte dell’oralità tradizionale – dagli inciuci ai commenti politici – oramai stanno scomparendo del tutto. Riappaiono solo nei centri commerciali, uniche pause concesse – tra un acquisto e l’altro – per quei miserabili clienti, destinati a non essere più, forse mai più, cittadini. Perché, si sa, una panchina per strada non fa circolare merci, ma solo idee.

    Eppure a Napoli, come nelle altre città europee, i luoghi deputati alle arti, ai mestieri e alle corporazioni, con il loro corollario di culture locali e specifiche, erano la norma. Come oggi la residua via San Gregorio Armeno, erano tante le strade e i borghi con connotazioni ben definite, come dimostrano a mo’ di lapide i loro nomi: via dei Chiavettieri, vico dei Canestrari, la Porta dei Tornieri (oggi un bar)… Tutti ostacoli urbanistico/culturali che dovevano essere rimossi, per costruire una società borghese apparentemente compatta e levigata.

    Grazie a (o a causa di) queste narrazioni Napoli ha assunto e continua ad avere un posto particolare nell’immaginario europeo: basti pensare al fatto – spiega Camille Gendrault nel suo ultimo lavoro sulla città – che Marsiglia dall’avvento del cinema sonoro appare in circa duecento film mentre la sua gemella Napoli nei vent’anni da lei analizzati appare in non meno di centoventicinque titoli.

    Praticamente la città ha un qualcosa di leggendario, come leggenda è la stessa nozione di napoletanità, stereotipo molto dibattuto e in voga anche tra gli studiosi: è talmente forte che persino gli abitanti delle altre province campane, e a volte del Meridione, vengono riassorbiti in questa categoria, magari come abitanti di serie B. Il problema è che gli stereotipi – come anche i miti, le ideologie, i pregiudizi – pur non parlando di storia, sono in grado di produrre realtà, perché possiedono un’efficacia simbolica: per riprendere un’immagine cara a Ernesto De Martino – e ad Amalia Signorelli che l’utilizza – la napoletanità esiste se e poiché tutto accade come se esistesse. Analizzarne l’efficacia significa osservare come essa si storicizzi producendo a sua volta storia: quante volte si sente di dire – anche dagli stessi napoletani – che siamo fatti così per via del sole, del mare o del clima? Siamo all’accettazione acritica dello stereotipo, alla sua incorporazione – consapevole o meno non importa – che inevitabilmente porta a espressioni come ce l’ho nel sangue, quasi fosse un dato naturale, una sorta di dna culturale.

    Gli stessi napoletani ci credono e anzi hanno elaborato due nuovi elementi che da questi stereotipi direttamente discendono. Il primo è quello che potremmo definire del solo a Napoli: solo a Napoli accadono queste cose, solo qui si trovano certi luoghi, situazioni, palazzi, credenze, riti… Ricordo che persino un libro per le scuole medie pubblicato da un editore locale si intitolava Succede solo a Napoli. Credenza, questa, che nel nostro piccolo si è cercato di combattere in questo volume, tentando di ricollegare tanta parte dei fatti folclorici napoletani alla cultura europea e al suo sostrato tardoantico e medievale. Non a caso il primo capitolo, quello dedicato al culto delle anime pezzentelle, comincia ricollegandone la credenza e il ritualismo alla più vasta mitologia europea altomedievale che ne fa da sfondo.

    Il secondo elemento lo si può osservare continuamente sui social network, e che qui potremmo definire genericamente come i primati di Napoli: la prima linea ferroviaria, il primo osservatorio astronomico, il primo bidet… Primati storicamente forse veri, ma che mettono in secondo piano, quasi cancellano, le condizioni di assoluta povertà nella quale vivevano gli abitanti del Regno, i continui soprusi, le profonde ingiustizie sociali, le pessime condizioni di salute, l’alta mortalità neonatale, il quasi totale analfabetismo. È un po’ come vantarsi del fatto che un presidente del Consiglio vada in giro con un aereo tra i più costosi della categoria. Non si capisce come questo primato possa migliorare la nostra condizione economica, sociale, culturale, sanitaria. Anzi, verrebbe da pensare il contrario.

    In entrambi i casi, quando diciamo solo a Napoli… o quando elenchiamo i presunti primati della città, non stiamo facendo altro che accettare in qualche modo gli stereotipi, magari ingenuamente credendo di capovolgerli a nostro favore, ribaltandone il senso. È un po’ come quando diciamo sono simpatico perché napoletano, inconsciamente accettando tutti i modi di dire, i pregiudizi, i cliché costruiti nei secoli intorno alla città.

    In un gioco di trasmissione della cultura a spirale, gli stereotipi sono entrati nel bagaglio culturale dei napoletani che hanno cominciato a credervi e a indossarli come fossero dei vestiti della domenica da mostrare agli altri, come lieti concetti astratti in cui rifugiarsi quando la vita non soddisfa, come mito dell’età dell’oro cui ricollegarsi quando ci si sente vecchi. O anche come una definizione chiara – non importa se fittizia – che possa servire a non perdersi nell’anonimato della modernità.

    Lo stereotipo della napoletanità è diventato un prodotto doc, al pari della pizza o della mozzarella, nel quale riconoscersi come individuo o come gruppo. Ma il doc non sempre garantisce (l’abbiamo visto recentemente) che la mozzarella sia buona o che il pizzaiolo non bruci la pizza.

    Nozioni come quelle di identità e tradizione non sono qualcosa di immutabile che la storia, il passato, ci ha trasmesso da padre in figlio. Sarebbe rassicurante crederlo, ma non è così. Così come anche utilizzare un pregiudizio a volte può dare l’impressione di fare una cosa utile: si risparmia tempo, si pensa di meno, dona una certa effimera e transitoria sicurezza e, inoltre, al pregiudizio come allo stereotipo ci si affeziona, come quei luoghi dell’infanzia non belli ma che consideriamo tanti anni dopo ancora nostri. Ma così facendo si rinuncia al pensiero critico, l’unico che, alla lunga, serve realmente a comprendere il mondo e a viverci pienamente e civilmente. La napoletanità – comunque la si prenda – è un prodotto culturale, un modo di pensare e di essere visti, che a sua volta produce storia: come tutti i prodotti collettivi, solo collettivamente potrà essere distrutto.

    Persino la memoria, che è alla base di ogni tradizione o discorso identitario, della stessa percezione di se stessi, non è mai qualcosa di scontato e definitivo, di oggettivo. In un esperimento condotto da Daniel Schacter, psicologo all’università di Harvard, su di un gruppo di ragazzi appena diplomati, il 33 per cento di essi raccontava nelle interviste di aver subito punizioni corporali a scuola. Trent’anni dopo, tra gli stessi soggetti, la percentuale di coloro che affermavano la stessa cosa era salita al 90 per cento. Certo, i dati sono spiegabili anche in modi alternativi, ma sta di fatto che tanti altri esperimenti di psicologia dimostrano che il passato, come il futuro, non esiste realmente per come noi l’immaginiamo. L’antropologia ci ha mostrato come la memoria, la tradizione, l’identità, che molti – soprattutto i politici di destra – attualmente utilizzano come bandiere attorno alle quali costruire consensi elettorali, non sono principi immutabili ereditati come una casa dai genitori, ma il frutto di una serie di azioni (politiche, sociali, culturali, di mercato) che collettivamente decidiamo di intraprendere: un patrimonio di cose, fatti, credenze e luoghi che scegliamo di costruire, un bene collettivo.

    Ecco perché noi possiamo sempre avere una parte attiva nella costruzione di una tradizione: gastronomicamente, e a Napoli, potremmo per esempio decidere di puntare sul tradizionale scagliuozzo (triangolo di polenta fritto: che ironia!) anziché sul babà, ma l’importante è sempre che sia una decisione politica libera, democratica e condivisa. Perché il commercio e il mercato hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nell’invenzione della tradizione, come ci hanno mostrato Hobsbawm e Ranger.

    Liberarsi dagli stereotipi, dicevamo, può significare anche riflettere sulla nostra cultura e in qualche modo intervenire sia sulla sua immagine all’esterno sia sulla politica culturale adottata: se la cultura napoletana è un patrimonio, noi quel patrimonio possiamo incrementarlo o cambiarlo, in qualche modo. Nei prossimi capitoli si parlerà, per esempio, di presepi, ma anche di via San Gregorio Armeno e del pacchetto vacanze Natale a Napoli che attualmente tira più del Villaggio di Babbo Natale a Rovaniemi. Queste preferenze turistiche dei nostri vicini italiani ed europei, lo vedremo, sono nate dal basso, fondamentalmente grazie a un manipolo di artigiani che non hanno voluto cedere i loro spazi alle pizzetterie, ai bar, ai negozi di gadget… Sono riusciti, cioè, a innestare una tradizione turistica su di una precedente tradizione presepiale che però era abbastanza ristretta, o perché appartenente a un’élite colta, o perché di appannaggio esclusivamente locale.

    Napoli oggi è piena di realtà culturali, civili e associative che vogliono e possono prendersi cura del territorio e gestirlo, facendo politica anche al di fuori dei campi d’elezione dei partiti. Pensiamo alla recente fondazione dell’auditorium Pietro Russo, caro amico e coordinatore dell’area web dell’orchestra sinfonica dei Quartieri Spagnoli, prematuramente scomparso. Anch’esso si ricollega all’antica tradizione musicale napoletana, ma in una declinazione diversa da quella stereotipa del mandolino. Questo vale anche per le tante e degne associazioni musicali – di livello nazionale –, per il più distante Parco Letterario Vesuvio, per i centri sociali – da Officina 99 all’ex opg occupato Je so’ pazzo – e per le tante altre realtà e forze che si impegnano quotidianamente nelle politiche culturali della città, utilizzando anche le nuove forze intellettuali degli immigrati. Sarebbe anzi il caso di ascoltare attentamente questi processi di produzione culturale che esistono e si creano continuamente in città: nuove e interessanti tradizioni potrebbero uscirne fuori.

    CAPITOLO PRIMO

    Il calendario rituale

    In inverno, quando la luce del giorno comincia a diminuire, come anche il calore del sole, gli uomini si avvicinano l’uno all’altro per difendersi dal freddo e dal buio che inevitabilmente avranno il sopravvento sulla bella stagione. Nel mondo della cultura popolare napoletana – e meridionale in genere – dove si conoscono solo due stagioni, vierne e ’a staggione, l’inizio dell’inverno è vissuto un po’ come l’ingresso dell’Inferno sulla terra, e in effetti, da un punto di vista simbolico, è come se le porte dell’aldilà si aprissero e i morti cominciassero a visitare la terra. Una visita in genere vissuta con serenità e che avrà varie forme di comunicazione: attraverso i sogni soprattutto, ma anche per mezzo di immagini, racconti, luci e voci. Una visita che si concluderà inevitabilmente alle soglie della primavera, a febbraio con la Candelora o con la festa di san Biagio, santo patrono molto particolare che accompagna le anime e tutto ciò che si immagina come incorporeo, come i soffi di cui in qualche modo, lo vedremo, è patrono e padrone.

    La stessa visita napoletana ai defunti il 2 novembre – antica commemorazione voluta dall’abate Odilone di Cluny nel 988 nei conventi benedettini e da papa Giovanni xix nel 1006 in tutta la Chiesa – non ha tonalità lugubri o tristi: il ricordo e il contatto con i propri cari – «Ognuno ll’adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero», scriveva Totò nella sua ’A livella – viene accompagnato da atmosfere rese più vivaci dagli incontri con amici e parenti. La tristezza dell’evento sembra sciogliersi all’uscita dal cimitero, dove ancora residuano come memorie infantili le bancarelle di torrone – il cibo dei morti per eccellenza – di arachidi e di noccioline, di semi di zucca abbrustoliti e cachi e melograni che, essendo i primi frutti della ventura stagione, divengono segno di speranza e del nuovo che verrà. Non è un caso che nell’antichità classica fossero i frutti destinati alle tombe e ai defunti.

    Lo stesso rinvio a messaggi di vita e di speranza lo ritroviamo nella tradizione pasticciera legata a questo periodo, quando nelle vetrine si espongono torrone, di colore soprattutto bianco, susamielli (un tempo sesamelli perché ricoperti di semi di sesamo) e i durissimi roccocò: tutti tradizionalmente fatti con le mandorle, equiparabili in qualche modo ai semi. Un tempo si usava preparare anche una papparella dei morti, con zucchero, confetti e paste morbide e, nel Casertano, la pastellessa (in genere a Sant’Antuono, il 17 gennaio), fatta con castagne secche rivivificate e lessate nell’acqua, insieme alla pasta (past’ e ’llessa).

    Elementi secchi e semi, in qualche modo dormienti o morti che vengono vivificati dall’acqua, ritorneranno spesso nelle tradizioni gastronomiche del periodo invernale.

    A proposito delle relazioni dei vivi con i defunti, il nostro amico e maestro Alfonso di Nola scriveva: «Il rapporto moderno tra viventi e morti sembra assumere sempre di più il carattere dell’indifferenza. Una volta che il morto viene depotenziato in cadavere, ciò che è implicito nel concetto di morte naturale, diventa inutile».

    La nostra civiltà sembra infatti aver esautorato la morte, consegnandola al nulla o figurandosela in un mondo altro, in un altrove in genere definito Paradiso, raramente Inferno perché nessuno, in fondo, ama avere amici o parenti tra le fiamme. Luoghi opposti e diversi, purché lontani dal mondo dei viventi. Nelle società di tipo arcaico o tradizionali, invece, sembrava non esistere una netta frontiera tra vivi e morti, perché il defunto non era mai definitivamente perso alla terra, acquistando soltanto un modo elementare di esistenza: la morte in fondo è solo una regressione, non una estinzione definitiva. Nei contesti tradizionali napoletani ancora si dialoga con i defunti: appaiono in sonno, danno i numeri da giocare al lotto, comunicano attraverso medium, oggetti, luci. Hanno desiderio di vivere ancora e di stare con i vivi, volontà espresse dal concetto, tutto umano, di fame o sete dei morti. Le stesse fame e sete di cui soffrono i poveri che chiedono l’elemosina: «Facìtelo pe’ ll’anime d’ ’o Priatorio», gridano i questuanti napoletani e, in uno scambio simbolico, le anime del Purgatorio sono chiamate anime pezzentelle, dal latino petere, chiedere, da cui anche pezzente.

    Un’analoga equiparazione tra morti e poveri la ritroviamo già alla fine del Quattrocento raccontata dal conte Walramo. O meglio dal suo spettro, che implora, secondo Giovanni Tritemio, «di chiedere a mio figlio da parte mia di far recitare ogni giorno per trenta giorni trenta messe perché io sia liberato, di dare da mangiare ogni giorno ad altrettanti poveri e di donare loro un vestito nuovo».

    Ma il rapporto dei napoletani con i morti è ben visibile in una serie di storie e di riti che ancora si raccontano e si svolgono in città, in quelle nicchie a loro destinate che troviamo nei vicoli e nei luoghi di culto della città, nonostante la Chiesa ufficiale abbia fatto di tutto per eliminarne il ricordo, salvo poi recuperarlo per motivazioni diverse da quelle devozionali.

    Il nostro viaggio comincia con un racconto, anzi con due.

    napoli-corteo-funebre

    Corteo funebre a Napoli, in un’incisione ottocentesca di T. Duclère. Notare, sullo sfondo, il Caffè dell’Allegria.

    Nani e spiriti dell’aldilà

    Un giorno un uomo misterioso, dal volto fiammeggiante e dalla barba rossa, la testa enorme e i piedi caprini, andò a visitare Herla, il re degli antichi bretoni. Alto quanto un pigmeo e a cavallo di una capra, si presentò al suo cospetto dicendo di essere re di «sterminate genti, inviato da loro»: «Tu non mi conosci – disse rispettosamente a re Herla –, ma io sono felice della fama che ti innalza al di sopra degli altri re […] e sei degno di nobilitare le tue nozze con me convitato». Inoltre, suggellò solennemente e unilateralmente un patto: «Che io assista prima alle tue nozze, e quindi tu alle mie nello stesso giorno, dopo un anno». Dopo aver partecipato alla cerimonia nuziale donando regali e favori a destra e a manca, lui e i suoi servi sparirono, al canto del gallo.

    Un anno dopo toccò a re Herla ricambiare la cortesia. Il palazzo del piccolo re si trovava in una grotta non illuminata né dal sole né dalla luna ma da una miriade di fuochi. Qui si svolsero le nozze, al termine delle quali Herla prese congedo, ma non prima di aver ricevuto dal pigmeo sontuosi doni e un piccolo cane di razza, che avrebbe dovuto portare sempre in braccio. Raccomandò infatti a re Herla di non scendere mai da cavallo, lui e il suo nutrito corteo, prima che «quel cane non fosse balzato via dalle braccia di chi lo reggeva».

    Tornato nel suo mondo, Herla fu informato che erano trascorsi duecento anni dalla partenza, che a lui sembrava avvenuta appena tre giorni prima. Mentre cavalcavano, un uomo del suo corteo tentò di scendere da cavallo, ma non appena quegli toccò terra, si disintegrò immediatamente in una nuvola di polvere. Herla capì che quell’episodio era legato al cagnolino e a quanto gli aveva raccomandato il re del mondo sotterraneo, così ordinò a tutti di non scendere da cavallo finché non l’avesse ordinato lui. Ma come aveva forse già intuito, il cagnolino non scese mai. Ancora oggi, in molte zone d’Europa, si dice si possano ascoltare i lugubri rumori di un esercito di soldati al galoppo nel buio della notte.

    Walter Map, nel suo De nugis curialium (Svaghi di corte, un’opera iniziata nel 1181 e completata postuma), aggiunge un finale alla storia: «La leggenda racconta che il re Herla continua la sua folle corsa con il suo esercito, in un vagare che non ha fine, senza riposo né arresto».

    Queste anime dannate, costrette a vagare per la terra senza mai posarsi o potersi fermare, sono dello stesso tipo di quelle che si raccontava abbia incontrato, un secolo prima, un prete di nome Gualchelmo in una fredda notte di gennaio del 1091 nel nord della Francia, nel dipartimento di Calvados, divenuto famoso per il suo omonimo liquore. Qui un vero e proprio esercito di morti sfilò sotto i suoi occhi: alcuni erano fanti, altri ladri, alcuni morti di recente, altri sconosciuti. C’era anche un gruppo che portava in spalla delle bare sulle quali erano seduti degli «uomini piccoli come nani», come re Herla. Uno di quei disgraziati, legato a un grosso tronco, urlava come un ossesso mentre «un demonio orribile, seduto sullo stesso tronco, lo martoriava aspramente nei fianchi e sulla schiena con speroni infuocati, facendolo grondare sangue».

    Gualchelmo si trovò di fronte a un esercito simile a quello che seguiva re Herla che, come scrive Orderico Vitale nella sua Storia ecclesiastica, «sine dubio familia Herlechini est», cioè è della famiglia di Herlechino, il gigante con una grossa clava e con il suo seguito di anime dannate, nei secoli diventato il famoso Arlecchino.

    Queste due storie fantastiche raccontano del mito, diffuso in tutta Europa, della Caccia selvaggia, detta anche Wilde Jagd, Wilde Hunt, Chasse Sauvage, Esercito Infernale e in tante altre varianti locali. È il mitico esercito formato dai morti senza pace, implacati perché periti anzitempo, interrompendo così il corso di quella vita che la natura o il fato aveva destinato loro. Una credenza risalente almeno agli astrologi della Grecia antica, quando si credeva che al momento della nascita ciascuno avesse scritto nelle stelle il suo destino, compreso il momento del decesso. Coloro che sfuggivano a questa legge astrologica erano detti biothanatoi, termine che con il trascorrere del tempo ha preso a indicare varie cose: dai suicidi agli annegati, dai morti per incendio, per fame o per sete, ai soldati che muoiono in battaglia. Erano coloro che morivano prima che fosse giunta la loro ora e costretti così a vagare fino a che non si fosse compiuto il loro fatum.

    Le caratteristiche di questi morti implacati cambieranno nei secoli e nei diversi contesti geografici: nella descrizione di Orderico sembrano assumere i tratti delle anime purganti, offrendoci così indirettamente una importante testimonianza dell’elaborazione in corso in quegli anni dell’idea del Purgatorio (la cui storia è stata magnificamente raccontata da Jacques Le Goff nel suo La nascita del Purgatorio), un luogo mediano dove sarebbero finite le anime di coloro che non era giusto andassero all’Inferno, ma neanche in Paradiso.

    Le anime incontrate da Gualchelmo elencano le proprie colpe e si raccomandano ai vivi affinché i torti da loro commessi siano riparati dai parenti rimasti sulla terra e, confessano, gli strumenti delle loro pene sono gli stessi con i quali in vita avevano commesso i loro peccati: il fratello di Gualchelmo, per esempio, un soldato che era solito spronare il suo cavallo in battaglia per far strage di nemici, dopo la morte viene tormentato da pesanti speroni infuocati.

    Insieme a Hellequin i cieli europei erano solcati anche da un nutrito carosello di anime femminili che seguivano una misteriosa figura variamente denominata Erodiade, Frau Holle o più familiarmente Diana, l’antica dea della caccia. Una masnada speculare a quella già vista di uomini che formavano il virile exercitus mortuorum dei soldati morti anzitempo. Entrambe le masnade, femminile e maschile, cominciarono a essere considerate infernali e diaboliche quando verso il xii secolo si andò affermando il concetto di Purgatorio.

    Fu allora che queste anime furono tirate giù dai cieli notturni per essere ridotte e segregate nel più ordinato e controllato interregno.

    Quelle che fecero resistenza si ritrovarono condannate a essere considerate demoni, o semplicemente leggende, favole, spauracchi per bambini o superstizioni.

    Anime che piovono dal cielo

    Alcune di queste anime ribelli e claustrofobiche al Purgatorio rimasero impigliate nella rete della religiosità popolare dei vicoli e dei cunicoli sotterranei di Napoli, dove si trovano ancor oggi insieme a particolari credenze, gesti e preghiere che sembrano provenire da quelli medievali, rivisitati in chiave locale e con una narrazione molto particolare che l’accompagna: il culto delle anime purganti, localmente dette anime pezzentelle. Questo culto ha una storia che sembra coprire l’arco di poco più di un secolo ma, come raccontano le leggende appena riportate, in realtà si collega a un sostrato mitico e religioso ben più antico.

    Stefano De Matteis scrive che questo culto, questo rito

    mescola al proprio interno più tracciati: la peste del Seicento e la morte senza cordoglio con cadaveri seppelliti un po’ dappertutto; il Risanamento napoletano di fine Ottocento, quando furono ridisegnati interi quartieri e da sottoterra emersero molti resti umani cui si dovette dare una collocazione; fino al trasferimento dei cadaveri dagli ipogei delle chiese ai cimiteri, cui si aggiungono le pratiche funerarie dei poveri, in parallelo a quelle legate al seppellimento che stabiliscono le tecniche tradizionali del cordoglio e la relazione con il morto/la morte.

    Un sostrato antico – dicevamo – e una devozione alle anime del Purgatorio che è stata sempre viva a Napoli, almeno dal Seicento, come leggiamo in alcune pagine tratte da La fortuna dell’huomo dall’anime purganti di padre Gregorio Carfora. Qui il devoto Gregorio è talmente convinto della bontà e dell’operatività delle anime del Purgatorio da raccomandarle per ogni cosa si desideri, visto che costoro hanno una grande esperienza in tribolazioni: chi meglio di loro, dal momento che «raggion vuole che chi fu liberata dalle fiamme, liberi ancor dal fuoco il suo benefattore». Con un linguaggio a metà tra il barocco e quello di un piazzista, il padre garantisce: «Ti ritrovi ò innocente, ò giustamente in carcere […] libera con le tue orationi l’Anime Purganti, e ti vedrai inaspettatamente sciolto dalle tue catene».

    Amante della magniloquenza, scrittore prodigo di figure retoriche come iperboli, ossimori e metafore, invita i napoletani ad affidarsi ciecamente alle anime purganti, come d’altronde faceva egli stesso:

    Io […] prima m’assicuro con suffraggij della gratia dell’Anime, e poi infallibilmente scorgo adempito il mio intento. So moltissime persone, che hanno l’istesso costume, e la passano bene in tutte le cose. Fate così ancor voi, havete a seminare, raccomandate la vostra semina all’Anime, con fargli celebrar delle Messe, conforme la vostra possibilità; havete da raccorre, fate l’istesso. […] havete à far viaggi pericolosi, intraprendete à ventilar la vostra giusta causa ne tribunali, dove poco regna la giustitia, date memoriale per qualche sospirata carica; ricorrete prima all’Anime, con soccorrerle ne loro bisogni, e così fate in ogni vostra occorrenza, e poi conoscerete, se hò cercato d’ingannarvi.

    Le raccomandazioni sono per tutti: per gli agricoltori che lamentano la siccità e per coloro che invece rischiano i raccolti per la troppa pioggia: «fate à mio modo […] fate cader sopra il Purgatorio una pioggia del sangue di Christo per mezzo del sagrificio della messa, e vedrete serrate le cataratte del Cielo, e uscir il Sole ad asciugar con suoi raggi i fiori coperti dalle lagrime».

    Tra ossimori e iperboli c’è spazio anche per racconti, interessanti per il loro carattere militare, che riporta alla mente sia i racconti medievali appena visti, sia quelli che incontreremo tra poco nei sogni dei napoletani.

    L’entusiastico padre Carfora narra la storia «d’un certo Duca di Sardegna nomato Eusebio», così tanto devoto alle anime purganti che aveva preposto che tutte le rendite della città più ricca del suo regno andassero in loro suffragio, per ciò quella città si chiamava la Città di Dio. Ma un giorno questa fu assediata e occupata dal duca di Sicilia Ostorgio e dal suo enorme esercito. In aiuto a Eusebio venne allora un altro esercito, formato da cavalieri «coperti di candide vesti, con una croce rossa in petto, che imbracciavano scudi d’oro, che ripercossi da raggi del Sole, parevano luminose stelle». Domandato lo stupefatto Eusebio chi fossero loro, ne ebbe la seguente risposta: «Noi tutti fummo Anime del Purgatorio, che per mezzo della vostra carità sorvolammo à godere i sempiterni contenti. Voi cõ i vostri suffraggij c’havete guarniti di sì candide arme, segno che siamo della militia del Cielo».

    Altre volte le anime possono prendere forma umana e diventare soldati o birri, come in un’altra storia di furto narrata da Carfora, o ancora venire in soccorso dei bisognosi, come lo era la donna

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