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A Mezzogiorno che ora è?
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E-book87 pagine1 ora

A Mezzogiorno che ora è?

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"A Mezzogiorno che ora è?" Romanzo con valenza sociale che prende spunto da fatti realmente accaduti. Un giovane architetto meridionale vive a Parigi da anni, dove si è affermato come valido professionista. Da tempo, non torna in Italia verso cui prova sentimenti di ostilità per la mancanza di opportunità lavorative che ha costretto un'intera generazione di intellettuali ad emigrare. La morte improvvisa di una zia, per lui molto importante, lo costringe a rientrare.Il viaggio di ritorno farà venir meno le tante contraddizioni esistenziali alla base della sua perenne inquietudine e si rivelerà un'opportunità anche per il Sud, da sempre vittima di una classe dirigente e politica incapace di promuovere soluzioni realistiche tali da emancipare una terra ricca, ma paradossalmente povera.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2022
ISBN9791221420692
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    Anteprima del libro

    A Mezzogiorno che ora è? - Porzia Fidanza

    1. RICORDI

    Vivevo la mia vita di emigrante intellettuale a Parigi, una città pulsante che aveva accolto molti di noi, generazione anni ottanta-novanta, in cerca di un’esistenza che compensasse i nostri investimenti formativi.

    L’Italia ci aveva offerto una buona preparazione culturale che, arricchita da esperienze Erasmus, ci apriva orizzonti professionali anche lontani, ma non sempre voluti. In tanti avremmo desiderato realizzare idee, esprimere creatività in Italia in modo da provocare una reazione a catena che consentisse una crescita socio-economica memorabile, ma il tradimento del sistema era una prassi consolidata e l’unica prospettiva che rimaneva era l’avventura verso l’estero.

    Con una laurea in Architettura e un buon tirocinio, prestato sempre gratuitamente, ero partito per la Francia in cerca di fortuna e lì, dopo un po', si erano aperte delle opportunità. Da semplice dipendente, ero diventato associato di uno studio specializzato in rigenerazione e riqualificazione urbana e paesaggistica.

    La mia esistenza scorreva intensamente, tra lavoro, un selezionato numero di amici e tanti viaggi, sempre alla ricerca di un qualcosa che appagasse il mio perenne stato di insoddisfazione. In questo mi sentivo un autentico lucano, mai capace di godere del momento, sempre in affanno contro il tempo, con le idee che mi fiondavano senza lasciarmi pace e la voglia di realizzarle.

    Il clima parigino era favorevole al dinamismo innovativo, si respirava un’aria frenetica e competitiva, come ai tempi del Prefetto Haussmann, il grande rinnovatore di Parigi ai tempi di Napoleone III. Haussmann, con le sue idee lungimiranti, aveva fatto di Parigi la capitale d’Europa con un piano regolatore all’avanguardia per la modernità delle infrastrutture, per la realizzazione di aree verdi e parchi pubblici, per l’edilizia e per l’aspetto culturale espresso da musei e teatri.

    Spesso, mi interrogavo sul mio stato di malessere interiore e arrivavo sempre alla stessa conclusione. Nonostante lo stimolante ambiente in cui vivevo, avevo il cuore e la mente divisi tra le mie due dimensioni di vita, quella vissuta in Italia e l’attuale.

    Avevo studiato nella Caput mundi, tale sotto tutti gli aspetti, ma la Roma che avevo amato di più non era solo la città dei monumenti di pietra per i quali era oggetto di richiamo turistico, ma la Roma della cordialità, della signora che, mentre aspetti la pizza ordinata, ti sorprende dicendoti Nel frattempo, vuoi assaggiare questa appena sfornata?, rispondi di non voler approfittare e lei insiste, ti chiede di dove sei, cosa fai, si interessa a te, non per curiosità, ma per condivisione esistenziale.

    Nella seconda vita, invece, tutto scorreva in modo accelerato, era impossibile godersi persino un caffè perché era già il turno di un altro e a nessuno importava niente di te. Mi chiedevo se anche a Roma fosse tutto cambiato, forse sì, in fondo, ero consapevole del fatto che noi giovani siamo destinati a sentirci sempre disturbati, pretendiamo discrezione, ma quando la stessa diventa indifferenza totale, rimpiangiamo la curiosità umana affettiva.

    Quella sera, rientrai tardi, ero molto stanco, avevo affrontato una giornata pesante tra riunioni e telefonate di lavoro, avevo, finanche, dimenticato di attivare il mio cellulare personale, quando lo presi tra le mani, vidi ripetuti messaggi WhatsApp e tentativi di chiamate. Affacciatomi sulla Ville Lumière, chiamai mio padre, mi rispose con una voce rauca e stanca e mi disse che la zia ispiratrice della mia educazione e formazione era venuta a mancare. Mi informò sul funerale, poi, il silenzio, né domande, né richieste.

    Parigi era in festa. Da una settimana, concerti e iniziative culturali si alternavano nei quartieri storici, illuminati a giorno, e quell’atmosfera si scontrò con la mia indifferenza, con il buio dentro di me. Il tempo, d’un tratto, smise di scorrere, si fermò, l’unica variabile che l’uomo non può dominare, si paralizzò. Superando lo spazio e la velocità creò un vortice in cui i ricordi si affollarono, inizialmente, in modo disordinato.

    Il passato prese il sopravvento e mi portò a riflettere che non diventa mai remoto, perché ti ha forgiato e quello che sei è il suo frutto. Io ero quello che avevo vissuto, ascoltando, vedendo quanto accadeva, innanzitutto nella mia famiglia e, poi, nella comunità del mio paese, nelle città in cui avevo studiato e trascorso la mia giovinezza.

    In quel frangente, dopo la telefonata, con lo sguardo fisso alla finestra, riaffiorarono i momenti più incisivi dei miei primi tredici anni e ricomparvero le figure che più mi avevano accompagnato nella mia crescita, in primis, mio nonno Rocco, un omone rude con tutti, forte, con delle mani grandi, callose e rese dure dal lavoro della terra.

    Nonno, negli anni sessanta, come la maggioranza dei meridionali, aveva tentato di emigrare e di stabilirsi tra le colline senesi, le più simili al territorio di Oppido, ma per lui lasciare la Lucania era troppo doloroso e, mentre tutti vendevano e svendevano l’amara terra, decise di rischiare. Comprò piccoli appezzamenti, indebitandosi fino al collo, convinto che con un duro lavoro familiare avrebbe fatto produrre quella avara argilla sempre arsa.

    Quando gli chiesi perché non sei andato via anche tu, visti i grandi sacrifici di tutta la famiglia?, pensai a una risposta scontata, ma mi sorprese Per la luce, come arriva il sole al Sud, a prima mattina e durante il giorno, non arriva da nessuna parte. Il sole asseta la terra, ma dà sapore unico ai frutti.

    La mancata disponibilità di acqua per far produrre la terra e radicare ad essa un tessuto sociale agrario emancipato era l’atavico problema del Mezzogiorno, irrisolto anche dalla Riforma Fondiaria degli anni cinquanta e lo fu anche per mio nonno. La collina, scelta come luogo dei suoi sogni, aveva la stessa difficoltà, ma lui era ostinato e cercò l’acqua con lo stesso accanimento dei cercatori d’oro, perché l’acqua è oro. Nonno era straordinario nell’osservazione dell’ambiente naturale circostante, laddove c’erano le canne, i pioppi o gli olmi asseriva che potesse esserci l’acqua e dopo tante ricerche, validate dai suoi bastoncini di rame, l’acqua zampillò. La sorgente, tuttavia, era lontana dalla piccola masseria e fu allora che misurando in parallelo i luoghi, inseguì più in alto la falda e con il principio dei vasi comunicanti di Archimede l’acqua

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