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Pizzeria Vesuvio
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E-book373 pagine4 ore

Pizzeria Vesuvio

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Un libro che mette il buonumore

Le divertenti e commoventi avventure della famiglia napoletana dei Merola, emigrati in Argentina

È il 1951 quando a Napoli, all’ombra del Vesuvio, nasce Andrea. Non fa nemmeno in tempo a dire la sua prima parola, che i suoi genitori, Salvatore e Angela, lo portano con loro fino a Buenos Aires, attraversando l’oceano. Dall’altra parte del mare, infatti, li aspetta lo zio Giovanni e la promessa di una felicità duratura, che prende subito forma nella pizzeria Vesuvio. I profumi dei sughi deliziosi e le voci concitate della cucina accompagnano Andrea nei primi anni della sua vita, immerso nelle tradizioni che risalgono alle origini napoletane della famiglia e incuriosito dall’umile realtà del quartiere di Buenos Aires in cui vive. Ma in una grande famiglia, riuscire a trovare la propria indipendenza può rivelarsi difficile. Tra segreti, tradimenti, piccoli drammi e grandi gioie, Andrea avrà il difficile compito di conciliare i mondi che convivono in lui, come ingredienti diversi da combinare in una ricetta che cuoce solo a fuoco lento. Perché anche durante le avversità, il piatto più irresistibile a volte è quello più semplice… se preparato con il cuore.

Nostalgia, profumi e segreti sono gli ingredienti di questo indimenticabile romanzo

«L’autore riesce a descrivere perfettamente le gioie e i dolori della lontananza, ma soprattutto la perenne nostalgia di casa, stemperata dalla cucina. È un libro emozionante.»
La Vanguardia

«Un invito per i lettori a condividere le gioie e i dolori di una famiglia come tante, ovvero unica.»
Planetadelibros
Walter Riso
È nato a Napoli, ma era ancora un bambino quando con la famiglia si è trasferito a Buenos Aires. Psicologo e autore di libri di self-help che hanno venduto più di due milioni di copie, fa la sua prima incursione nella fiction con il romanzo Pizzeria Vesuvio, pubblicato in Italia dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2018
ISBN9788822723819
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    Anteprima del libro

    Pizzeria Vesuvio - Walter Riso

    PARTE PRIMA

    1

    Dove mi hai portato, Salvatore?

    Sono arrivato da Napoli al porto di Buenos Aires sulla Conte Biancamano, il 28 settembre 1951, dopo quasi un mese di traversata in mare. Mia madre mi ha raccontato che abbiamo viaggiato in classe turistica insieme ad altre settecento persone. Le cabine e le cuccette erano meglio, a suo avviso, del letto e del materasso sul quale dormiva a Napoli, in un quartiere dove la povertà la faceva da padrone.

    Mia madre viveva nel rione Sanità, il cuore di Napoli, in una strada ripida che si sviluppava a partire dall’incrocio tra via Guido Amedeo Vitale e la Salita Cinesi. Un punto nevralgico della bassa Napoli, conosciuto come o’ vascio. La casa aveva due camere, una porta che rimaneva sempre aperta sulla strada, come quelle della maggior parte dei vicini, che si sedevano a chiacchierare sul vicolo acciottolato, perché non c’erano marciapiedi. Nella prima stanza, all’ingresso, c’era la cucina con un grande tavolo e una tenda a destra che separava il letto dove dormiva Nino, il fratello minore di mia madre. Poi, c’era un’apertura attraverso la quale si passava alla camera dove dormivano mia nonna, Simona, mio nonno, Vincenzo, e Angela, mia mamma. Il pavimento era di cemento e il fornello andava a legna e carbone. Nella casa penetrava soltanto un filo di luce da un lucernaio che si affacciava su uno sfogo maleodorante, condiviso da diversi edifici e abitato dai ratti. Il grigio scuro dell’interno contrastava con il giallo bruciato e il rosso corallo delle pareti scrostate del vicinato, oltre che con gli abiti dai colori vivaci appesi da un lato all’altro delle finestre, come se fossero stendardi. Mio nonno si sedeva a bere il vino insieme ai vicini e aveva l’abitudine di esclamare Che vita!, aggiungendo che non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo. La gente conversava, scherzava, gridava dai balconi, le famiglie discutevano in pubblico e le liti venivano, poi, risolte da tutto il vicinato, non solo dalle parti coinvolte. Molti cantavano e non mancava mai il mandolino, che faceva ballare i parrocchiani.

    Seguendo fino in fondo la strada di ciottoli, si arrivava a una spianata, dove un’enorme scala conduceva a diversi reticoli di arterie molto trafficate, piene di bandiere italiane e della squadra di calcio del Napoli. Molti portoni affacciavano su piccole piazzole, dove si trovavano le bancarelle improvvisate, tra le quali, secondo mia madre, la migliore era quella della pizza fritta di Pasqualina, talmente straordinaria che c’era sempre la fila. Tuttavia, questo ambiente allegro e festante serviva a nascondere la povertà e la fame del dopoguerra italiano. La disoccupazione costringeva i giovani a emigrare in altri Paesi in cerca di opportunità, soprattutto in America, mentre chi rimaneva andava ad alimentare le fila della camorra.

    Salvatore, mio padre, aveva provato a fare diversi lavori. Era persino riuscito ad aggiudicarsi un buon posto all’ufficio postale di Napoli. Il lavoro consisteva nell’incollare francobolli sulle lettere e mettere timbri. Non era durato a lungo: aveva litigato con il capo, che gli aveva riempito la faccia di bolli, e così se n’era andato dopo aver rotto un bel po’ di sedie.

    I miei genitori, appena sposati, vivevano in una stanza in affitto senza finestre: non sopportavano l’odore di chiuso, ed è per questo che mio padre ha deciso di emigrare in Argentina. Anche suo padre si era stabilito anni prima nella provincia di Jujuy, nel nord del Paese, e tutti sostenevano che avesse avviato un’impresa edile di successo. Così, senza una professione, senza parlare la lingua e con poche lire in tasca, Salvatore è partito per seguire le orme di mio nonno, che tutti chiamavano lo Zuoppo, perché claudicava.

    In una fredda mattina di gennaio, mio padre ha lasciato mia madre incinta di tre mesi a casa di Simona e Vincenzo. Angela gli aveva fatto giurare che non l’avrebbe abbandonata e che le avrebbe mandato il denaro per raggiungerla non appena possibile. Quel giorno hanno deciso che mi sarei chiamato Andrea, perché non erano sicuri se fossi maschio o femmina: a mia nonna ora le facevano male i calli, ora no.

    Da quel commiato, mia madre ha pregato quasi tutti i giorni nella chiesa di San Severo Fuori le Mura, affinché a mio padre andasse tutto bene e noi potessimo raggiungerlo presto. Malgrado per le strade ci fossero diversi altarini improvvisati dedicati a San Gennaro, lei ne preferiva uno in particolare, perché diceva che ascoltava le preghiere più degli altri; lì, ogni volta che poteva, accendeva una candela rossa con il bordo dorato. Una volta, a quell’altarino, la beata immagine del santo, con la sua mitra, il bastone e lo sguardo rivolto al cielo, si è inclinata così tanto che il pastorale pareva indicarla. Quell’evento le ha fatto capire di non perdere la speranza, che tutto sarebbe andato bene. Il giorno dopo, in effetti, è arrivata la prima lettera di mio padre, il quale raccontava le meraviglie di quella terra straordinaria che, diceva, presto avremmo visto anche noi.

    Mia madre si è messa a girare per tutto il rione Sanità, ha visitato ogni angolo, ogni pertugio, perché desiderava fissare il quartiere nella memoria: non voleva dimenticare le proprie radici. A volte andava al Castel dell’Ovo a guardare il mare con Nino e a immaginare come fosse fatto l’interno di una nave. Non si stancava mai di ammirare il Vesuvio, che s’innalzava nobile sullo sfondo azzurro del golfo. La prima lettera è stata celebrata da tutto il quartiere. È stata persino organizzata una festa in strada e si è pregato per Salvatore. Di notte, però, quando i miei nonni dormivano, mia madre si rannicchiava contro la parete e piangeva tappandosi la bocca per non svegliarli.

    La seconda lettera è giunta tre mesi dopo, quando l’incertezza si era di nuovo impadronita della famiglia. Recava buone notizie: in meno di sei mesi sarebbe arrivato il biglietto. Seconda celebrazione nel quartiere. Il 2 giugno, il giorno della festa della Repubblica, in cui viene commemorata la vittoria della democrazia sulla monarchia tramite il referendum che ha portato alla nascita della Repubblica italiana, cosa che all’epoca a molti non faceva piacere, alle cinque e mezza del pomeriggio, sono nato sul grande tavolo della cucina grazie all’aiuto di una levatrice. Sono stato accolto, oltre che dai miei nonni e da mio zio Nino, da Giovanni, il fratello maggiore di mio padre, che era anche lui in procinto di partire per l’Argentina, insieme alla sua fidanzata, Amalia, convinta che sarei stato femmina e che, pertanto, aveva ricavato da delle tende vecchie tre vestitini.

    La mia pelle era molto gialla, perciò Simona e le altre signore del vicinato mi portavano fuori tutti i giorni a prendere il sole. A volte, quando erano particolarmente bendisposte, camminavano fino a piazza del Gesù Nuovo e mi sdraiavano su una coperta vicino all’obelisco dell’Immacolata, affinché le persone vedessero quanto ero bello e grassottello… bell e chiatto. Mia madre mi ha detto che facevano i turni per portarmi, perché appena nato pesavo già quattro chili, il che era di buon auspicio in quanto, secondo gli anziani, più pesante era il bambino, più sarebbe stato il pane che avrebbe portato in casa.

    Dopo altri tre mesi di attesa, in una mattina priva di nuvole in cui, in modo inspiegabile, e per mia madre indimenticabile, l’odore del mare si era diffuso fino a Capodimonte, hanno consegnato a mia nonna una spessa busta semitrasparente, e le è bastato tenerla tra le mani per cominciare a tremare. Ha chiamato Angela, che è arrivata di corsa, e l’hanno aperta insieme sulla soglia affinché ci fosse abbastanza luce per leggere bene. Quel giorno, quando la speranza stava cominciando a trasformarsi in tristezza, è arrivato il nostro biglietto. Amici e vicini non hanno impiegato molto a far girare la voce di strada in strada, di casa in casa. «Angela parte! Angela se ne va in America!». E le donne più anziane, mentre si picchiavano il petto, ripetevano: «Miracolo! Miracolo!». La notizia si era diffusa a tal punto che, già la settimana prima della partenza, la gente si spintonava davanti alla casa dei miei nonni per salutare la fortunata e portare piccoli doni, vestiti, intrugli e immagini scolpite di Gesù bambino, in modo che Dio ci fosse vicino durante la traversata. Io avevo tre mesi e lei ventisei anni.

    Quando la nave è entrata al porto di Buenos Aires dalla darsena A, mia madre ha pianto. Dal terzo ponte, vicino alla prua, ha condiviso un silenzio carico di aspettative con i suoi compatrioti, che osservavano immobili, come bambini indifesi, gli edifici della città sconosciuta dietro la coltre di pioggia fine e persistente, la tipica garúa argentina. La gigantesca nave si muoveva al rallentatore di fronte a un muro di costruzioni di mattoni sporchi e scoloriti che, malgrado cercassero di imitare i solidi edifici inglesi, non riuscivano a nascondere lo stato d’abbandono che regnava sovrano. Lì avremmo incontrato mio padre, che era partito l’anno prima per costruire l’America. Mentre la nave avanzava sulle acque scure e marroni, mia madre pensava al mare azzurro e trasparente di Napoli.

    «Dove mi hai portata, Salvatore?».

    Me l’ha raccontato soltanto una volta, ma la nostalgia dell’emigrante, nata in quel momento, non ha più lasciato il suo cuore. Invece, mi ha ripetuto più volte del sollievo che ha provato quando, da lontano, ha scorto il viso di mio padre, vestito con una camicia bianca, in mezzo alla moltitudine coperta da ombrelli grigi e neri, che correva ansiosa in cerca dei propri cari.

    Angela mi ha consegnato come se fossi un tesoro. Salvatore, inquieto ed emozionato, mi ha esaminato da ogni lato senza proferire parola, quindi mi ha strappato il pannolino, ha ficcato il naso nei miei testicoli e mi ha annusato fino a riempirsi i polmoni. Poi, ha sollevato il mio corpicino pallido e ha gridato in napoletano: «Chistu è mio figlio! Chistu è mio figlio!».

    2

    L’uomo d’acciaio

    I corridoi dell’Ospedale Italiano erano enormi, interminabili. Puliti, freddi come il ghiaccio, desolati. Io li percorrevo come un invasore, un batterio spaventato e insicuro. Mi hanno condotto nella stanza dov’era ricoverata mia madre. Il medico, impassibile, mi ha detto: «Puoi restare soltanto fino alle sei del pomeriggio». Non ho chiesto altro. L’ho guardata dormire, senza distogliere mai lo sguardo, ipnotizzato dal suo petto che si alzava e si abbassava. Dopo mezz’ora, si è svegliata. I suoi occhi turchesi hanno provato a dirmi qualcosa che non riuscivo ad afferrare mentre si indicava il basso ventre. A volte aveva l’odore dei pannolini, a volte di disinfettante. Poi ho capito che aveva orinato e che aveva bisogno di essere pulita. Ho chiamato un’infermiera e si è presentata una signora di una certa età, molto gentile e professionale.

    «Per favore, aspetta fuori in corridoio», mi ha detto con delicatezza.

    Non potevo far altro che ubbidire. Mia madre mi ha guardato da oltre la spalla dell’infermiera e io ho visto formarsi sulle sue labbra, in silenzio, le parole Ti voglio bene. Sono uscito e mi sono seduto in un angolo illuminato a giorno. Ero esausto, ma la mia mente pareva instancabile. Pensava a mia madre. Non smetteva d’incolparmi per non essere riuscito a guadagnare abbastanza soldi per farla tornare a Napoli dai suoi genitori, dove, immaginavo, avrebbe cantato l’opera dal terrazzo mentre appendeva i vestiti ad asciugare o avrebbe interpretato qualche canzonetta napoletana con la sua voce potente e vellutata, che usava per dare un po’ di ritmo alla sua vita. In quell’angolo appartato, sotto la luce fredda, l’ho sentita accarezzarmi la spalla come faceva di solito quando diceva: «Quanto si bello, Andrea!». A quel punto, i pensieri sono cessati e la paura che mi aveva accompagnato fino ad allora mi ha dato un attimo di tregua. Tutto era piatto, lento, vuoto, privo di sostanza. L’unica cosa reale era il gelo che pareva diffondersi dalle pareti bianche e inospitali. Sono rimasto lì, cercando di capire cosa stesse accadendo, anche se la risposta era sempre la stessa: «Va tutto bene». Così, seduto, mi sono appisolato nell’incertezza. Non ho sognato, non ho fantasticato. Erano le quattro del mattino quando ho ritenuto necessario insistere. Stessa risposta: «È tutto sotto controllo». Bugie. Non andava tutto bene. Gli ospedali sono fatti apposta per essere abbandonati a soffrire di solitudine in mezzo a bugie orchestrate con cura.

    È arrivata una signora molto alta con due figli adolescenti. Si sono seduti di fronte a me, sotto le medesime luci, si sono presi per mano e hanno iniziato a piangere. L’angoscia mi ha trafitto come una daga. Sono tornato a informarmi, e stavolta ho ottenuto una risposta diversa: «Adesso viene il medico».

    Non si è visto. Né alle cinque né alle sei né alle sette. Ho provato a prendere un caffè alla macchinetta, ma non era rifornita. Poi, ho visto mio padre da lontano, come uscito da un incubo, che mi veniva incontro. Lo accompagnavano Nino e Roberto, uno per lato, sostenendolo per le braccia. Mio padre, l’uomo d’acciaio, il Ragioniere, tremava come una foglia mentre suo fratello e suo cognato cercavano di calmarlo e rincuorarlo.

    Quando mi ha raggiunto, non mi ha abbracciato, non ha pianto, ha semplicemente detto in un miscuglio d’italiano e argentino, la lingua con cui si esprimevano i napoletani che vivevano a Buenos Aires: «Va’, va’ a vedere se non si sono sbagliati, se per caso è ancora viva e non le è successo niente».

    Volevo stringerlo tra le braccia, soffrire insieme a lui. Non ho potuto. Sono tornato alla realtà. Mia madre era morta, e i medici e le infermiere che mi erano passati accanto non me l’avevano detto. Avevano chiamato a casa, ma non erano stati capaci di uscire in corridoio ad avvertirmi. Io ero lì vicino, potevo accudirla. Ero pronto a fare qualsiasi cosa, anche se era tutto inutile. E lui insisteva: «Va’ a vedere se Angela è viva. Magari si sono sbagliati ed è morta un’altra donna». Dove dovevo andare? Non ho pianto. Neanche mio padre e nemmeno Roberto. L’unico a versare qualche lacrima è stato Nino, suo fratello. «Povera sora», ripeteva ogni tanto, mentre mi stringeva al petto come se fossi l’unica cosa che gli restava di lei. Mio padre e io soffrivamo in silenzio.

    Non riuscivamo a spiegarci né ad accettare una morte così precoce e inaspettata. Mia madre aveva cinquantadue anni. Un vecchio dottore brizzolato ci ha comunicato che era morta di embolia cerebrale e, poco dopo, un altro ci ha spiegato che la causa, in realtà, era stata una reazione allergica all’aspirina. Li avevamo avvisati più di una volta e avevamo lasciato biglietti ovunque con su scritto: È allergica all’aspirina. Lo avevamo dichiarato ripetutamente e loro non ci avevano dato ascolto. Anni dopo sono venuto a sapere che, mesi dopo, Giovanni, il fratello maggiore di mio padre, aveva invano intentato una causa. Maledetto Ospedale Italiano, maledetti medici. Erano le dieci di mattina ed è saltato fuori un giovane in camice bianco a chiederci il pagamento di non so che cosa. Roberto l’ha afferrato per il collo, mentre inveiva in napoletano e minacciava di ridurlo in poltiglia. «Comme nun me cunt’ tutt’ cos’, te paleo». Io non ho atteso spiegazioni: gli ho dato un pugno nello stomaco e lui è crollato come una bambola di pezza. È caduto lungo disteso a terra. Sono arrivate le guardie e Roberto le ha affrontate. Credo che si siano spaventate, perché urlavano di calmarci e che quel povero uomo non aveva alcuna colpa. Ed era vero, però a noi non importava. Eravamo quattro napoletani indignati, addolorati, incontenibili, che combattevano come nella guerra che loro avevano vissuto, ma io no. In quei minuti, ogni cellula del mio corpo ha smesso di essere mia. Ho tirato fuori qualcosa di sconosciuto fino ad allora: violenza allo stato puro. Avrei potuto assassinare chiunque. Mio padre, invece, guardava il pavimento con occhi privi di vita. Mia madre è morta il 15 febbraio 1977.

    3

    La vita deve continuare

    Giovanni si è fatto carico di tutto. Del resto, era l’unico che aveva abbastanza denaro per garantire un funerale dignitoso. Aveva disposto che la veglia funebre avvenisse nel Barrio Norte, in una camera mortuaria di calle Juncal, dove ci andava la gente ricca. Giovanni, che era l’egoismo in persona, tranne che con me (forse perché era il mio padrino), aveva comprato la bara migliore e affittato la stanza più grande tra le cinque disponibili. C’erano eleganti sedie grigie e grandi finestre che si affacciavano su un giardino; addossato alla parete c’era un tavolo con una tovaglia bordata, bottiglie di vino bianco, dolci e cibarie. C’eravamo quasi tutti. I tre fratelli di mio padre, Giovanni, Antonio e Roberto, due dei quali avevano portato le rispettive mogli, Amalia e Annunziata; il mio miglior amico, Gennarino, con Carmelina, sua madre; uno dei soci di Giovanni della fabbrica di mattoni; i vicini; e Julia, la mia fidanzata, vestita rigorosamente a lutto con gli occhiali neri, che non mi ha mai lasciato la mano mentre mi consolava in tutti i modi possibili. C’era anche altra gente. Un rumore secco riempiva la camera mortuaria.

    Io non avevo mai assistito a una veglia funebre. Sono spaventose. Il volto di mia madre emergeva dal coperchio della bara con il bel sorriso disegnato dagli uomini dell’impresa funebre. Non era male. Non mi dava fastidio calpestare le fughe delle piastrelle o toccare le maniglie delle porte, come mio solito. Non c’era tristezza in me, né disgusto né preoccupazione. Non c’era nulla. Ero come un burattino che Julia portava da una parte all’altra. Il mormorio diceva: «Che bella donna», «È sempre stata molto bella», «Una persona così buona, era una santa». Alcune anziane, probabilmente pagate da mio zio, pregavano, mentre altre piangevano battendosi il petto. Com’è facile soffrire dietro compenso! Mio padre, con un gesto inconsueto, ha provato a ringraziare Giovanni: ha aperto le braccia e gli si è avvicinato. Ma mio zio ha alzato a sua volta le mani con i palmi rivolti in avanti per fermarlo, borbottando: «No, no, no», per poi allontanarsi senza dissimulare il proprio fastidio. Niente pareva reale. Finché non sono arrivati i magliari e sono tornato in me.

    I magliari. Essere un magliaro non è facile: ci vuole fegato. A volte funzionavano come una setta, altre come una banda organizzata, il cui unico motto era: la sopravvivenza giustifica ogni cosa e bisogna sempre fare attenzione, perché chiunque può essere come te. Poche settimane dopo essere arrivato come clandestino su una nave proveniente da Rio de Janeiro, mio zio Roberto aveva conosciuto a Rosario uno di questi napoletani, che gli aveva spiegato come funzionava il loro lavoro: vendevano merce falsa o difettosa allo stesso prezzo dell’originale. E, dato che lo Zuoppo non aveva alcuna impresa edile, si era unito a loro. Era così che si guadagnavano da vivere i miei zii, tranne Giovanni, che grazie alla fabbrica di mattoni era riuscito a migliorare la propria posizione sociale e a concludere affari con importanti imprenditori. Per questo aveva preso le distanze, per quanto possibile, dalle sue radici napoletane.

    Ebbene, i magliari. Sono venuti in tre a porgerci le condoglianze: ci hanno stretto le mani e ossequiato in modo formale, parlando in italiano con un marcato accento napoletano. «Le mie più sentite condoglianze». Poi, però, sono arrivati altri. E altri, e altri ancora. Come uno sciame, si sono messi a ronzare intorno a mia madre. Erano fatti con lo stampino: bassi, inquieti, con jeans Lee e mocassini senza calze. Dopo un po’, si sono spostati intorno al tavolo. Come sanguisughe, si sono scolati la metà delle bottiglie di vino e hanno finito le cibarie. Se avessero potuto, si sarebbero portati via la bara per rivenderla. Uno di loro ha fatto una battuta fuori luogo e mio padre, pur essendo anche lui un magliaro, lo ha fulminato con lo sguardo. Io non li sopportavo. Da sempre.

    Parlavano un napoletano talmente stretto che, a tratti, sembrava arabo; gesticolavano in modo teatrale, agitavano le braccia e alzavano la voce. Sono persino venuti dalla camera mortuaria accanto per dirci di osservare il silenzio. In realtà, non ho mai conosciuto un napoletano che parlasse a bassa voce. Non sanno come si fa.

    Era impossibile nasconderli o nascondermi, così non ho avuto altra scelta se non quella di permettere agli amici dell’università e ai due o tre professori presenti di toccare con mano il mio mondo, senza filtri o bugie. Per fortuna non hanno indagato, non sono venuti a conoscenza del mercato Spinetto o della pizzeria Vesuvio, però di sicuro sono tornati a casa con un’impressione indelebile della famiglia Merola.

    Nino era il più umano della compagnia. Ogni tanto mi dava dei colpetti affettuosi, chiamandomi guaglione. Io mi muovevo con attenzione per evitare, ora sì, di pestare le fughe delle piastrelle, mentre allungavo le mani sudate, rassegnato a non potermele lavare. Giovanni, con aria tetra e affranta, si è mantenuto in disparte, insieme al suo socio, che apparteneva chiaramente a un’altra classe sociale: scarpe di vernice, abito scuro gessato, camicia bianca inamidata e cravatta di seta. Un italiano dell’Italia bene. A un certo punto, si è avvicinato a mio padre per dirgli con molto garbo: «La perdita da lei subita è per me motivo di dolore e sincera commozione». Amalia, la sposa di Giovanni, non si è mai alzata dalla sua sedia e teneva lo sguardo fisso sulla bara. Julia, con una minigonna nera, non la smetteva di piangere. Dopo tanti anni di fidanzamento, le voleva bene come una seconda madre. Io l’amavo con tutto il cuore. Ne avevo bisogno come dell’aria.

    Fatta eccezione per Antonio e Annunziata, che erano arrivati da San Luis, i presenti erano tutti di Buenos Aires. Mio nonno, il padre di mio padre, lo Zuoppo, non si era fatto vedere. Non c’era mai stato nei momenti più importanti, e delle poche occasioni in cui l’avevo visto non serbavo bei ricordi. Era un taccagno, il re dei taccagni. Mi ricordo che, le rarissime volte che eravamo andati a mangiare a casa sua, prima mi riempiva sempre il bicchiere d’acqua e poi versava un paio di gocce di vino, dicendo: «Basta il colore». E quando faceva la pasta, ce ne metteva nel piatto soltanto un pugno, una vera eresia per qualsiasi napoletano, aggiungendo: «Basta il sapore». Era così taccagno che aveva messo un lucchetto al frigo, come se fosse una cassaforte. Un giorno, da bambini, io e i miei cugini lo avevamo scassinato e poi avevamo distribuito il cibo alle persone che passavano per strada. Per quanto riguardava la sua menomazione, sosteneva di essere rimasto ferito nella prima guerra mondiale, quando, brandendo una spada, era tornato a cavallo al campo nemico per recuperare una bandiera italiana. Come prova, aveva una medaglia, la croce al valore che, secondo mio padre e i miei zii, aveva comprato da un antiquario. Nessuno credeva al racconto del nonno.

    Mia nonna Tina, la mamma di mio padre, era morta quando lui e i tre fratelli erano ancora piccoli. I quattro erano cresciuti senza una guida: erano diventati scugnizzi, vivendo come potevano agli ordini di Giovanni, il maggiore. Ed ecco che affrontavano di nuovo la morte senza il padre.

    Il giorno seguente abbiamo portato il corpo di mia madre al cimitero della Chacarita. Dopo una lugubre processione, hanno messo la bara in una specie di casella postale. Giovanni aveva scelto un loculo in alto, tra quelli più cari. Abbiamo sistemato i fiori e ce ne siamo andati dopo aver ascoltato il sermone di un parroco sull’aldilà, che, a quanto pareva, era migliore del mondo in cui vivevamo. Io avevo bisogno di Dio, ma lì, accanto alla tomba di mia madre, avevo perso la fede.

    Solo pochi di noi hanno accompagnato mio padre a casa. Mentre bevevamo la grappa, mi hanno informato che la pizzeria sarebbe rimasta chiusa per lutto per una settimana intera. Ho lo sguardo di mio padre impresso a fuoco nella mente. Vedo i suoi occhi spenti, quasi miserabili, e lo vedo bere un sorso di liquore prima di dire senza convinzione: «La vita deve continuare». In quel momento, ho capito che non c’era cura, che nel nostro cuore era stata aperta una ferita permanente. A ventisei anni, mi avevano diviso in due. Mio padre era stato bastonato oltre il limite della sopportazione. Non era la seconda guerra mondiale. Era peggio: Angela se n’era andata. Eravamo soli.

    4

    Il popolo armato

    giammai sarà arrestato

    Sono stato costretto a recarmi all’università per delle pratiche. Dal 24 marzo dell’anno precedente, alla uba era cambiato tutto. Lettere, Filosofia e Psicologia, tra le altre facoltà, erano considerate sovversive da parte dei militari. Quel giorno, la mia era più deserta e priva di vita che mai. Mi ha ricordato l’ospedale.

    Nell’ultimo anno avevo affrontato dure prove. Ero riuscito a laurearmi in Psicologia per miracolo. Non ero un leader o un dirigente importante dei movimenti rivoluzionari, ma alcuni mi conoscevano come facente parte dei tupac, il braccio universitario della Vanguardia Comunista, un partito dalla linea dura che si definiva maoista-marxista-leninista. tupac: tendenza universitaria popolare antimperialista combattiva. Il nome non dava certo l’idea di un movimento moderato. Gli amici del Partido Comunista e della Juventud Peronista, inclusi quelli di altri gruppi radicali, non c’erano più, come se non fossero mai esistiti. Troppo silenzio nei corridoi. La facoltà non era ufficialmente militarizzata, però ci si aggirava gente strana. La paranoia si era impossessata di me.

    Vicino all’ufficio del rettore ho incrociato il dottore Grimoldi, uno dei pochi bravi professori che ancora insegnavano. Era docente di Statistica e Psicometria; ero stato suo assistente per quasi tre anni e avevo imparato molto su come stilare test e questionari, come standardizzarli e metterli in pratica. Mi ha teso la mano. Era un uomo alto, dall’aspetto amabile e con i ricci biondi. Sosteneva di non essere interessato alla politica e aveva la fama del matematico pazzo. Ci siamo scambiati due convenevoli e ci siamo salutati. Mi ha fatto piacere vederlo. Nella caffetteria, invece, ho incontrato Mario dell’ufficio ammissioni, un militante della Vanguardia Comunista, il cui compito consisteva nel reclutare nuove leve. La sua copertura era perfetta, o così credevamo. Ne ho approfittato per chiedergli notizie dei compagni che si erano esposti molto più di me e che erano noti leader universitari: il grasso Guzmán, Colorado, Sarmiento, Antonia, la Polacca… Erano quasi tutti scomparsi o finiti in prigione. Mario mi ha domandato se volevo continuare nella Vanguardia e mi ha riferito che quello, quello era il momento in cui la lotta si faceva più importante: bisognava resistere all’esercito. Mi ha chiesto di Gennarino, perché mi aveva accompagnato a un paio di riunioni del partito e sapeva che eravamo amici.

    In realtà, era stato Gennarino a convincermi che i princìpi della Vanguardia Comunista erano validi. Quando Cámpora era diventato presidente, con i peronisti che gridavano Cámpora al governo, Perón al potere, in uno di quei giorni di disordini politici, tra i caffè e la pioggia tipica di Buenos Aires, in un bar di Pueyrredón, mi aveva raccontato la sua avventura politica.

    «Senti», mi

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