Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Fiutando il vento
Fiutando il vento
Fiutando il vento
E-book532 pagine7 ore

Fiutando il vento

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una ragazza e il suo cane.
Un delitto.
Un’oscura profezia.
Sicilia, costa orientale, oggi.
Chi è Bianca De Flor?
Qual è il mistero che la lega a un passato che affonda le sue radici nel Medioevo?
Quando il cadavere di una donna viene ritrovato nelle acque del porticciolo di San Giovanni Li Cuti, Bianca e l’affascinante avvocato Cesare Ursino assumono la difesa dell’imputata accusata dell’omicidio.
Dietro il crimine si cela un filo che unisce i protagonisti e presto li coinvolgerà in una rischiosa avventura.
Il passato si riflette nel presente come in un gioco di specchi svelando un’antica verità, un segreto che attraversa i secoli.

 
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2019
ISBN9788832281101
Fiutando il vento

Correlato a Fiutando il vento

Ebook correlati

Poliziesco per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Fiutando il vento

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Fiutando il vento - Maria Elisa Aloisi

    edizioni

    Copyright

    Ogni riferimento a persone esistenti è frutto dell’immaginazione dell’autore.

    Alcuni personaggi sono basati su figure storiche reali.

    In alcuni casi, la loro caratterizzazione, i fatti narrati e la cronologia degli eventi è stata modificata, pur rimanendo fedele allo spirito dell’epoca.

    Proprietà letteraria riservata.

    © Argot edizioni

    Andrea Giannasi editore

    Proprietà letteraria riservata

    9788832281101

    www.tralerighelibri.com

    dedica

    A Francesco, per sempre.

    Ad Argo ed Eva, le nostre stelle.

    Prologo

    31 ottobre 2016

    Santo staccò il capone dall’amo e lo gettò nella cassetta.

    Il pesce scivolò nella massa argentea degli altri pescati prima, diede gli ultimi tratti palpitanti di coda e poi giacque immobile.

    Santo valutò con occhio critico l’insieme delle sue fatiche mattutine, era stato fortunato a incrociare un banco ricco e la pesca era stata generosa.

    Alzò gli occhi al cielo ottobrino proprio uguale al colore dei suoi caponi.

    Era partito che ancora non si vedeva, perché ormai nell’ultima settimana di ottobre le giornate andavano ad accorciare. Però adesso che erano le sei passate, era possibile scorgere il profilo della costa.

    Diede un’occhiata alla falce di terra che si arcuava sino al litorale siracusano mentre dirigeva la barca al porticciolo di San Giovanni Li Cuti, piccola borgata catanese.

    Ancora le luci notturne non si erano spente e si snodavano sul lungomare come gioielli di una collana. Panorama di lusso, per chi aveva il tempo di ammirarlo, ma a lui di queste cose non gliene importava proprio. Delle bollette della luce, dell’acqua, del gas, delle tasse scolastiche di Mimmo e di tutte le altre sventure che spuntavano ogni mattina, di quelle sì che gli importava eccome, che non ci dormiva la notte e per andarci appresso ce ne volevano di caponi da vendere al mercato di Catania e di scale da lavare per sua moglie Melina.

    Guardò i pesci, beh oggi qualcosa aveva fatto e, se si spicciava, c’erano buone probabilità di portare a casa qualche lira.

    Cercò di organizzare le mosse successive e un sorriso gli curvò le labbra, addolcendogli i tratti del viso, quando vide sul molo, accanto alla sua macchina, allineata ad altre quattro o cinque, quella di suo compare Turi.

    Forse oggi sarebbe arrivato al mercato prima di lui, dato che di quel bastardo non c’era ancora neanche l’ombra.

    Non aveva che da superare i frangiflutti del molo e poi… gli occhi gli caddero su qualcosa che fluttuava in acqua simile a una enorme medusa. Il viso si contorse in una smorfia e le braccia crollarono inermi lungo i fianchi.

    Si avvicinò lentamente mentre la nausea lo attanagliava alla gola. La cosa non era affatto ciò che gli aveva suggerito la sua prima impressione.

    Accostò con cautela, mentre le ipotesi formulate venivano a cadere una a una, spazzate via dall’unica conferma possibile.

    Spense il motore della barca e, con le mani tremanti, cercò il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni. Digitò con fatica e aspettò un tempo che gli parve un’eternità, sino a quando una voce rispose dall’altro capo della linea.

    «Pronto, carabinieri, dica»

    Santo si raschiò la gola asciutta.

    «Sì, pronto» gracchiò «mandate qualcuno qui al molo di San Giovanni Li Cuti… c’è un cadavere a mare impigliato negli scogli… mi pare una donna. Sì, non mi muovo… aspetto qui…»

    Rispose come un automa chinando la testa più volte in segno di assenso alle secche parole impartite dalla voce autoritaria che gli scoppiava nell’orecchio.

    Poi chiuse e ripose in tasca il cellulare, anche stavolta Turi sarebbe arrivato al mercato prima di lui.

    Sì, siamo in Sicilia, ma questa non è una storia di ammazzatine, né di mafia, non è nemmeno l’omicidio di una femmina disonorata.

    È una storia che forse in parte hai già sentito se sei capitato a Catania, quando arriva la lupa, la densa nebbia che sale dal mare, lenta, grigia, famelica.

    Alcuni cuntano che sono i saracini che ci maledicono dall’inferno, per averli un tempo cacciati dall’isola.

    Altri che il nome derivi dall’ululato che emetteva la brogna, il corno di conchiglia usato anticamente dai pescatori per segnalare la loro posizione, quando, sorpresi dalla nebbia, volevano scongiurare lo scontro con altre imbarcazioni.

    Ma no, questo è un cunto che si perde in un tempo lontano, una storia antica; se vuoi ascoltarla, è la mia storia e quella dei Tempestari.

    Levante

    Parte Prima

    Capitolo I

    4 febbraio 2017

    Il cancello di ingresso della tenuta era aperto, un viale alberato conduceva sino a un’antica costruzione in pietra lavica risalente in parte al periodo aragonese; il corpo originario della casa era molto mutato nel tempo e l’antica torre che dava il nome alla tenuta era scomparsa, anche l’uscio di casa era socchiuso.

    «C’è qualcuno?» domandò Auster Ruiz.

    Non giunse alcuna risposta, esitante sollevò il battente di bronzo della porta e lo lasciò ricadere… nessuno.

    «C’è qualcuno?» chiese ancora, alzando il tono di voce sperando di essere udito.

    La porta, che era accostata, spinta da una leggera folata di vento, si aprì cigolando, Auster entrò in casa, fu allora che lo vidi. Era impressionante quanto gli somigliasse!

    Ignorando di essere osservato, si guardò intorno poi prese qualcosa dalla tasca, un biglietto:

    «A Torre Aquilia il 4 febbraio» lesse piano come per accertarsi che il posto fosse quello giusto.

    «Ti aspettavo» gli dissi.

    Trasalì.

    Io me ne stavo comodo su una poltrona posta davanti una grande vetrata nascosto dalla spalliera.

    «Vieni, avvicinati» lo incoraggiai.

    Auster si mosse nella direzione da cui aveva sentito provenire la voce.

    Ci trovammo uno di fronte all’altro e ci guardammo.

    Lasciai che mi squadrasse a suo piacimento.

    «Ma… tu?»

    «Sì,» confermai senza lasciargli finire quello che stava per dire «sì, proprio così! Ma portami rispetto giovanotto, nessuno ti ha autorizzato a parlarmi con tanta familiarità.»

    Sussultò, era comprensibile.

    «Chiedo scusa» disse «ma…»

    «Scuse accettate,» lo interruppi «ma per il futuro dammi pure del voi.»

    Sembrò ancor più sbalordito; gli diedi ancora tempo per metabolizzare quanto gli stava accadendo.

    Ero certo che non si sarebbe tirato indietro, ma dovevo procedere con calma per non spaventarlo.

    Dopo qualche attimo di esitazione, infatti, tirò un grosso respiro e raddrizzò le spalle.

    «Non accadrà più,» disse «dunque siete stato voi a chiamarmi?» chiese ancora non del tutto convinto.

    «In carne e ossa,» risposi «siediti.»

    Sembrò rifletterci un attimo, poi cedette e scelse una poltrona di pelle nera collocata di fronte a me, ma a distanza tale da permettergli di svignarsela se le cose avessero preso una brutta piega.

    Compresi subito la sua strategia e tra me e me sogghignai senza offendermene. Era naturale, non si trattava di un incontro usuale.

    Tornai a osservarlo, era ancora nervoso anche se faceva di tutto per non darlo a capire.

    Si passò le dita tra i folti capelli castano scuro poi poggiò le mani sulle ginocchia.

    «Aspettiamo qualcun altro?» chiese.

    «Sì, ma gli altri non arriveranno prima di qualche ora. Bianca, invece, è al piano superiore, sta riposando, è stata una dura giornata, ma la conoscerai presto…»

    «Scusatemi, non avevate specificato un orario e ho fatto il più presto che ho potuto» si giustificò.

    «Stai tranquillo e mettiti comodo,» lo rassicurai «è una lunga storia e devi conoscerne ogni dettaglio.»

    Rimanemmo in silenzio un momento, poi mi decisi.

    «Ha ancora senso osservare il cielo?» chiesi rompendo quell’istante di tregua ma non aspettandomi una risposta «Ha ancora senso il procedere lento delle stagioni?»

    «Ma cosa c’entra questo? Non capisco» chiese Auster confuso.

    «Eppure,» continuai intimandogli di fare silenzio con lo sguardo «eppure, non dovremmo dimenticare di alzare gli occhi al cielo e ammirare i sentieri più volte percorsi dal sole, dall’alba al tramonto e di notte, poi, perderci fra le stelle. Niente avviene per caso, Auster, una serie di azioni, una serie di incontri, anche casuali, determinano una serie di eventi… Ecco perché più e più volte, ritornando indietro con il pensiero, mi sono chiesto quale sia stato l’esatto momento, il preciso incontro, quella determinata azione e il conseguente momento che inesorabilmente ci ha condotto qui.»

    «E avete trovato una risposta?» chiese.

    «Sì,» sospirai, prima di iniziare il mio racconto «adesso credo di sì».

    *****

    Nell’esatto momento in cui, il 20 marzo 2016, entrava l’equinozio di primavera, suonò il telefono. Bianca aprì gli occhi, ma chi poteva essere a quell’ora?

    «Pronto» rispose con la voce impastata dal sonno.

    «Avvocato De Flor scusi, sono il tenente Russo, stiamo procedendo all’arresto del signor Pulvirenti.»

    «Grazie per la tempestiva comunicazione» mormorò Bianca.

    «Avvocato… ecco, è sorto un problema. Dovrebbe essere così gentile da raggiungerci, l’aspettiamo» continuò il tenente Russo.

    Filippo, il fidanzato di Bianca, sbuffò con impazienza e si girò dall’altra parte nascondendo la testa sotto il piumone.

    Bianca, invece, si alzò, si vestì in un baleno, sistemò i capelli castani in una treccia e uscì.

    Catania era ancora immersa nella notte; prese la circonvallazione tagliando per i paesi etnei.

    Il signor Pulvirenti abitava vicino al cimitero di Valverde, un piccolo centro di quel territorio.

    Bianca lo conosceva da molti anni, sapeva dunque che aveva vissuto un’intera vita di espedienti e truffe, ma poi era intervenuto il nonno, il suo amatissimo nonno, che gli aveva dato un lavoro, una nuova chance in nome di un’antica amicizia col padre di lui nata tra i banchi di scuola, e ne aveva fatto il massaro della loro tenuta di famiglia.

    Purtroppo la macchina della giustizia si era già messa in moto.

    Come suo legale, per anni, aveva fatto peripezie da giocoliere per tenerlo lontano dal carcere, ma alla fine era arrivata quella sentenza di condanna per bancarotta fraudolenta e il signor Pulvirenti avrebbe scontato un bel po’ di anni.

    Due carabinieri la attendevano al cancello della casa del suo cliente e la scortarono dentro.

    Appena il suo protetto la vide, la stritolò in un abbraccio teatrale.

    «Avvocato, grazie, grazie, avvocato grazie!» ripeteva commosso.

    Bianca si liberò a fatica dalla stretta.

    «Prego,» disse glaciale «cos’è successo?» chiese al tenente «Perché mi avete fatto venire?»

    Russo, così interpellato, arrossì un po’, fissò imbarazzato la punta delle scarpe e iniziò a rigirarsi nervoso il berretto tra le mani.

    Bianca, sempre più spazientita, rivolse uno sguardo interrogativo a entrambi.

    «Allora, posso sapere cos’è successo?» insistette.

    «Avvocato,» ruppe il silenzio Pulvirenti «lei lo sa che non ho parenti, amici, nessuno, tranne mia sorella Adelaide, che manco mi parla, l’ingrata, dopo tutto quello ca fici pi idda!»

    «Certo, certo, lo so.»

    «Avvocato, lei per me è come una figlia!» continuò l’uomo.

    Bianca non sembrò commossa da quella dichiarazione ma rimase impassibile, cercando di capire dove volesse andare a parare il suo cliente, per cui alla fine, il poveretto, visto fallire ogni tentativo di ammorbidirla, tentò il tutto per tutto. La prese per un braccio e indicò un angolo della stanza dove nella penombra un cucciolo sonnecchiava su un enorme cuscino.

    Era sbalordita, e l’avevano tirata giù dal letto per questo?

    Guardò Pulvirenti, ma quello, come se nulla fosse: «Avvocato, la prego,» le chiese con incredibile faccia tosta «potrebbe tenermelo per qualche giorno?»

    «Qualche giorno?» esclamò Bianca di stucco «Lei vuole scherzare! Dovrà scontare una pena di 5 anni e mi dice se posso tenerlo per qualche giorno?»

    «Avvocato,» s’intromise il tenente, indicando compassionevole il cane «se non lo prende lei, saremmo costretti a portarlo in canile.»

    Sembrava una congiura contro di lei.

    «Tenente, non s’intrometta, questa discussione non la riguarda. Mi avete fatto saltare giù dal letto, nel cuore della notte, di domenica… Io non ci posso credere!»

    «Avvocato, si calmi» riprese Russo «il cucciolo non ha nemmeno tre mesi. È impensabile che possa sopravvivere in un canile, vuol dire che mi impegnerò personalmente a trovare un’adozione vantaggiosa anche contattando le nostre unità cinofile. Mi sono permesso di disturbarla per le insistenze del suo cliente, ma non parliamone più!»

    Il cucciolo si era svegliato e sbadigliava. Si sforzò di non guardarlo, era proprio carino.

    «Quello che non capisco è: perché si è comprato un cane se sapeva che sarebbe dovuto andare in carcere?» chiese Bianca a Pulvirenti, in preda a un vago senso di colpa.

    «Avvocato, che comprare e comprare, a casa dei suoi nonni lo trovai! A Torre Aquilia!»

    «A casa dei miei nonni?» esclamò incredula.

    «Precisamente. La notte di Natale ci passai per vedere se tutto era a posto e trovai sto ammaleddu sotto la fontana di pietra, proprio dove c’è l’incisione che mi leggeva sempre suo nonno, che Dio l’abbia in gloria» disse facendosi il segno della croce. «Nicu nicu era, pareva un suggiteddu. Mi passi proprio un segno del destino e Sirio lo chiamai.»

    «Davvero? Mi spieghi meglio. Che c’entra l’incisione con la scelta del nome?» chiese curioso il tenente.

    Si stava degenerando, i due si comportavano come se stessero conversando a metà mattinata davanti una brioche e un cappuccino.

    Intanto Pulvirenti con l’atteggiamento di un gran professorone si diffondeva nella spiegazione: «È la frase di un salmo, e l’imparai a memoria di quante volte la sentii ripetere al nonno della signorina: "Hic habtta boam elegie a stlia mtna", che dovrebbe significare: qui abiterò perché l’ho scelto, o stella mattutina.»

    «Pensavo fosse Venere la stella del mattino» continuò il tenente con l’aria di chi la sa lunga.

    «Sì, ma nell’astrologia antica, spesso si faceva riferimento a Sirio, la stella più lucente del firmamento della costellazione del cane maggiore» lo interruppe Bianca esasperata da quella conversazione paradossale. Poi, rivolgendosi al signor Pulvirenti: «Ma il cucciolo non può lasciarlo a sua sorella Adelaide?» gli chiese in un ultimo disperato tentativo.

    «Avvocato, ma che è pazza? Quella mi facissi curriri, l’asma c’ha! Solo lei mi può aiutare.»

    Bianca iniziava a cedere, guardò di nuovo il cucciolo. «Ok,» disse ancora esitante «ma solo per qualche giorno, il tempo di trovare delle persone affidabili, tenente, me l’ha promesso, lo tenga presente!»

    «Grazie avvocato, grazie, grazie, avvocato, glielo avevo detto al tenente che lei per me è come una figlia!» esclamò il signor Pulvirenti consolato «lo sapevo che non m’avvissi dittu di no, tanto che preparammo tutte cosi nel mentre che arrivava: cuccia, croccantini, ciotole, tutto c’è!»

    «Ah, avevate preparato già tutto?» disse Bianca, fulminando Russo con lo sguardo.

    «Io veramente, come le ho detto prima, pensavo che non lo avrebbe voluto, avvocato,» cercò di difendersi il tenente «ma complimenti! Mi lasci dire che la stimo per quello che sta facendo.»

    «E quindi Bianca portò con sé il cucciolo?» mi chiese Auster, non capendo ancora come tutta questa storia potesse riguardarlo.

    «Proprio così. Ma non avere fretta, te l’ho già detto, è una lunga storia» risposi.

    Capitolo II

    Filippo era in piedi e faceva colazione.

    Bianca entrò in casa tenendo in braccio Sirio e lo salutò con un gran sorriso stampato sulle labbra.

    Lui ricambiò distratto continuando a sorseggiare il caffè, impegnato a guardare la tv.

    Bianca schiarì la voce e Filippo si decise a concederle la sua attenzione; mise a fuoco la scena e spalancò la bocca come se, anziché un cane, avesse visto un cucciolo di drago.

    Restò immobile, balbettò per alcuni secondi parole smozzicate, prive di senso compiuto, poi il bisogno di esplicitare la sua rabbia sbloccò la situazione.

    «Bianca, cos’è sto coso?»

    «Un cane, un cucciolo di cane-lupo, almeno così pensa il tenente Russo» gli rispose fingendosi disinvolta.

    «Bianca, cosa ci fa in casa mia un cane?»

    «Filippo, non mi pare tutta sta tragedia, e comunque ti faccio notare che in questa casa ci abito anche io. Resterà solo qualche giorno, ok? Hanno arrestato il signor Pulvirenti e l’alternativa era portarlo in canile; quindi starà qui sino a quando gli troveremo una brava famiglia che lo adotti.»

    «Troveremo chi, Bianca?»

    «Filippo, ma perché continui a ripetere il mio nome? Mi aiuterà il tenente, chiederà aiuto ai suoi contatti dell’unità cinofila. E poi scusa, ma non hai sempre detto che ami gli animali? Uffa!»

    «Uffa? Bianca, mi porti a casa un cane e dici uffa! Mi porti un cane, un grande cane, non uno piccolo, un cane che diventerà pericoloso, che morderà la gente, che farà le buche in giardino e che piscerà ovunque e mi chiedi se amo gli animali?»

    «Ok, ho capito, non potevi essere più esplicito, ma adesso vai a preparare la valigia altrimenti rischi di perdere l’aereo. Tranquillo, al tuo ritorno non lo troverai» concluse sbrigativa.

    Filippo sarebbe dovuto partire per lavoro.

    Per lei era stata una delusione, perché era la settimana di Pasqua e avevano progettato di fare un viaggio di piacere, ma poi era sopraggiunto questo impegno professionale.

    La famiglia di Filippo aveva una compagnia assicurativa e nelle ultime settimane si era prospettata la possibilità di una fusione con un’altra società che aveva sede a Lugano. Dunque, era necessario questo viaggio in Svizzera per trattare l’affare.

    Bianca però adesso ne fu a dir poco felice: avrebbe avuto tutta la settimana a disposizione, libera da impegni di lavoro, per trovare una buona sistemazione al cucciolo.

    Si sentì sollevata e, anche se non voleva ammetterlo, un po’ impaziente di liberarsi di Filippo.

    Come promesso, il tenente Russo chiamò dopo qualche giorno: «Buongiorno avvocato, allora come procede?»

    Dopo che il suo fidanzato era andato via borbottando sino alla porta di casa, tutto era stato un idillio tra giochetti e risate.

    «Buongiorno tenente, Sirio è bravissimo, non ci crederà, ma lui sa già dove fare pipì, è molto intelligente, sembra leggermi nel pensiero, io gli dico: Sirio, pipì! e lui va nel suo angoletto in giardino e …»

    «Avvocato,» la interruppe Russo, a cui evidentemente i virtuosismi di Sirio non suscitavano grandi emozioni «ho una buona notizia per lei, ho trovato un’adozione per il cucciolo».

    «Ah, bene…» rispose Bianca delusa.

    Quella notizia che la liberava di tutti i suoi problemi, arrivava come una doccia fredda sull’entusiasmo di un momento prima.

    «Sa avvocato, quando domenica scorsa sono rientrato a casa, ho raccontato tutto alla mia fidanzata e lei è rimasta così colpita dalla storia, che, dopo averci riflettuto qualche giorno, si è dichiarata disponibile ad adottare il cucciolo.»

    «La sua fidanzata?» l’interruppe Bianca.

    «Proprio così, non è contenta?»

    «Oh certo, tenente, molto contenta, davvero!»

    «Allora se per lei va bene, possiamo passare a prendere il cucciolo stasera verso le nove.»

    «Stasera?» chiese Bianca con un tono che frenava ogni entusiasmo «Tenente, le chiedo scusa, non è per sfiducia, ma un’adozione va valutata, non possiamo sballottare il cucciolo di qua e di là, ha già cambiato due case. La terza sistemazione deve essere quella definitiva.»

    «Sono d’accordo con lei, avvocato, ma Letizia si impegnerà di certo.»

    «Non ho dubbi in proposito» gli rispose «ma posso chiederle se abitate insieme?»

    «No.»

    «Letizia ha altri cani?»

    «No.»

    «Ha mai avuto altri cani, gatti, che so io pesci rossi?»

    «No, perché, lei sì, avvocato?»

    Russo iniziava a spazientirsi.

    «Non sono io che mi sto candidando all’adozione!» ribatté Bianca altrettanto insofferente.

    «Beh, il fatto che la mia fidanzata non abbia mai avuto animali non significa che non li ami e che non possa decidere di adottarne uno…»

    «Certo, certo» lo interruppe conciliante «e potrei sapere che lavoro fa la sua fidanzata?»

    «Non comprendo la ragione della domanda, comunque è medico, una ginecologa.»

    «Allora, non se ne abbia a male, ma non ci siamo proprio» concluse Bianca.

    «Temo di non capire» dichiarò il tenente sempre più frastornato.

    «Lei qualche giorno fa mi ha tirato giù dal letto prima che sorgesse il sole, per affidarmi un cane» gli rispose assumendo un tono di rimprovero. «Adesso, mi dice che la sua fidanzata si è fatta avanti per adottarlo. Ma ha pensato a quanto lavora una ginecologa? Un cucciolo ha bisogno di cure, non può stare in casa da solo per ore in attesa che arrivi la sua padrona. Non si offenda, la prego, ma temo proprio che dovremo trovare un’altra soluzione.»

    Durante il corso della settimana Russo chiamò altre volte, tuttavia ogni proposta venne bocciata e tutti i possibili candidati vennero respinti uno per uno.

    «Avvocato,» disse esasperato il tenente alla fine di quella laboriosa settimana di dinieghi «scusi la sincerità, ma non è che per caso Sirio vuole tenerselo lei?»

    «Veramente, sì!» rispose Bianca, liberata da quel peso che le gravava sulla coscienza, come se non vedesse l’ora di confidarlo a qualcuno «Ma non credo che Filippo, il mio fidanzato, la prenderà bene.»

    «Sono sicuro che troverà il modo per farglielo capire» la rassicurò ridacchiando Russo.

    Filippo, rientrato dalla Svizzera, vide quindi sfumare all’orizzonte il suo momento di auto-determinazione. Lui e Sirio non divennero mai grandi amici, si guardavano con sospetto tenendosi a distanza l’uno dall’altro, e questo in qualche modo, rese le cose più semplici per Bianca.

    Non appena Sirio fu più adulto, nel pomeriggio prese l’abitudine di portarlo con sé a lavoro e in breve divenne la mascotte dello studio legale che Bianca condivideva con le due socie, Benedetta e Una.

    Il momento più bello però era quello del rientro.

    Da quando il cucciolo era entrato a far parte della sua vita, Bianca aveva messo da parte tacchi vertiginosi e preso la buona abitudine di andare al lavoro a piedi, per cui la sera percorreva insieme a lui tutto il lungomare sino a casa.

    Bianca, grazie a Sirio, riscopriva quel tratto incantevole della sua città, il profumo dello iodio e il rumore del mare che si infrangeva sulla scogliera.

    Era già primavera inoltrata e il crepuscolo indugiava ogni giorno un minuto in più.

    Per Sirio quello era il momento più atteso della giornata, zampettava allegro con l’andatura ancora scomposta da cucciolo, poi a un tratto era stanco, alzava lo sguardo verso Bianca e il messaggio era chiaro: prendimi in braccio e arrivavano così abbracciati sino a casa, la casa di Filippo, dato che per fortuna non riuscì mai a considerarla sua…

    «Per fortuna?» chiese stupito Auster.

    «Non farmi perdere il filo» lo rimproverai.

    Molti rapporti nascono e si evolvono in maniera complicata, sospirai.

    Bianca aveva perso i genitori in un tragico incidente quando era piccola ed era cresciuta con i suoi nonni paterni.

    Lei e Filippo si erano conosciuti all’università e, quando i suoi nonni morirono a distanza di un paio di mesi l’uno dall’altro, la nipote, come per buttarsi alle spalle tanto dolore, decise di allontanarsi dai luoghi che l’avevano vista felice andando a vivere da lui. Filippo era tutto ciò che le restava, il surrogato della sua famiglia, quantomeno sino a quella famosa mattina…

    Capitolo III

    Quel venerdì di giugno Bianca uscì dal tribunale che erano ancora le undici, aveva finito prima del previsto e aveva il tempo per un salto dal parrucchiere, dato che Filippo l’attendeva per ora di pranzo.

    Tolse la modalità silenzioso al telefonino e verificò una chiamata senza risposta di Teresa, la vicina; c’era anche un messaggio su WhatsApp, probabilmente perché non era riuscita a parlarle:

    Ma sei a casa? Sirio abbaia e piange, credo sia rimasto chiuso nel capanno degli attrezzi.

    Bianca si allarmò. Sirio nel capanno, impossibile!

    L’aveva lasciato che dormicchiava sul suo cuscino un paio di ore prima. Provò a chiamare Teresa. Il telefono squillava invano, di sicuro era andata a lezione di yoga.

    Compose allora il numero di Filippo ma niente: si inseriva la segreteria telefonica. Doveva correre subito a casa.

    Arrivò in meno di un quarto d’ora e volò al capanno. Girò la maniglia, la porta era chiusa a chiave e Sirio guaiva all’interno.

    «Stai tranquillo, amore, eccomi. Adesso ti libero!»

    Diede un calcio alla porta ma senza ottenere nulla.

    Esasperata, diede una spallata: ancora nulla.

    Insistette. Non sentiva dolore solo la voce di Sirio che adesso abbaiava furioso come se la incitasse.

    Provò un’altra e un’altra volta ancora e in fine la porta si aprì.

    Sirio le saltò addosso felice.

    «Piccolo mio stai bene?» gli chiese come se potesse risponderle.

    Le ci volle qualche minuto per calmarsi, poi capì e l’ira si impadronì di ogni cellula del suo corpo.

    Chi aveva chiuso la porta a chiave? La risposta arrivò ovvia e immediata: Filippo!

    Con Sirio che le correva dietro si diresse verso la villa, livida dalla rabbia.

    Entrò veloce in soggiorno, era vuoto. Forse Filippo stava ancora poltrendo e aveva chiuso Sirio per non farsi disturbare.

    In un attimo, sempre seguita dal cane, raggiunse la camera e spalancò la porta…

    Sirio inclinò la testa perplesso su un lato e poi sull’altro, non capendo cosa stesse facendo Vittoria, la socia di Filippo, sul letto nuda a cavalcioni sopra di lui.

    Bianca li guardò impassibile mentre si rivestivano, poi chiese: «Posso almeno sapere da quanto tempo?»

    «Da Natale» mormorò Vittoria.

    Mentre Filippo, come se questo potesse alleggerire la sua colpa, obiettava: «Da Pasqua!»

    «Quindi era questo l’improrogabile impegno di lavoro che ti ha costretto a lasciarmi sola durante le vacanze!» concluse Bianca.

    Si girò e andò in camera sua con l’intenzione di fare le valigie.

    «Per andare dove?» chiese Auster preoccupato.

    «Qui a Torre Aquilia» dissi «la casa dove ci troviamo in questo momento.»

    Bianca era l’unica erede di questa antichissima dimora nobiliare che non si era mai decisa a vendere, nonostante le ripetute sollecitazioni di Filippo.

    Arrivarono a Fleri, che, come hai potuto constatare, è un paesino alle pendici dell’Etna, lontano da Catania solo una ventina di minuti, con la macchina stracarica di roba.

    Era riuscita a portare via quasi tutte le sue cose, aveva lasciato solo qualche pacco che avrebbe recuperato l’indomani Benedetta.

    Ormai era deciso, a ventotto anni suonati, era giunto il momento di combattere i fantasmi e di fare ritorno a Torre Aquilia, dove l’amica l’avrebbe raggiunta il giorno dopo.

    Azionò il telecomando e, quando il pesante cancello si aprì, con la macchina attraversò il viale dei pini che conduceva alla villa.

    Lungo il perimetro della casa fiorivano aiuole di serpentaria.

    In tempi lontani senza una valida ragione, qualcuno riteneva questa pianta un medicamento contro i morsi di serpente, da qui l’etimologia del nome. In realtà nella tradizione siciliana, la pianta era considerata preziosa perché, come narrava una leggenda, non consentiva di oltrepassare la soglia di un’abitazione a chi voleva nuocere ai suoi abitanti.

    Forse proprio per questa ragione, il nonno di Bianca, superstizioso come molti in Sicilia, non aveva mai voluto estirpare quei cespugli per sostituirli con piante più decorative.

    Sui lati della casa, vi erano anche diversi alberi da frutta e le ciliegie pendevano generose.

    Parcheggiò sotto la pensilina sul retro dell’abitazione: l’aria profumava di gelsomino.

    Lì in mezzo, da qualche parte, c’era la gebbia, una grande vasca in muratura grezza utilizzata per l’irrigazione dei campi, ma che Bianca e suo nonno tanti anni prima usavano come piscina nelle giornate più calde.

    Era tutto come lo ricordava, come se il tempo si fosse fermato, come se lo spirito dei suoi nonni avesse preservato ogni cosa per alleviare in qualche modo l’amarezza di questo momento. In realtà, lo sapeva bene, ora che il signor Pulvirenti era in carcere, erano Adelaide e Aldo che si prendevano cura di Torre Aquilia.

    Girò sulla parte antistante e attraversò il chiosco in stile liberty. Il cespuglio di ortensie blu cobalto era rigogliosissimo, erano i fiori preferiti da sua madre. Si fermò ad ammirarlo mentre un velo di malinconia le invadeva il cuore.

    Entrò in casa palpitante, aprì le imposte e la luce inondò le stanze. Tutto era nello stesso identico posto. Si avvicinò alla poltrona di pelle nera del nonno e passò la mano sulla spalliera, lì seduta aveva trascorso tanti pomeriggi a leggere i classici per ragazzi. Una lacrima le scivolò lungo le guance.

    Fu allora che dopo anni ci rincontrammo. Sirio fu il primo a notarmi, facevo una passeggiata nei paraggi e, vedendo la porta aperta, incuriosito, ero entrato.

    Appena si accorse della mia presenza, rizzò tutto il pelo, io mi misi sulle difensive ma per fortuna proprio in quel momento Bianca riapparve sull’uscio, dove aveva lasciato i bagagli.

    Appena mi vide restò perplessa qualche secondo.

    «Levante, sei proprio tu? Non ci posso credere!» esclamò felice.

    Le corsi incontro con la coda dritta e mi strusciai, assai contento, sulle sue gambe. Te lo confesso, mio caro Auster, quella ragazza mi era proprio mancata.

    Capitolo IV

    «Allora come stai?» chiese Una preoccupata all’amica.

    «Beh, meglio di quanto avessi immaginato, era una storia che non poteva andare avanti, c’eravamo stancati entrambi e non avevamo il coraggio di ammetterlo. La verità è che io e Filippo siamo troppo diversi.»

    «Era tempo che te ne accorgessi,» sospirò Una «Filippo è solo un pallone gonfiato!»

    Filippo fu argomento di discussione ancora a lungo e ogni occasione era buona per farlo a brandelli. Poi tutto ritornò alla normalità anche se Bianca fu costretta a cambiare un po’ la sua routine. Abitando a Torre Aquilia, non era agevole rientrare in casa per la pausa pranzo, come faceva quando abitava da Filippo, così lei e Sirio la mattina, dopo aver fatto una lunga passeggiata nel bosco della tenuta, si mettevano in auto per andare a Catania.

    Sirio restava in studio con Susanna, la segretaria, e attendeva che Bianca facesse ritorno dal tribunale.

    La ragazza aveva fatto dei piccoli lavoretti di ristrutturazione e rimbiancato le pareti; il giardino e il chiosco si erano colorati di cascate di fiori stagionali: vinche, surfinie, petunie.

    Dovette tuttavia abbandonare l’idea di programmare una vacanza per quell’estate. Per far fronte alle spese, era stata costretta ad attingere alla sua riserva di risparmi e quindi, dal momento che un giovane avvocato non poteva contare su guadagni troppo lauti, si imponeva un po’ di economia ma fu comunque una splendida estate.

    Mentre Bianca e Sirio nel pomeriggio esploravano un punto sempre diverso dell’Etna, raccontando al loro rientro avventure sempre nuove, io li attendevo sonnecchiando all’ombra in giardino.

    Appena quei due ritornavano dalle loro scorribande ancora accaldati e profumati di ginestra, si tuffavano nella gebbia e Bianca puntualmente mi canzonava: «Dai, Levante, non fare il pauroso, vieni a fare un bagno anche tu.»

    Fossi matto! Pensavo, e mi stiracchiavo al sole lisciandomi il mio morbido mantello grigio blu.

    Da felino che si rispetti avevo sempre odiato l’acqua!

    Poi Bianca, ancora tutta bagnata, si sdraiava al sole su un’amaca che aveva legato a due nespoli che suo nonno aveva piantato il giorno della sua nascita.

    Sirio, allora, le si accucciava vicino all’ombra mentre io le saltavo sopra raggomitolandomi sulla sua pancia, che pace…

    Riposavamo così fino all’imbrunire, sino a quando ci svegliava il canto delle cicale o, a volte, il clacson di Benedetta.

    E quante leccornie cucinava Una. Me ne allungava sempre di nascosto un bocconcino sotto il tavolo, quella ragazza aveva proprio un debole per me!

    Insieme cenavamo tutti in giardino, animali e umani, e ci godevamo da lì la vista sul Mediterraneo nella sua straordinaria tavolozza cromatica incorniciata dalla buganvillea rosso fragola che si rampicava sul chiosco.

    Una sera suonò il citofono.

    «Deve essere Una» disse Benedetta, mettendosi comoda e accendendo la tv.

    Era lei difatti.

    Bianca aprì il cancello d’ingresso mentre le diceva al citofono di parcheggiare sotto la pensilina sul retro dell’abitazione e, ritornando al divano: «Ha portato la pizza siciliana» annunziò.

    «Te lo ha detto lei?» le chiese Benedetta.

    «No, l’ho capito dal profumo, ultimamente ho un olfatto molto più fine, percepisco molti più odori. Sarà perché ho smesso di fumare.»

    «E lo hai sentito da qui? Mi pare un po’ esagerato… Non è che sei incinta?»

    «Sì, e di chi? Ma non dire cavolate!» le rispose ridendo.

    Una in effetti fece il suo ingresso con in mano l’inconfondibile pacco di Zu Vincenzu, confermando il pronostico dell’amica e le pizze siciliane, ripiene di tuma e acciughe, fecero dimenticare la discussione in corso dato che tutta l’attenzione dei presenti si concentrò sulla loro degustazione davanti alla tv che trasmetteva il telegiornale.

    A Catania c’era stata una nutrita serie di arresti, questioni legate a mafia e politica e il tg stava mandando in onda il servizio.

    Alcuni giornalisti cercavano di intervistare il legale di uno degli arrestati che aveva una delle posizioni più critiche, l’avvocato Cesare Ursino, il quale, dopo aver deluso gli astanti con un no comment, sfoderava un sorriso sexy a beneficio della telecamera.

    «Ma quanto è figo, che cosa gli farei!» ripeteva Benedetta, non staccando gli occhi dallo schermo.

    «È solo un presuntuoso dentro un abito su misura, non mi incanta con quel suo sorriso da maschio alfa» disse Bianca sprezzante mentre prendeva dal pacco una seconda pizza siciliana.

    «Che le prende?» sussurrò stupita Benedetta.

    «Boh,» fece spallucce Una e aggiunse con un filo di voce per non essere udita «forse l’avrà massacrata qualche volta in aula.»

    «Non è come credi,» la rimbeccò Bianca, che di sentirla, invece, l’aveva sentita eccome «dico solo quello che penso.»

    «Ad ogni modo io preferisco Mattia Giuliani. Quanto mi piace, è proprio un pasticcino!» cambiò discorso Una.

    «E chi sarebbe?» chiese Benedetta spaesata.

    «Ma come chi? È quel giornalista lì,» spiegò indicando lo schermo «sei proprio una capra, sempre incollata allo schermo a guardare serie tv!»

    Io e Sirio invece eravamo angosciati, come mai nessuno ci offriva un po’ di quella pizza?

    Bianca, come se ci avesse letto nel pensiero, si alzò e si avviò verso la cucina.

    Quanto amavo quella ragazza quando dal frigo tirava fuori i wurstel di pollo!

    I primi temporali settembrini spazzarono via tutte le orde di turisti. La mattina prestissimo Bianca e Sirio andavano a fare una bella nuotata sino ai faraglioni di Acitrezza.

    Dopo sedevano alla balata, vicino ai muretti, lasciando che i primi raggi del sole li asciugassero del tutto, mentre si godevano il porticciolo colorato e, sulla destra, il castello di Aci, arroccato su una rupe a strapiombo sul mare.

    Bianca, sin da bambina, non c’era volta che lo osservasse senza provare una strana inquietudine. La costruzione le appariva minacciosa, provocandole un brivido inspiegabile lungo la schiena.

    Arrivò l’autunno. I boschi man mano si coloravano di oro e i cespugli di biancospino, di bacche rosse; spuntavano timidi i primi ciclamini selvatici e il bosco di roverelle dietro casa iniziava a sfogliarsi.

    La stagione però, oltre ai suoi magnifici doni, portò anche il giorno più triste dell’anno.

    Bianca in quell’occasione si recava al cimitero per deporre fasci enormi di fiori sulla tomba dei nonni e dei suoi genitori. Preferiva farlo la mattina molto presto durante il giorno di Ognissanti, per evitare la folla del Giorno dei Morti.

    Quella mattina al ritorno, passando accanto all’edicola, si fermò per acquistare il quotidiano.

    Fu così che, leggendolo dopo colazione, apprese della tragica morte di Rachele Bernardi, personaggio in vista dell’alta borghesia catanese.

    Le Bernardi erano le eredi di un cospicuo patrimonio, il bisnonno era stato il fondatore della omonima clinica che vantava una lunghissima tradizione medico-chirurgica.

    Il corpo di Rachele era stato trovato il giorno prima nei pressi del porticciolo di San Giovanni Li Cuti.

    Bianca ricordava bene le cugine, frequentavano il suo stesso liceo. La loro nonna era una nobildonna palermitana e Rachele Bernardi ne aveva ereditato i delicati caratteri normanni.

    Rachele, la maggiore, era la più vivace tra le due cugine, ma per quanto cercasse nella sua memoria, non riuscì a ricordare nulla che le richiamasse alla mente l’altra, Alina Bernardi, se non il fatto che era una ragazza silenziosa e non molto estroversa.

    Man mano che le giornate diventavano più fredde e più corte, si approssimava dicembre e le vetrine si riempivano di luci e decorazioni natalizie.

    Il giorno dell’Immacolata Concezione, quando c’erano i nonni, a Torre Aquilia si preparava l’albero di Natale. Decisa a mantenere la tradizione, Bianca tirò fuori gli scatoloni conservati in garage e iniziò ad addobbare l’albero.

    Nel pomeriggio, stanco di quel trambusto, uscii per fare una passeggiata.

    Stavo svoltando proprio dall’angolo dove abitava zia Checchina, quando scorsi un carlino.

    Di solito mi faccio i fatti miei, ma c’erano tre ragazzi, che in passato me le avevano scippate dalle unghie, che stavano prendendo a sassate quel povero cane.

    Inarcai la schiena per farmi più grosso (un trucchetto che funziona sempre) e soffiai così forte che, modestamente, sembravo il dio Eolo, e così quei tre se la diedero a gambe levate in un secondo.

    Il carlino era rimasto per tutto il tempo nascosto dietro il cassonetto della spazzatura ma, appena li vide fuggire, uscì dal nascondiglio e iniziò ad abbaiare furibondo.

    «Calmati, calmati, picciutteddu, che ti fai scoppiare le arterie, non lo vedi che se ne sono andati?» gli dissi «Che motivo hai di abbaiare?»

    Mi voltai per andarmene per la mia strada, ma lui iniziò a seguirmi; mi girai come per dirgli: embè?. Lui si fermò fissandomi con i

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1