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Il monastero dei delitti
Il monastero dei delitti
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E-book333 pagine4 ore

Il monastero dei delitti

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Info su questo ebook

La storia come la conosciamo sta per essere riscritta

Un grande thriller

Il tempo non cancella l’orrore nell’eterna lotta tra bene e male

Geremia Solaris è allo sbando: un tempo studioso e uomo brillante, dopo disillusioni e fallimenti, a cinquant’anni si ritrova senza soldi, ambizioni e interesse per il suo lavoro, e con una bottiglia di Chianti per amica. La sua vita, però, è destinata a cambiare radicalmente quando riceve un’inquietante e-mail da un suo ex professore. In allegato c’è un misterioso manoscritto, che l’anziano docente chiede a Geremia di decriptare. Geremia, riscosso dal torpore e vinto dalla curiosità, si mette all’opera, ritrovandosi invischiato in un meccanismo che non riesce a comprendere fino in fondo. E quando in un secondo, sibillino messaggio il professore gli chiede di vederlo, ha la drammatica conferma di essere entrato in un labirinto di pericoli da cui è difficile uscire: un filo sottile si dipana e ricollega la Firenze medioevale a quella dei nostri giorni, e le orribili morti di secoli or sono sembrano allinearsi ai delitti che hanno terrorizzato la città e le sue campagne negli anni Ottanta. Riuscirà Solaris, seguendo il rivolo di sangue che attraversa il tempo e la Storia, a sopravvivere al Male?

Cosa hanno in comune i delitti del mostro di Firenze, un antico manoscritto criptato e i tremendi segreti di un monastero del Trecento?

«Un romanzo che ci offre un’immagine inedita e inquietante di Firenze.»
il Messaggero

«Lo stile fluido e incalzante, il lessico colto e raffinato, ma soprattutto la cura quasi maniacale degli elementi storici e sociali in cui i personaggi si muovono lo rendono uno dei migliori thriller letti negli ultimi anni.»
Leggere: tutti
Claudio Aita
Figlio di emigranti, ha vissuto tra il Friuli e la Toscana, dove attualmente risiede. È un esperto di Storia della Chiesa e Storia medievale, oltre che musicista, scrittore e editore nel settore dei beni culturali. Ha collaborato come pubblicista con riviste di viaggio, cultura e storia locale. È autore di due testi di successo sui rapporti fra religione e cultura alimentare. Negli ultimi anni si è proposto come autore di thriller di ambientazione storica e contemporanea. Il monastero dei delitti è il suo primo libro pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2017
ISBN9788822717405
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    Anteprima del libro

    Il monastero dei delitti - Claudio Aita

    I

    Il suono della sveglia risuonò nella penombra della stanza. L’uomo si destò di soprassalto, imprecando contro il mondo intero e contro se stesso. Per quale motivo si ostinava a caricare quel marchingegno infernale se non aveva più orari da rispettare?

    Riabbassò le palpebre, con l’intenzione di concedersi un ultimo istante di riposo. Niente da fare. Non avrebbe più ripreso sonno. Se tale si poteva definire quel tormentato dormiveglia sempre più popolato dagli incubi che si erano ormai impossessati delle sue notti. Si stirò le braccia, lentamente, sino a percepire chiaramente lo scricchiolio delle articolazioni, e si lasciò avvolgere per un’ultima volta dalle coperte, in un abbraccio caldo e protettivo come un ventre materno.

    Sentiva il cuore pulsargli forte, un po’ troppo, forse. Con eccessiva irregolarità, per giunta. L’aveva sempre rimandata, con mille pretesti, ma una visita dal medico doveva proprio decidersi a farla. O, piuttosto, il suo tergiversare era soltanto dovuto al timore di una sentenza di condanna, di un campanello che suonasse l’ultimo giro di pista, quel percorso di dolore, quella lotta disperata contro il tuo stesso corpo che trova tutti i modi possibili per segnalarti di voler chiudere un’esperienza fallimentare? Sicuramente non era niente di rilevante, pensò senza eccessiva convinzione.

    Rabbrividì. Erano considerazioni che gli venivano spontanee, ma che qualche tempo prima non avrebbe mai fatto. Il peso degli anni e l’angoscia che si portano dietro dovevano aver lasciato un segno indelebile. Si appoggiò una mano sul petto, respirando lentamente, ascoltando con apprensione il battito di quella che poteva risultare una presenza ostile e pericolosa. Troppo forte. Troppo irregolare. Forse…

    Sospirò. Profondamente. Prima o poi sarebbe stato invitato a un funerale a cui non avrebbe potuto rinunciare. Con buona probabilità, però, il fatale appuntamento non era fissato per la settimana in corso. No, quello non era altro che il banale inizio dell’ennesima giornata di merda, simile a tante, troppe altre. Spalancò gli occhi, scrutando quella misera soffitta che solo la mente contorta e burocratica di un geometra o di un architetto poteva qualificare come appartamento.

    L’uomo piegò il capo e spostò lo sguardo verso la scrivania pigiata contro la parete con il suo computer e la pila di fogli da redazionare. Era meglio rompere gli indugi e alzarsi senza tergiversare. Alla fine ci riuscì, ma con uno sforzo che gli parve epico, addirittura sovrumano. Una sensazione di nausea gli salì dallo stomaco per unirsi al martellio del mal di testa. Bestemmiò con la massima naturalezza. Di certo – rifletté – non poteva prendersela con altri che con se stesso, con l’egregio dottor Geremia Solaris. Doveva smetterla, una volta per tutte, di bere troppo, soprattutto la sera, prima di coricarsi. Doveva, semplicemente, e senza accampare scuse. Nemmeno quella che l’alcol, in fin dei conti, gli facilitava il sonno. Non si rendeva conto che in questo modo si stava facendo solo del male?

    Geremia si drizzò in piedi, barcollando leggermente. Prese un analgesico e ingurgitò un caffè abbondante e scuro, mettendosi a guardare fuori dalla finestra. Un piccione, spaventato dalla sua improvvisa apparizione, se ne volò via sfiorando il metallo delle antenne. Lo seguì con lo sguardo, mentre annegava pian piano nel mare rossastro dei tetti che s’infrangeva sull’orizzonte.

    Si mise a osservare la strada in basso. La città si era svegliata da un pezzo, ormai, tutta presa dalla sua frenesia fatta di sciami di turisti cafoni, di bottegai intenti a rifilare patacche cinesi spacciandole per autentici articoli di pelletteria artigianale fiorentina, di studenti angosciati per gli esami, ma sicuri che il loro superamento avrebbe costituito un viatico, un altro tassello verso un futuro che non poteva che essere radioso, pieno di soldi e di oggetti alla moda. E poi di accattoni già intenti a ostentare le loro deformità per raccattare qualche moneta, di zingari con il bicchiere di plastica in mano, di gente a quell’ora già ubriaca di vino da quattro soldi e di disperazione. Indugiò a fissare le persone che sciamavano in basso, quel fiume di carne, di dolore, di speranza, di inconsapevolezza che scorreva imbrigliato dalle pareti dei palazzi e che macchiava di sé il grigio uniforme della pietra e dell’asfalto. Esseri magari felici del bel giorno di vacanza trascorso in quella magnifica città d’arte che è Firenze. Un passo dopo l’altro, metro dopo metro, dimenticando che anche la tua stessa vita su quella strada, come su qualsiasi altra, ti scivola via inesorabilmente, ti si sfarina sotto i piedi, in quel cammino che fai senza pensarci, meccanicamente. Attimi che non potrai più ripetere, smarriti come sono per sempre, divorati dal trascorrere implacabile e onnivoro del tempo.

    Geremia cercò di cacciare dalla mente i pensieri tristi, ma non ci riuscì. Cosa lo aveva attratto di quella città, lui che aveva rinunciato al mestiere che suo padre poteva procurargli per inseguire, invece, quella che considerava la sua vocazione, addirittura una missione? Per ritrovarsi, invece, dopo un tempo interminabile fatto di sacrifici, rinunce, lavori di poca o nessuna soddisfazione, con pochissimi soldi in tasca, la mensile lotta con le bollette e l’affitto di quel buco frequentato volentieri soltanto dai piccioni?

    Fra quindici giorni avrebbe compiuto cinquant’anni. Un traguardo che avrebbe superato senza aver combinato nulla di rilevante, con l’unica prospettiva di una vecchiaia fatta di miseria e di rimpianti. Come si può puntare a un futuro quando il tempo rimasto, ormai, è troppo esiguo per permetterti di realizzare qualsiasi progetto? Sempre ammesso che la salute, in qualche maniera, possa reggere ai primi problemi dell’età. E quelle strane aritmie, quell’affanno non promettevano niente di buono.

    Non lo aveva mai voluto ammettere finora, da buon montanaro testardo quale, a tutti gli effetti, era; ma la verità stava lì davanti ai suoi occhi, nuda e implacabile: aveva fallito. Su tutti i fronti. Il cassetto dei suoi sogni era ormai vuoto, restavano soltanto la polvere degli anni e i cadaveri delle sue speranze. Si sentiva stanco, immensamente stanco. Se solo fosse stato meno vigliacco, se non avesse avuto tanto ritegno nei confronti del dolore fisico… Sarebbe bastato scavalcare quella finestra, calpestare qualche tegola e lasciarsi semplicemente andare. Insomma, farla finita con quella buffonata di esistenza. Uscire di scena in un teatro deserto. Facile a dirsi. Come si poteva terminare un percorso che non si era, in fin dei conti, mai iniziato?

    Si avvicinò al tavolo per rovistare fra il cumulo disordinato di carte. Ne trasse una foto sgualcita e ormai scolorita. La fissò. L’accarezzò delicatamente con il polpastrello del pollice: «Se solo ci fossi stata ancora tu, chissà… Se io non fossi, se non avessi…».

    Sentì formarsi un nodo in gola e una lacrima rigargli il viso. Meglio non pensarci, non pensare più a nulla e prepararsi ad affrontare il destino con quel poco di dignità che gli era rimasta. Si fece una doccia bollente per svegliarsi del tutto. Alla fine, dopo una sigaretta e un’altra tazza di caffè, si sentì in grado di gestire la nausea e di riprendere a lavorare.

    Accese il computer e, dopo aver dato una veloce scorsa ai siti dei principali quotidiani, scaricò la posta elettronica. In mezzo a un’infinità di porcherie che si affrettò a cancellare, un paio di e-mail di lavoro e un messaggio di un suo vecchio docente ai tempi dei suoi studi universitari. Un personaggio con il quale, anche dopo che lui aveva abbandonato l’insegnamento ufficiale, era rimasto in rapporti di amicizia e che frequentava, di tanto in tanto.

    Da: luciano.xxx@unifi.it

    A: g.solaris@mail.it

    Oggetto: Buongiorno

    Caro Geremia,

    sto cercando di chiamarti da un bel pezzo ma, come al solito, non rispondi mai al telefono. Fammi sapere se tutto va bene. Conto di venirti a trovare uno di questi giorni, magari con qualche proposta di libri da riguardare per l’Università o per quell’editore mio amico che sai. Ti volevo però parlare di un manoscritto che ho casualmente rinvenuto nella biblioteca di un prete che conosco da tanti anni e che ho trovato decisamente curioso. Pensa che il sacerdote non lo aveva praticamente mai preso fra le mani, e in questo momento ce l’ho a casa mia, in prestito.

    A prima vista (ma questo me lo confermerai tu, dall’alto della tua competenza) si tratta di un testo risalente al Seicento-Settecento, senza alcun particolare pregio. La cosa singolare, tuttavia, è che il manoscritto è stato compilato in un codice assolutamente indecifrabile, almeno per il sottoscritto, fatta eccezione delle prime righe che sono delle citazioni bibliche, almeno così mi pare. Ho fatto qualche tentativo per interpretarne il contenuto ma, alla fine, mi sono dovuto arrendere. So che, oltre che un esperto di libri (non fare il modesto!), sei anche un appassionato di enigmistica, crittografia e roba del genere. Ti sarei davvero grato se gli dessi un’occhiata e mi facessi sapere cosa ne pensi. Scusami, ma sono davvero curioso. Anche se la cosa ti può far inorridire, mi sono permesso di scansionare il testo originale, che non è molto lungo. Te lo invio in allegato.

    A presto. Aspetto tue notizie.

    Luciano

    Allegati: manoscritto.pdf

    Geremia salvò il file in una cartella. In quel momento aveva ben altro da fare. Se non avesse consegnato il lavoro, non avrebbe incassato l’assegno, e Dio solo sa quanto ne aveva bisogno visto che non sapeva davvero come fare a pagare la rata dell’affitto e l’ultima bolletta. Avrebbe letto con calma il testo più tardi, magari dopo cena. In quel momento c’era un tarlo che continuava a scavargli nel cranio: «Cazzo, quindici giorni e avrò cinquant’anni!». Già, solo quindici strafottuti giorni di merda! Rabbrividì. Il tempo da vivere era, ormai, per buona parte trascorso e lui non se n’era nemmeno reso conto. Pochi giorni, un’inezia, e avrebbe superato un traguardo che fino a poco tempo prima gli sarebbe apparso irraggiungibile. Quindici giorni, mezzo mese, due settimane. Tre per cinque, due numeri primi. Uno più cinque, sei, il numero perfetto, il prodotto e, contemporaneamente, la somma dei primi tre numeri.

    Quindici, simbolico o meno che fosse, era pur sempre la quantità dei fogli del calendario da strappare fino alla fatidica data. Meglio lasciar perdere le cazzate e mettersi finalmente al lavoro.

    II

    Firenze, 31 maggio 1328

    «Deus meus, ne discesseris a me quoniam tribulatio proxima est, quoniam non est qui adiuvet».

    Perché le prime parole che gli venivano in mente, senza nemmeno averle invocate, erano quelle del salmista? Suoni che facevano fatica a uscire da una gola serrata dallo sbigottimento. Non poteva essere reale! L’uomo nel saio, per quanto si sforzasse, non riusciva a credere a ciò che gli si presentava davanti agli occhi. Qualcosa che la sua mente raziocinante rifiutava di accettare come veritiero. Mai, in tutta la sua vita – avrebbe giurato – gli era capitato di assistere a uno spettacolo del genere. Nemmeno in quegli strani incubi che da un po’ di tempo gli agitavano il sonno.

    No. Non era possibile, si ripeté invano, sforzandosi di respirare profondamente, nel tentativo di mantenere il controllo delle sue facoltà. Le orecchie gli ronzavano sempre più forte. La testa iniziava a girare. La vista gli si annebbiava. Aveva la sensazione che il tempo stesso avesse rallentato il suo corso, fino ad arenarsi. Si voltò verso il suo giovane confratello che, al contrario di lui, non era riuscito a trattenersi dal vomitare. Al suo fianco, la madre badessa tremava come se fosse stata colpita da un violento attacco di febbre, ripetendo come una litania: «Il demonio… il demonio è entrato nel mio monastero…».

    Nonostante il mattino non fosse ancora avanzato e non fosse suonata l’ora terza, l’aria appariva già opprimente, il tanfo di morte era fin troppo evidente. Il frate si fece coraggio e, a passi lenti, procedette fra gli scaffali di quella che fino ad allora era stata semplicemente la dispensa conventuale. Cercò di avanzare senza imbrattare l’abito francescano con il sangue che macchiava ogni cosa della stessa tinta vermiglia. Tappandosi la bocca alla bell’e meglio e scacciando a fatica i nugoli di mosche impazzite, si accostò a quello che, a prima vista, poteva apparire il corpo di un animale appena scannato. Ma che immediatamente si rivelava per quello che era in realtà: il cadavere sventrato di una donna decapitata e appesa, capovolta, a un gancio che pendeva dalla trave. Un ammasso di carne sanguinolenta e irriconoscibile sul quale era stata inferta una violenza inaudita, una ferocia senza limiti.

    «Il demonio… Il demonio…!».

    Il religioso dovette concentrarsi e fare appello a tutto il coraggio di cui disponeva per avvicinarsi. Doveva farlo. Il tempo a disposizione era davvero poco. Qualcuno era già corso a chiamare gli sgherri e, con ogni probabilità, lo stesso inquisitore. La ricerca della verità, il desiderio di conoscere quello che era davvero successo, fra breve sarebbero diventate parole prive di senso.

    «Il demonio…».

    Il francescano studiò con attenzione il cadavere martoriato di quello che fino a poche ore prima era ancora il corpo pulsante di vita di una giovane monaca. L’assassino aveva operato con un coltello ben affilato, recidendo la testa di netto ed effettuando un profondo taglio lungo tutta la lunghezza del tronco, senza alcuna esitazione, nessun ripensamento. L’opera di una mano esperta come, non gli veniva altro paragone, quella dei porcai che aveva avuto occasione di vedere più volte all’opera nei freddi mesi invernali. Era sempre rimasto fortemente impressionato dalle grida, quasi umane, della povera bestia impotente e consapevole di morire, una volta catturata e immobilizzata dai suoi carnefici. Uno spettacolo che, per quanto crudele e sanguinario, gli appariva ormai ben poca cosa rispetto a quello che aveva lì davanti agli occhi. Con la differenza che stavolta non si trattava semplicemente di un maiale ma di un essere umano, una creatura di Dio dotata di anima e raziocinio.

    Le mani blasfeme e omicide si erano accanite oltre ogni misura sul cadavere. Gli intestini erano stati rimossi e gettati alla rinfusa sul pavimento, assieme allo stomaco, al fegato e a qualcos’altro che non riusciva a identificare. Il cuore dell’infelice religiosa era stato inchiodato su uno scaffale lì accanto. Orrore nell’orrore, il suo ventre giovanile era stato asportato con tre tagli netti e, nel vuoto così innaturalmente creato, era stato conficcato un legno in apparenza proveniente – Dio non avesse voluto! – da un crocifisso.

    La testa continuava a girargli, sempre di più, la vista gli si annebbiava. Il ronzio alle orecchie aumentava. Non doveva svenire, non poteva. Abbassò il capo e inspirò profondamente e con lentezza, ripetutamente, fino a quando sentì di aver ripreso un sufficiente controllo delle sue facoltà.

    La testa della sventurata fu ritrovata in una cesta, non distante, i capelli ancora raccolti nel velo, gli occhi spalancati e la bocca che pareva tradire un’ultima espressione di sorpresa. Se solo quelle labbra – pensò il frate – avessero potuto parlare, se quegli occhi azzurri fossero riusciti a rivelare l’ultima immagine riflessavi: il volto, le fattezze dell’assassino, uomo o demonio che fosse.

    Il frate si mise a studiare con estrema concentrazione la grande stanza nella quale si trovavano.

    «Scoperto niente, maestro?», domandò il suo giovane compagno che nel frattempo si era ripreso, rimanendo però prudentemente vicino alla porta. Senza ottenere risposta.

    Il religioso indugiò a lungo nell’esaminare la finestra, lisciandosi la barba ormai in parte imbiancata, immobile e scuro in volto. Poi si accostò nuovamente al cadavere appeso, o almeno a quanto rimaneva di esso, studiandolo con maggiore attenzione, palmo a palmo, vincendo lo schifo delle mosche. Lo stesso fece con la testa recisa della poveretta e con gli altri brandelli del suo corpo sparsi sul pavimento. Nonostante le sue cautele, non poté evitare di sporcarsi di sangue.

    Infine, dopo un tempo che parve non avere mai fine, si avvicinò alla figura pallidissima della madre badessa e domandò: «Chi era?»

    «L’unica che stamattina mancava all’appello in chiesa. Una giovane monaca di diciannove anni di nome Adele, donata al monastero dai suoi genitori in tenerissima età», sussurrò a fatica, prima di mettersi a piangere a dirotto.

    Il frate insistette: «Perdonatemi, ma devo rivolgervi delle domande per capire che cosa è successo, per cercare di dare un volto all’assassino».

    «Cosa c’è da capire, fratello Lamberto?», esclamò la religiosa, facendosi il segno della croce. «Satana… è stato lui! Quale altro essere può concepire tanta malvagità?».

    Il religioso avrebbe voluto ribattere, dirle che anche la mente umana, nel suo libero arbitrio, può partorire crudeltà senza limiti. La madre superiora, sigillata all’interno del suo monastero – si chiese –, aveva mai toccato con mano la realtà del mondo là fuori? Aveva mai visto un campo di battaglia quando tutto è ormai compiuto, lo scempio inutile dei cadaveri, il saccheggio, gli stupri, le torture? Aveva mai vissuto il fondo della malattia, la lebbra, le pestilenze? E l’abisso della disperazione, della miseria e della violenza? Lui sì. Troppe volte, ormai. Decisamente troppe.

    «Avete toccato qualcosa?»

    «No di certo!», rispose bruscamente la monaca. «La scoperta del corpo è stata fatta da una nostra consorella che è subito fuggita via in preda al terrore. Nessuna di noi ha avuto l’ardire di avvicinarsi. Vi abbiamo fatto chiamare immediatamente, frate Lamberto, non sapendo che fare e considerando che il vostro convento è vicino al nostro e che voi siete, in ogni caso, il nostro padre spirituale».

    «Avete fatto la cosa giusta», esclamò il religioso. Poi, abbassando il volume della voce, continuò: «Ditemi, c’era una giustificazione per cui la sciagurata si trovava in questo locale questa notte?»

    «No, che io sappia. Non ce n’era motivo», replicò la badessa, visibilmente imbarazzata. E si affrettò ad aggiungere: «Forse, avrà avuto fame…».

    Il frate rimase un po’ in silenzio, prima di ricominciare a parlare, ben attento che nessun altro potesse sentire: «In ogni caso, non era sola…».

    La monaca impallidì: «Cosa volete dire con questo, frate Lamberto? Cosa insinuate?»

    «Voglio dire che la giovane ha fatto entrare il suo assassino, con il quale aveva sicuramente un appuntamento».

    «Per l’amore di Dio… Un appuntamento? Qui nel mio monastero? Come osate affermare una cosa del genere?»

    «Madre badessa, intendo dire, semplicemente, che la finestra è stata senz’altro aperta dall’interno. E le impronte che ho notato sul pavimento e sul davanzale sono senza ombra di dubbio quelle di un uomo. A meno che, beninteso, non vogliamo ipotizzare che il demonio indossi i calzari e possegga piedi dalla foggia decisamente umana».

    La religiosa abbassò il capo: «Forse voleva solo dare da mangiare a qualcuno, magari a un povero, e non voleva che si risapesse…».

    Il frate la guardò con uno sguardo colmo di compassione: «Si tratta di una possibilità, senz’altro. Ma l’incontro avrebbe potuto avere altri scopi, diciamo, ben più inconfessabili…».

    La badessa trasalì: «Fratello Lamberto, non potete sostenere una cosa del genere. Non del mio convento. Non delle pecorelle che il Signore mi ha affidato!».

    «Comprendo appieno il vostro affanno, madre badessa, e non ho mai dubitato, né dubiterò per un attimo, della santità del vostro monastero, che ben conosco frequentandolo in qualità di padre spirituale. Ma come faccio altrimenti a spiegarmi la circostanza per cui gli abiti della vittima si trovavano ripiegati con cura tipicamente femminile su un ripiano, ben distanti da dove la sciagurata è stata uccisa e dove si trova il corpo martoriato? Senza alcuna macchia di sangue, per giunta, o traccia di violenza. Verrebbe da pensare che l’assassino abbia ucciso la giovane monaca dopo che questa se li era tolti volontariamente di dosso».

    La badessa si coprì il volto con entrambe le mani, rimettendosi a singhiozzare.

    «Perdonatemi, madre», riprese dopo qualche attimo il frate, «ma ho bisogno di sapere. Nessuna delle consorelle, o dei servi, ha sentito nulla?».

    La religiosa lo squadrò titubante, senza dire niente. Il suo volto maturo, ma con le ultime tracce di una bellezza ancora dignitosa, era rigato dalle lacrime. Frate Lamberto ebbe l’impressione che volesse dirgli qualcosa, ma ci fosse un motivo che la tratteneva dal farlo. D’improvviso, sussultò. Si udirono chiaramente delle voci che si avvicinavano.

    «Madre, ascoltatemi!», riprese il frate. «Sono questioni che vanno affrontate con molta discrezione e con spirito di carità, come avrebbe detto il vostro fondatore, san Benedetto. Un inquisitore, invece…».

    La religiosa trasalì, quasi rendendosi conto solo allora della situazione: «L’Inquisizione, Madre di Dio! Qui, nel mio convento…!».

    «Lo sapete, vero, che cosa succede in casi come questo?», incalzò il francescano. «Ho avuto a che fare troppe volte con certi processi. Non si sa mai cosa viene fuori e dove si va a finire. Pur conoscendo personalmente la fama di santità del vostro monastero e la virtù delle vostre consorelle…».

    Il frate ebbe per un attimo l’impressione che la badessa stesse per svenire, sopraffatta da quel che le stava accadendo. Il clamore si faceva sempre più vicino.

    «Stanno arrivando, madre. A momenti saranno qui. Credetemi, è meglio per tutti noi che indaghi, con tatto e discrezione assoluta. Dobbiamo cercare di mettere il tribunale di fronte a un caso risolto. Ve ne scongiuro!».

    «Perché affermate questo?», replicò la monaca, dubbiosa.

    «Perché non sapete con chi avete a che fare!».

    La badessa parve esitare. Poi sussurrò: «Forse avete ragione, padre. Anche se non abbiamo nulla da nascondere».

    «Questo non vuol dire nulla!», incalzò il frate. «Allora, ho la vostra benedizione?»

    «Di cosa avete bisogno?»

    «Per prima cosa dovete sciogliere le vostre monache dal voto del silenzio e permettermi di parlare liberamente con ciascuna di loro, meglio se con il sigillo della confessione».

    Gli uomini armati stavano ormai entrando nella stanza. «D’accordo. Avete la mia benedizione. Potete fare come meglio vi aggrada», bisbigliò la badessa. «Ma dovrete riferirne soltanto a me».

    Il frate fece un gesto di assenso con il capo.

    Il gruppo di quattro uomini, accompagnato dal tintinnio delle loro armi, si arrestò appena varcata la soglia. Parevano anch’essi assolutamente impreparati a quello spettacolo. Ci fu un attimo di silenzio quasi irreale. Per qualche istante tutto rimase sospeso, immobile. Il religioso fissò i nuovi arrivati, armati di tutto punto, eppure impietriti con le bocche spalancate, come inebetiti. Completamente impotenti. In altre circostanze, il frate avrebbe trovato la cosa decisamente divertente, addirittura comica. Ma non in quel luogo, non in quell’anticamera delle profondità infernali.

    Si udì distintamente il rumore di passi che si avvicinavano: «Fratello Lamberto da Villanova, non mi aspettavo davvero di trovarvi già qui!», furono le prime parole dell’inquisitore. Il francescano rispose con un profondo inchino, cui seguì un sorriso forzato.

    Vide il nuovo venuto accostarsi, senza dire altro, al cadavere e osservare scrupolosamente la scena del delitto, con un atteggiamento che il frate avrebbe definito di autentico compiacimento.

    Poi, rivolgendosi ai due religiosi: «Terribile, una scena davvero terribile…».

    «Vostra Paternità, se mi concedete di esprimere il mio umile parere», disse il francescano, «credo…».

    «Non c’è niente da capire!», lo interruppe l’inquisitore. «Si tratta chiaramente dell’opera di Satana, furioso più che mai perché, anche qui a Firenze, il tribunale della Santa Inquisizione che indegnamente presiedo sta mettendo in luce le nefandezze di eretici travestiti da servitori di Dio e le loro inconfessabili collusioni con il Maligno».

    «Certamente, Vostra Paternità, ma…».

    «Usufruendo», continuò l’inquisitore, fingendo di non averlo sentito, «per giunta, della complicità di parte dei nostri stessi confratelli i quali, nonostante i richiami amorevoli e materni della Santa Chiesa, non hanno esitato ad abbracciare l’errore e l’eresia».

    Poi, voltandosi verso la religiosa: «In questo monastero ha avuto luogo un fatto gravissimo con l’intervento del demonio e con la complicità di qualche sua adepta o adepto. Questo lo valuteremo a suo tempo. In considerazione dello stato particolare di questo sito, non imporrò di esercitare le mie prerogative presso la sede inquisitoriale di Santa Croce, che pure è situata qui vicino. Mi installerò, invece, nella sala

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