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Kant a Reggio
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E-book216 pagine3 ore

Kant a Reggio

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Mi chiamo Giorgio Ricci, sono nato nel 1956 a Novellara (RE), dove ho sempre vissuto. Ho soltanto la licenza media e ho fatto il postino per 38 anni. Ho scritto un romanzo, forse, stravagante e fuori di testa, a partire dal titolo.

La storia d’amore tra due adolescenti nell’anno 1972 – una bella ragazza emancipata e uno sfigato dell’oratorio parrocchiale – racconta, da se stessa, senza bisogno di artifici, il delirante declino della cultura europea. Basta soltanto una vera storia d’amore, col semplice apporto dei suoi incantevoli luoghi comuni, per smascherare gli infernali propositi del pensiero filosofico che comanda la moderna società dell’occidente (e, ormai, il mondo intero). Non ci si aspetti un libro educato, o, peggio ancora, delicato. Né ci si meravigli del tono irrispettoso nei riguardi dei più “venerati maestri” della “colta” Europa. È un romanzo raro, non per meriti miei, ma, più semplicemente, perché vi si difende la tautologia. E l’amore, fra i ragazzi, si sa, mira sempre alla tautologia. A chi ha orrore della parola in questione, rivolgo, fin da subito, un cordiale, sincero saluto. Ma a chi è stanco delle ormai secolari menzogne del mondo culturale europeo, consiglio di leggerlo. Non si annoierà. E, se si annoia, conoscerà, almeno, una visione diversa del mondo in cui si trova a vivere.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2019
ISBN9788831642699
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    Kant a Reggio - Giorgio Ricci

    Giorgio Ricci

    Kant a Reggio

    Youcanprint

    Titolo | Kant a Reggio

    Autore | Giorgio Ricci

    ISBN | 978-88-31642-39-2

    © 2019 - Tutti i diritti riservati all'Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6, 73100  Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Mi chiamo Giorgio Ricci, nel1956 a Novellara (RE), dove ho sempre vissuto. Ho soltanto la licenza media e ho fatto il postino per 38 anni. Ho scritto un romanzo, forse, stravagante e fuori di testa, a partire dal titolo.

    La storia d’amore tra due adolescenti nell’anno 1972 – una bella ragazza emancipata e uno sfigato dell’oratorio parrocchiale – racconta, da se stessa, senza bisogno di artifici, il delirante declino della cultura europea. Basta soltanto una vera storia d’amore, col semplice apporto dei suoi incantevoli luoghi comuni, per smascherare gli infernali propositi del pensiero filosofico che comanda la moderna società dell’occidente (e, ormai, il mondo intero). Non ci si aspetti un libro educato, o, peggio ancora, delicato. Né ci si meravigli del tono irrispettoso nei riguardi dei più ‘venerati maestri’ della ‘colta’ Europa. È un romanzo raro, non per meriti miei, ma, più semplicemente, perché vi si difende la tautologia. E l’amore, tra i ragazzi, si sa, mira sempre alla tautologia. A chi ha orrore della parola in questione, rivolgo, fin da subito, un cordiale, sincero saluto. Ma a chi è stanco delle ormai secolari menzogne del mondo culturale europeo, consiglio di leggerlo. Non si annoierà. E, se si annoia, conoscerà, almeno, una visione diversa del mondo in cui si trova a vivere. 

    Novembre 1970: è come se Reggio mi dicesse, attraverso il rumore del traffico, la puzza dello smog, attraverso la sua bruttezza architettonica, nel caos davanti alle scuole alle otto del mattino - Reggio con la sua luce autunnale malata- dimentica chi sei, cosa sei stato fino ad ora, perché, tanto, qui, in città, tra le mie luci, tra le mie strade affollate, tra le mie grandi piazze, tra i miei negozi alla moda, tra i miei enormi palazzi, tutto quello che sei e che sei stato non conta niente. 

    Pinco aveva sempre conservato con molta cura questa frase, scritta sul suo diario di adolescente, alla candida età di 14 anni. L’aveva fedelmente trascritta di diario in diario, poi salvata su dischetto, quasi temendo di perdere memoria del suo periodo d’esordio, quello del suo debutto al mondo, il più terribile di tutta la sua vita, quando, secondo una definizione che gli piaceva dare di se stesso, non era in grado di comprendere il perché quasi di niente.

    E dire che Pinco aveva addirittura atteso con impazienza il gran giorno in cui sarebbe andato finalmente a scuola in città. Con immaginazione fertile, tipica dell’età, Pinco aveva a lungo fantasticato sulle esperienze straordinarie che l’attendevano colà; e, certo, non del genere di quella che poi aveva fatto. 

    Cosa, in realtà, fosse successo, nel suo debutto al mondo, per lunghi anni Pinco non se lo era mai saputo spiegare, se non con le impressioni più semplici e immediate. 

    Non si aspettava che la città fosse così indifferente a lui e a ciò che, per lui, c’era stato prima di arrivarci, a ciò da cui proveniva. Ben presto, infatti, tra la folla di città, in mezzo a mille altri studenti uguali a lui, gli era toccato di comprendere d’essere come un’entità invisibile, quasi insignificante, che nessuno notava. Ma non perché la città fosse priva di occhi. Tutt’altro. La città, gli occhi, li aveva. Soltanto che non erano per lui. Essa guardava altrove. E dove la città guardasse, per Pinco era motivo di scandalo.

    Guardava alle camiciole striminzite, ai pantaloni a campana, alle basette lunghe, al taglio dei capelli, alle giacchette corte, ai giubbotti in pelle, agli stivaletti a punta. Insomma: a un certo modo di vestire e di atteggiarsi per lui del tutto frivolo, nonché visibilmente falso. E il perché, a Pinco, non risultava affatto chiaro. Come ogni persona dotata di semplice buonsenso, il suo primo desiderio era quello di chiedere, ma far domande nemmeno si poteva, giacché il fatto straordinario era che, in città, non appariva sconveniente vestire con vergognosa frivolezza, ma domandare perché lo si facesse. Di conseguenza, non c’era modo di sapere perché si andasse tanto fieri d’essere frivoli e falsi, e, viceversa, ci si dovesse vergognare d’essere come si era e si era sempre stati. 

    Poiché, dunque, non si degnava di dargli una risposta, Pinco tendeva a concludere che la città di Reggio, con le luci delle sue vetrine, con la sua musica moderna, le sue bellissime ragazze, le sue mode sempre nuove, non lo voleva così come egli era ed era sempre stato. Ciò non poteva essere più chiaro, ma, a quel tempo, Pinco non ne capiva la ragione, il perché, e ne faceva una questione personale. Non avendo ancora maturato i necessari mezzi intellettuali, era ben lontano dal comprendere che la città di Reggio non rigettava lui e ciò che era, bensì l’avverbio che l’ignaro adolescente ancora s’attardava a porre accanto all’essere. Pinco, cioè, ignorava che quell’avverbio - sempre – era bandito di città.     

    Adesso, invece, era molto diverso. Adesso, Pinco sapeva. Aveva maturato i mezzi per sapere. Dopo aver letto, pensato, veduto, era sin troppo facile, per lui, comprendere l’inevitabile frivolezza di ciò che ambisce ad essere moderno. E i resti fossili che, di tanto in tanto, riaffioravano alla tv, di quel periodo in bianco e nero, portavano ancora scritto, nelle loro forme esasperate, ciò che il moderno era anche allora, quando lui non lo capiva: ossia mito del tempo che si vuole sciolto da ogni vincolo (anche se non lo è), e, perciò, mito del tempo ab-soluto.

    Nel tempo sciolto da ogni vincolo, solo il presente ha l’esistenza, mentre ciò che declina e passa non l’ha più e ciò che ha da giungere ancora non ce l’ha. Di conseguenza, soltanto il tempo in atto può essere moderno. Ma, proprio perché ha la pretesa d’essere puro tempo in atto, il moderno è destinato ad essere instabile e volubile, e soltanto una perversione del linguaggio può avere l’ardire di chiamarlo dinamico e di dar nome di emancipazione al suo disprezzo per ciò che sta e non muta, ossia per la verità stessa.   

    Eppure, proprio in quegli anni, tutto in città si emancipava e l’emancipazione era il più sublime mito giovanile. E, Pinco, lungo e smilzo adolescente venuto di provincia, sentiva che la città non lo degnava di uno sguardo, proprio perché non era sufficientemente moderno ed emancipato. Era, del resto, l’unica cosa che capiva. Ma perché l’emancipazione consistesse nell’indossare tutti quegli abiti frivoli e falsi (peraltro, costosissimi), e, in più, nel vergognarsi di quelli che aveva sempre indossato, restava un mistero che nessuno si dava pena di svelargli: non la scuola, non la famiglia, non gli amici e neppure la Chiesa. Insomma: in tutto il mondo conosciuto, sembrava non trovarsi nessuno in grado di spiegargli una cosa che solo a lui, quattordicenne, pareva importantissima. Ossia perché ciò che era stato vero fino al suo ingresso in città, di colpo, non lo fosse più.

    Adesso Pinco sapeva che il problema della verità era insignificante anche per chi, per primo, l’aveva posto agli uomini, cioè la filosofia. E, alla presentazione di un suo racconto pubblicato, poteva pronunciare, sorridendo, queste parole:

    L’antico concetto che sosteneva le arti, la filosofia, la religione, tutti i mestieri e la vita stessa era l’adeguazione dell’intelletto all’immutabile vero. Non esisteva creatività, così come la intendiamo noi moderni, se non, manifestamente, come errore. Infatti, una volta abolita la verità, non resta che il vorticare dell’immediato, dell’apparente. Non resta che il pollacos, con le sue doxai. Nessuna vera in se stessa, ma ognuna recante in sé un piccolo pezzetto della verità; e, dunque, tutte vere nell’insieme. False da sole e vere con le altre. Poi, sospirando, chiese al piccolo uditorio:

    Si può sostenere una simile scemenza?

    E si rispose:

    No.

    Quello che Pinco sperimentava, senza saperlo, nella città di Reggio, in quegli anni, altro non erano che le conseguenze della celeberrima libertà del pensiero moderno. Nonostante l’ammonimento evangelico, secondo il quale la verità vi farà liberi, e, per converso, l’errore schiavi, il pensiero moderno, e già da molto tempo ormai, voleva essere libero, e tale si dichiarava senza ascoltar ragioni. Libero dalla verità, s’intende, e, conseguentemente, schiavo dell’errore. Che c’era, dunque, da stupirsi, se emanciparsi voleva dire emanciparsi dalla verità e vivere nell’errore, e se vivere nell’errore rappresentava, appunto, il più sublime mito giovanile?

    Provare tutto, sperimentare tutto, secondo il metodo scientifico di procedere, illustrato dal famoso Popper, cioè per tentativi ed errori, senza farsi condizionare da un principio a priori, allo scopo di acquisire le esperienze più strane e più varie, ma non per ricondurle ad unità, essendo ciò vietato dalla bizzarra filosofia del suo coevo Heidegger: ecco qual era il modello di emancipazione giovanile. Questa, la dolce vita di quegli anni. 

    Pinco era ancora troppo giovane per sapere che la libertà di pensiero dà necessariamente sfogo al pollacos e alle sue doxai, ma ciò non gli impediva di vedere il mostruoso trionfo di un disfacimento morale e materiale, che la città testimoniava ovunque. Nella perenne confusione delle strade, nel traffico, nello smog, nelle fatue vetrine, nelle ragazze sfacciate, nella pubblicità blasfema, nei cinema porno, nelle discoteche, nell’uso delle droghe, tutto in città dava per evidente che non c’era più nessuna verità ma solo il caos di tante opinioni in lotta acerrima tra loro.

    Sebbene non sapesse ancora cosa fosse quel casino, né quale nome dargli, il pollacos lo disgustava enormemente. Era, però, un disgusto non tematizzato e, quindi, inconscio, che non avendo ancora trovato modo di spiegarsi, ricadde su di lui come una malattia psichica.

    Presto si incominciò col dire che Pinco era introverso, problematico, complessato; e, se si vuol dare retta alla falsa scienza medica celebrata come psicoanalisi, lo era. Ma non se si considerano le cose dal punto di vista del naturale pudore adolescente.

    La festa della libertà, come è suo costume, andava dismettendo ogni principio immobile, e, quindi, ogni morale. Gli amici s’erano dati al fumo, al bere, al turpiloquio, alla bestemmia. Andavano in discoteca a caccia di ragazze, e non inutilmente, perché le ragazze, mutato totalmente atteggiamento, non si negavano. Anzi, proprio allo scopo di offrirsi a quel commercio, s’erano fatte frivole, sfacciate. Lui solo se ne scandalizzava. Ma ciò non era ancora giudicato grave. Avere ricevuto dei principi, si sa, è il comune destino dei ragazzi, solo che Pinco, quei principi, li voleva conservare; e questa era la cosa grave.     

    Così, mentre gli amici, sedicenti, e le ragazze, abbandonatolo ai suoi principi, s’erano lanciati spavaldamente all’assalto di quel mondo, per conquistarvi un posto; la scuola, che s’accingeva ormai a bocciarlo, dopo aver sentenziato che il giovanotto era immaturo quanto lungo, consigliò ai genitori, quale extrema ratio, di far ricorso allo psicologo. E diede questo consiglio, perché appariva chiaro che lo svogliato spilungone non si lasciava dettare l’agenda da nessuno, meno che mai dagli insegnanti. La scuola, però, non è che avesse titolo per consigliare. Essa non considerava che il giovanotto andava scoprendo un aspetto della vita su cui da secoli non dava più lezione. Anche i suoi insegnanti erano stati ragazzi, pensava Pinco, anche loro vedevano la schifezza a cui s’era ridotto il mondo, eppure, nessuno di loro si teneva in dovere di salire in cattedra a spiegare perché il mondo fosse così, e lo lasciavano da solo, a porsi domande spaventose.   

    Perché soltanto a lui tutto faceva schifo? Perché soltanto lui desiderava fuggire via dalla città e ritornare indietro? Perché doveva andare avanti? E perché, poi, gli toccava fare la scoperta più brutta della sua breve vita, quella che porta dritto al suicidio degli adolescenti, e cioè che tornare indietro non si poteva più; che il mondo andava avanti anche senza di lui; che si infischiava di chi fosse, di cosa avesse fatto e cosa desiderasse?

    Il mito della caverna di Platone avrebbe risolto molte cose, ma Pinco non lo conosceva, perché la scuola tecnica non insegnava la sapienza antica. Perciò, al giovanotto veniva naturale chiedersi cosa servisse andare a scuola. A farsi strada in un mondo dal quale voleva solo scappare via?

    E quando, in seconda superiore, si vide costretto a giustificare la prossima bocciatura, e lo disse in casa, il consiglio della scuola, derogato fino a quel momento, si rese improcrastinabile.

    Il consulto medico fu abbastanza imbarazzante sia per Pinco, che per la sua famiglia. Recarsi dallo psicologo, a quel tempo, in provincia, non era cosa ben vista in nessun ambito sociale, ma particolarmente in quello operaio. Se non altro, però, si addivenne ad una diagnosi chiara e comprensibile. Secondo quanto asserì il dottore, il caso era ben conosciuto alla letteratura scientifica, proprio perché diffusissimo nelle giovani generazioni dei cosiddetti paesi evoluti. 

    In sostanza, il giovinotto non voleva crescere, rifiutava di farsi adulto. Detto in modo esplicito: voleva comodamente regredire al mondo dell’infanzia, con le sue vergini certezze, tra cui, magari, anche quella di un Dio immutabile che governa il mondo.

    Per lo psicologo, dunque, era tutto chiaro: poiché voleva Dio e la verità, Pinco doveva rassegnarsi a regredire. Di conseguenza, era superfluo dirlo, progrediva soltanto chi voleva un mondo senza Dio e senza verità. Par di sognare, perché il parere dello psicologo pretendeva offrirsi al paziente come neutrale diagnosi scientifica, quando, in realtà, di neutrale ed obbiettivo non aveva nulla, a meno che lo psicologo, attingendo a fonti privilegiate, negate agli altri uomini, possedesse la certezza indubitabile dell’inesistenza di Dio e della verità, e non si limitasse a millantarla con un atto di straordinario coraggio attinto altrove, magari da Nietzsche e i suoi epigoni. In ogni caso, l’inesistenza di Dio e delle verità era e restava un’opinione sua, lecita ma privata, non già dottrina scientifica. E siccome era su questa opinione che si reggeva tutta la sua scienza, ecco che la diagnosi scientifica, se aveva un fondamento, ce l’aveva in lui, non nelle cose, come pretendeva. 

    Ma, questo, Pinco poteva affermarlo adesso, perché adesso sapeva che ciò che la scienza dava per scontato – cioè l’inesistenza di un principio immutabile-  avrebbe, prima, dovuto dimostrarlo, cosa che, a cinque secoli dal baconiano ‘scientia est potentia’, ancora non aveva fatto (e si era ben guardata dal fare).

    Dunque, secondo lo psicologo, il cosiddetto principio di individuazione richiedeva non di inseguire sogni, ma di accettare la realtà.

    Così com’era? Pensava l’ingenuo giovinetto, assai sorpreso.

    Già, perché il povero, confuso adolescente credeva che la cultura avesse a scopo quello di dare un senso al disgustoso disordine di Reggio. Perciò si era messo a leggere Baudelaire e Leopardi. Pinco non possedeva ancora le parole per articolare in un concetto chiaro ciò che sentiva, ma gli sembrava del tutto evidente che alla cultura spettasse il compito, peraltro nobile, di fare dono di un significato a ciò che, da se stesso, sembrava non averne.  Gli ci vollero, però, ancora molti anni per rendere ragione di questa sua certezza inconscia ed incrollabile. Solo a una certa età, gli si fece definitivamente chiaro che se la cultura non serviva a rendere intelligibile il bruto fatto di ritrovarsi a vivere -  se, cioè, non serviva a spiegare al cuore di un adolescente ciò che gli accadeva, per rendergli ragione, almeno, del dolore che provava – allora, era essa stessa come il disordine di Reggio, e il cosiddetto principio di individuazione che lo psicologo raccomandava, volendo semplicemente rispecchiare quel disordine senza imporvi un senso, finiva per trovarsi nell’infelice condizione logica di rinnegare ciò che, comunque, pretendeva d’essere: un modo, per l’appunto (e, di sicuro, non il migliore), di conferire un senso alle cose.

    Tuttavia, anche se Pinco, allora, non era in grado di cogliere la contraddizione implicita a quel metodo, essa venne fuori, ugualmente, da sé e tutta intera.

    Dopo aver confortato il giovinetto, assicurandogli di ‘ sinceramente stimare ’ una così nobile reazione alla superficialità del vivere moderno e, specialmente, della gioventù moderna, lo psicologo ebbe un momento di incertezza. Non gli sembrava il caso di dargli in pasto il concetto espresso francamente ai genitori, che ritornare a Dio e alla verità significava regredire. Né, d’altronde, poteva scandalizzare l’ingenuo giovane confessandogli apertamente che il rimedio di cui andava in cerca era peggiore del male, secondo le celebri parole del gran maestro del secolo moderno. Come scienziato, inoltre, non riteneva lecito avventurarsi nel consiglio che rifiutare la realtà, pur se nel nome di nobili ideali, non conduceva a niente. Avrebbe potuto spendere un simile consiglio come uomo; se non che, anche da uomo, suggerire che bisognasse in qualche modo aggiustarsi alla realtà, venirci a patti, davanti agli ideali del ragazzo, suonava male. Niente paura: il luminare aveva in serbo un’altra fiche, e la puntò sul tavolo con sicurezza, rivelando al giovane che, dentro di sé, lui pure riprovava la realtà moderna, ma, che, d’altra parte, non gli era concesso di ignorarla, chiudendo gli occhi, o mettendo la testa sotto la sabbia al modo degli struzzi, per il semplice motivo che la realtà non spariva a comando, ma restava lì, al suo posto, ogni santo giorno.

    Peccato che, a questo punto, omettesse di aggiungere che la realtà era lì ogni santo giorno, perché così volevano gli uomini e che, pertanto, al posto di quella realtà avrebbe potuto anche starcene un’altra. Non disse, cioè, il più importante: che l’orribile disordine di Reggio non

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