Psicopatologia del genio condominiale: Memorie di un Amministratore di Condominio
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Alcune tristi, altre esileranti, altre ancora inverosimili se non fosse che sono state vissute dall'Autrice. Un libro che vuole essere uno spunto di riflessione scanzonato ma vero sulla capacità umana di adattamento alla distopia.
Storie di solitudini, ossessioni e vizi che riflettono pedissequamente il tessuto sociale in qui avvengono.
Perché amministrare un condominio è, prima di tutto, un esercizio di cuore.
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Anteprima del libro
Psicopatologia del genio condominiale - Silvia Invernizzi Rumi
sempre.
CAPITOLO I
Xville
Xville
L'ambiente in cui ho scelto di radicare la mia professione, che chiamo Xville, merita un'osservazione approfondita.
La provincia è provincia ovunque nel mondo ma la mia è più provincia delle altre. Xville – 33.000,00 abitanti circa – ha profonde origini contadine dovute alla fortunatissima posizione territoriale nella pianura padana.
Fu territorio di insediamento delle maggiori popolazioni antiche: celti, galli e longobardi.
Nel medioevo fu riserva di grano della città di Milano e, più tardi, luogo di vacanze e di battute di caccia dei Visconti.
Il primo abbozzo di insediamento urbano fu rappresentato dalle abitazioni del personale di servizio addetto al castello e rimase più o meno così fino al XIX secolo.
Un fiume a portata di mano, la ramificazione dei Navigli quasi in centro città, vaste distese di risaie in primavera e foreste di grano turco durante l'estate. E noi lì nel mezzo con i nostri campanili, il mercato del venerdì e l'odore del letame al tramonto.
Al margine, le fabbriche e le industrie che han traghettato il nostro ridente paesone nell'era moderna facendone la fortuna più recente.
Un richiamo ineguagliabile che spronò il figlio del fitaul (affittuario di terreno agricolo) e del campé (colui che si prende cura del campo coltivato controllando l'andamento delle acque irrigue) ad alzare la schiena dalla terra per curvarla sulle linee continue delle catene di montaggio che nascevano come funghi sotto l'indotto della Milano quasi da bere.
Un richiamo che presto si tradusse in necessità di abitazioni.
Più urbani = più costruito.
Fu così che gli anni dello sviluppo industriale italiano furono impressi a calce - o meglio, calcestruzzo - nel nostro tessuto urbano disegnando, sull'orizzonte di pioppi e gelsi, dozzine e dozzine di palazzi.
Superata la soglia del ragionevole adeguamento abitativo, a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80, il tessuto residenziale subì un ulteriore incremento: ai miti palazzi con le facciate in piastrelline di bisazza verde, gli sfondati giallini e le veneziane in tinta seguirono costruzioni molto più connotate ed irruenti come la moda del momento voleva.
Le creature dei vari Renzo Piano de' noartri attirarono nel giro di pochi anni anche l'attenzione del milanese d.o.c. che cominciava a sentirsi stretto nelle maglie della metropoli.
Ciò significò lo spostamento di migliaia di veri urbani alla conquista del loro personale pezzo di campagna. Campagna socialmente accettabile per la townsfolk de Milan: indigeni pseudo-civilizzati, tasso di microcriminalità tendente allo zero, autonomia urbana e più che adeguate vie di fuga nel caso di un'improvvisa crisi da carenza di civiltà, trovandosi a venti minuti circa di auto dalle porte dell'Urbe.
Ancora più appetibile – per me si tratta dell'elemento essenziale - fu il fatto che con il denaro necessario ad acquistare un bilocale in fondo a viale Zara, qui ci si poteva permettere un superattico in pieno centro storico.
Gli anni a cavallo del nuovo millennio hanno visto un'ulteriore impennata di trasferimenti e di conseguenza l'incremento del costruito.
Dal punto di vista morfologico, la varietà delle linee era piuttosto monotona.
Come in tutti i paesoni che si rispettino, a costruire erano sempre i soliti noti tanto che ancora oggi, passeggiando con un minimo di spirito di osservazione, non è difficile riconoscere la loggia a prisma del geometra X, il tetto di riminiscenza altoatesina dell'architetto Y, il simil tempietto greco con timpano rosa in campo grigio e colonnato ionico del geometra Z che, personalmente, mi fa più tristezza dei nanetti di gesso disseminati nei giardini delle villette unifamiliari della periferia anni '60, quelle costruite in serie dal signor G. Parlare di alveari nel caso di Xville è un'esagerazione. Diciamo piuttosto medio-piccoli groviera colorati senza un vero connotato architettonico e con caratteristiche sempre meno competitive per quanto riguarda il rapporto qualità/prezzo ma sempre molto appetibili per i milanesi che qui trasferivano la residenza.
Ma non le loro abitudini, i loro rituali, la loro spesa del sabato che restava e resta a Milano.
Nonostante lo strenuo tentativo di resistenza e di difesa da parte dei villici della quasi totale indipendenza territoriale, economica e culturale, l'ombra della periferia dormitorio ha avviluppato inesorabilmente anche questo luogo incantato. Complessi di una decina di palazzine e una dozzina di villette a schiera ubicate nelle periferie ammiccavano dai cartelli appesi ai sostegni della metropolitana come richiami per allodole. Venivano venduti come oasi di pace e natura a pochi chilometri dalla grande Milano al prezzo di un garage in zona Inganni
. Edifici fatti in serie un tanto al metro da costruttori inventatisi lì per lì, presenti in cantiere il tempo necessario per vendere il vendibile e scomparire in una nube di fumo.
L'affare del secolo si rivelava molto spesso l'inculata del secolo che lasciava tanto amaro in bocca e un mutuo trentennale sul groppone.
Con il passare del tempo le cose sono solo peggiorate.
All'aumentare dei trasferimenti ad Xville si è assistito al diminuire dei servizi che rendevano questa città di provincia una vera oasi residenziale.
E' stato un baratto.
Per ogni complesso condominiale costruito, ci è stato tolto un pezzo di civiltà.
Abbiamo assistito muti alla chiusura della piscina comunale, all'abbandono dei cinema e dell'unico teatro, al trasferimento della Pretura, del Tribunale, dell'Agenzia delle Entrate, alla delocalizzazione delle maggiori industrie e alla serrata di decine e decine di negozi.
Ed ora, forse, ci ruberanno anche l'ospedale.
E' naturale che una città, un qualsiasi insediamento, privato dei suoi servizi essenziali sia destinato ad avvizzire e scomparire.
Lo skyline di cui andavamo così fieri si è trasformato in un nauseabondo cimitero di elefanti in decomposizione di cui non si può non percepirne l'odore acre e pungente che sa di tristezza, impotenza e desolazione.
Va da sé che anche l'appetibilità del nostro tessuto urbano attrae un tipo di umanità diversa da quella precedente, una tipologia di residenti che 'prende' senza 'dare' in cambio energia e linfa nuova.
E forse è proprio da questo momento che ha preso avvio il fenomeno curioso del fattore F
come fantasma. Nonostante l'evidente stato di crisi in cui versa Xville, qui, si continua a costruire.
Centinaia e centinaia di metri cubi, destinati a rimanere inanimati, deturpano il verde dei nostri prati, come una macchia di sugo sul vestito della domenica.
Rassegnati a rimanere lì, silenziosi e vuoti, a ricordare la follia di questi anni scellerati.
Breve genesi del Condomino di Xville
La distribuzione sociale di Xville fino all'inizio del XX secolo è rimasta pressocchè invariata dalla notte dei tempi.
I maggiori possidenti, rappresentati dalle famiglie storiche e dai bresciani e bergamaschi che negli anni precedenti si erano trasferiti con le famiglie per