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I bordi imprecisi del cuore
I bordi imprecisi del cuore
I bordi imprecisi del cuore
E-book312 pagine4 ore

I bordi imprecisi del cuore

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Info su questo ebook

Nell’assolato Salento, al mercatino di Santa Caterina, ogni estate Dalia vende le sue candele artigianali. Accanto a lei ci sono Ismael e il suo stand etnico, Milena e Chiara, esperte di cosmetici, e la bella Olga, che realizza gioielli di cartapesta. Ma la nuova stagione è destinata a riservare delle sorprese, a partire dall’arrivo di un nuovo vicino di bancarella, Omar, che vende libri usati. Omar riesce a integrarsi subito nella comitiva, eppure c’è qualcosa di misterioso in lui, i suoi occhi sono sfuggenti, il suo cuore è uno scrigno inaccessibile. Dalia, incastrata anche lei nel ricordo di un amore tormentato, percepisce le angosce del ragazzo e si avvicina a lui. Così, tra confidenze, rivelazioni e momenti magici all’insegna dell’amicizia, la stagione procede serena.
Ma una sera di fine agosto, l’incanto di quell’estate si interrompe bruscamente: una festa in spiaggia, il mare in tempesta, una disgrazia inattesa. Una disgrazia che, tuttavia, annienta e dona al tempo stesso, perché è proprio grazie a essa che Dalia incontra Luca, un ragazzo venuto da lontano, deciso a rimettere ordine nella sua vita. I due, intenzionati a fare luce sugli ultimi eventi, intraprendono insieme un appassionante viaggio nel passato. Una vicinanza che guarisce le ferite, un amore, timido ma intenso, che sembra risanare il cuore. Ma entrambi dovranno fare i conti con Omar, una presenza struggente e irrinunciabile, il fiume che separa due sponde e, al tempo stesso, il ponte che le unisce.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2019
ISBN9788835339830
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    Anteprima del libro

    I bordi imprecisi del cuore - Simona Giorgino

    Simona Giorgino

    I bordi imprecisi del cuore

    Copyright © 2019

    Autrice: Simona Giorgino

    In copertina: immagine Shutterstock 

    (portfolio di Rock and Wasp)

    UUID: 1a2a388a-2281-11ea-b90e-1166c27e52f1

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    A te, a cui l’affetto resta incastrato

    tra la gola e il cuore,

    a te che ami in silenzio,

    che vuoi un bene muto.

    A te che temi il tempo, che lo rincorri

    e inciampi nei minuti, nelle ore, negli anni,

    e inciampi nel pensiero della fine delle cose.

    A te che 'ti voglio bene' lo hai detto poche volte,

    ti muore sulle labbra, si sbriciola nel cuore,

    diventa polvere sulla pelle

    e vorresti afferrarne una manciata

    e spargerla nel mondo.

    A te che un giorno, chissà, finalmente lo urlerai,

    e abbraccerai meglio, e amerai meglio.

    1

    Dal mare arrivò un tiepido soffio di vento che sfiorò la pelle con il tocco carezzevole di una piuma. Per qualche istante fece tintinnare gli scacciapensieri e ondeggiare gli abiti appesi alle grucce nelle bancarelle d’abbigliamento. Chiusi gli occhi per assaporare meglio quel calore finalmente ritrovato e sentii proprio lì, in quel soave agitarsi del tempo, che l’estate era di nuovo tornata.

    Maggio ci aveva esasperati con le sue interminabili piogge e avevamo temuto fino all’ultimo che il maltempo ci avrebbe impedito di aprire per la festa della Repubblica, ma quella nuova stagione aveva altri progetti per noi ed ebbe fretta di arrivare, proprio quando ormai non ci speravamo più.

    Quel pomeriggio del due giugno, quindi, come ogni estate ci ritrovammo tutti e cinque a Santa Caterina. Le bancarelle e i tendoni delimitavano il marciapiede lunghissimo, fino alla fine del corso. C’erano tanti nuovi venditori quell’anno, gente mai vista, ma la cosa ci lasciava indifferenti: ci importava solo che la nostra piccola comitiva fosse ancora lì e nella stessa posizione degli altri anni.

    Non avevamo molto in comune, a parte una licenza per vendere i nostri prodotti al mercatino estivo di Santa Caterina, nel Salento, eppure nel corso delle estati trascorse sul ciglio di quel passaggio pedonale avevamo capito di assomigliarci molto più di quello che credevamo. Grazie alla passione per il mare, all’amore per la vita, alla voglia infinita di chiacchierare, di regalare parole al vento, parlando di cose che praticamente non contavano nulla, per riempire lunghe sere d’estate e notti che sembravano non finire mai.

    Adoravo quei ragazzi con cui condividevo le stagioni lavorative. Li consideravo amici, anche se, in realtà, non ci eravamo mai frequentati al di fuori del lavoro. Stavamo insieme tutti i pomeriggi per più di tre mesi e poi arrivava fine settembre, il mare cominciava ad agitarsi, i turisti tornavano a casa, le spiagge diventavano piccole zolle di deserto, così chiudevamo baracca e burattini e tutto finiva lì. Ci si salutava, Ci vediamo la prossima estate, dicevamo, È stato bello stare con voi, e nessuno sapeva più nulla degli altri. Solo Olga ed io eravamo abituate a sentirci qualche volta durante l’inverno, con gli altri non accadeva. Era come una sorta di prassi, un’abitudine che si era imposta nel tempo e che non avevamo fatto nulla per cambiare: noi eravamo quelli del mercatino e al di fuori di quel contesto, probabilmente, il nostro rapporto non avrebbe avuto lo stesso significato.

    Ma poi arrivò quell’anno, quell’estate, quell’inizio lento e pigro fatto di piogge e venti forti, una stagione che si era fatta attendere fino a portare all’esasperazione i sogni e i desideri. Non lo sapevamo ancora, ma proprio quell’estate avrebbe trascinato con sé dei cambiamenti che nessuno di noi avrebbe mai potuto aspettarsi.

    E così, dopo tanta attesa, quel due giugno era finalmente giunto, e mi era bastato arrivare in macchina e dare un’occhiata intorno mentre ancora stavo cercando un parcheggio perché i ricordi riaffiorassero: la conca dell’amicizia, l’odore delle crêpes alla Nutella e dello zucchero filato, il vociare confuso e allegro che serpeggiava lungo il mercatino, il torpore delle prime ore del pomeriggio in cui si iniziavano a montare le bancarelle, quando il sole era cocente, le fronti grondavano di sudore e la gente passava di lì ancora in costume da bagno.

    Quando finalmente parcheggiai la macchina e raggiunsi la solita postazione, con addosso un anno in più che mi includeva ormai nella cerchia dei trentenni, sentii subito uno slancio di affetto verso quegli occhi bruni che incrociai per primi. Occhi neri come l’inchiostro, incastrati armoniosamente in un volto dalla carnagione molto scura. Era Ismael. Aveva già montato il suo stand e acceso il solito stereo, da cui provenivano, allegre e un po’ stonate, le note di un vecchio tormentone estivo.

    Ismael, il ragazzo dei sì lo chiamavamo, quello che aveva sempre una parola buona per tutti, quello dalle mille filosofie con cui voleva provare a dare un senso alla vita. Quando arrivai, era accovacciato su un grosso sacco e stava bisticciando contro un arnese che era rimasto impigliato sul fondo, ma lasciò subito quello che stava facendo non appena mi vide, allargandosi in un abbraccio lungo e muscoloso.

    «Quanto diventiamo belle da un’estate all’altra!», esclamò, stendendo le braccia verso di me.

    «E tu? Hai cambiato taglio?». Ci scambiammo un abbraccio affettuoso e qualche pacca sulla schiena.

    «Quest’anno sono in vena di cambiare», mi rivelò entusiasta, ravviandosi la chioma scura. «Voglio che sia un’estate speciale, ho voglia di fare cose diverse, mi sento alle porte di una nuova fase della mia vita. Avrò tanto da raccontarvi!».

    «Wow, sono molto curiosa, sappilo! E poi che grinta! Mi fai pensare che da questa stagione potrei aspettarmi di tutto. E l’idea quasi quasi non mi dispiace».

    Già, non mi dispiaceva. Un altro inverno piatto e senza particolari slanci si era appena concluso e mi era improvvisamente tornata, proprio lì, alle soglie dell’estate, la voglia di sentirmi battere il cuore all’impazzata come non accadeva ormai da molto tempo.

    Ismael restò in silenzio per un attimo, guardò in un punto dietro di me con fare riflessivo, poi disse: «Sai che ho avuto una sensazione simile venendo qui? Non so, sento delle strane vibrazioni nell’aria, come se dovesse succedere qualcosa di nuovo che ci farà ricordare a vita quest’estate!».

    Sgranai gli occhi, mi guardai intorno, dissi: «Cosa mai potrebbe succedere? Non succede mai niente qui».

    Ismael, anziché rispondermi, mi guardò in silenzio con dolcezza, piegando la testa. Sapevo già che cosa stesse per dirmi. Riconoscevo l’espressione del volto, il sorriso a malapena abbozzato sulle labbra carnose, una mano sul fianco.

    «Che c’è?», gli chiesi ridendo.

    «Non è vero che non succede mai niente, sei tu che non hai gli occhi abbastanza aperti», rispose prendendomi una mano. «Me la fai una promessa?»

    «Non rispondo di sì a scatola chiusa», ironizzai ricambiandogli la stretta.

    «È semplice, devi solo promettermi che aprirai di più gli occhi, perché solo guardando potrai vedere i segnali della felicità».

    «Perché, la felicità manda dei segnali?», lo schernii.

    «Ne manda a bizzeffe, e noi li ignoriamo».

    «Se li ignoriamo è perché non si fanno vedere».

    Lui insistette, incalzante: «I segnali si guardano con gli occhi interiori, sono quelli che devi tenere ben aperti: quando i segnali della felicità arrivano, li senti dentro e non puoi non riconoscerli».

    Sorrisi al pensiero di tutte le serate trascorse, durante le estati passate, a parlare della felicità, di tutte le volte che avevo dissentito mentre Ismael provava a dirmi che avrei potuto essere felice se avessi accettato di fare questo o quell’altro, di tutte le volte che mi diceva: «Devi anche dire qualche sì, ogni tanto, altrimenti quando arriva quel cambiamento che desideri?». Non avevo mai spiegato, però, il motivo profondo per cui ero così restìa ad aprire gli occhi e ad accettare la vita, soprattutto l’amore, che era quello a cui Ismael si stava riferendo in quel momento. Non sapevano quanto sarebbe stato doloroso sentire riemergere i sensi di colpa che cercavo abilmente di soffocare nel silenzio.

    «Va bene, terrò gli occhi più aperti, proverò ad accorgermi dei segnali», lo accontentai sorridendo.

    Ismael veniva dal Senegal, viveva in Italia da molti anni, parlava bene l’italiano, aveva molti amici ed era una delle persone più generose, socievoli e ottimiste che conoscessi. Era sempre allegro, standogli accanto si percepivano chiaramente, forti e assordanti, le ondate di positività che emanava.

    «Allora, come ti è andata l’invernata?», gli chiesi per cambiare discorso.

    «Per fortuna ho lavorato nel negozio di mio zio, quello che vende tappeti. Non posso lamentarmi».

    «Bene, almeno uno qui ha lavorato!», scherzai.

    «Perché, tu invece?»

    «Eh, lo sai, si vende poco con le candele», replicai agitando nella mano una borsa che conteneva qualche mia creazione. «Ho lavoricchiato con il sito, ma poca roba. E quindi spero di rifarmi quest’estate».

    La conversazione venne interrotta dal suono di un clacson che attirò subito la nostra attenzione. Nel loro furgoncino bianco, carico di roba che faceva capolino dai finestrini posteriori, Milena e Chiara, madre e figlia, amiche per la pelle. Scesero in fretta dal furgoncino per venirci subito incontro, una con una folta chioma bionda, più chiara rispetto all’anno precedente, l’altra con un lungo vestito a taglio irregolare che lasciava vedere una gamba liscia attraverso uno spacco profondo.

    «Che bello rivedervi!», esclamai quando ancora non erano vicine.

    «Sei uno schianto, Dalia», mi disse Milena, facendomi arrossire leggermente.

    Ma il vero schianto era lei, madre giovane con già un divorzio alle spalle e con addosso i segni della maternità solitaria e dell’amore immenso che provava per quell’unica figlia che, come diceva spesso, le era stata donata dal cielo. Avevo sempre provato un profondo fascino per quella donna, l’ammiravo come si ammirano le persone che ti sembra riescano a fare cose grandiose che tu non riusciresti a fare mai.

    «Ciao, stella luminosa», dissi a Chiara, abbracciandola forte. Era davvero luminosa, a partire dai colori che portava addosso con così tanta naturalezza: i capelli lunghi di un biondo cenere che cadevano ondeggianti sulla schiena, gli occhi celesti, la pelle eterea, così trasparente che ti sembrava di poterci guardare attraverso e che ti dava l’idea della delicatezza, della fragilità, come se quell’involucro di epidermide fosse l’unico scudo, così poco affidabile nella sua sottigliezza, con cui la ragazza si potesse difendere.

    Chiara ricambiò l’abbraccio, mi chiese come stavo e io le domandai se avesse già dato qualche esame della sessione estiva, mi rispose che aveva iniziato a prepararne uno proprio in quei giorni e che avremmo dovuto perdonarla se l’avessimo notata distratta e poco presente.

    Ci salutammo tutti con affetto, poi chiacchierammo del più e del meno. Mi sentivo euforica, ero contenta che la stagione stesse ricominciando e, soprattutto, ero contenta di poterla condividere di nuovo con loro.

    «Manca Olga! Ma dov’è finita? Non viene quest’anno?», mi domandò Chiara.

    Certo che sarebbe venuta. Non la sentivo da qualche settimana, ma mi aveva assicurato che non sarebbe mancata. E infatti a un certo punto arrivò. Con estrema calma, anche perché aveva una bancarella poco impegnativa. Usava un tavolino apribile e maneggevole su cui esporre i suoi prodotti. Lavorava la cartapesta, realizzava bigiotteria dalle forme ispirate alla natura: farfalle, fiori, frutti. Le bastava estrarre dalle scatole gli espositori, su cui erano già appese quantità infinite di gioielli, e adagiarli sul tavolino. La sua bancarella, con pochi gesti semplici, diventava una delle più belle e delle più gettonate di tutto il mercato, la gente era attratta dai colori che Olga usava per dipingere le sue creazioni, colori perlopiù pastello, ma impreziositi da dettagli d’oro, o da spruzzi di brillantini argentati, o da piccoli cristalli che scintillavano sotto qualsiasi fonte di luce.

    Parcheggiò la sua macchina e ci raggiunse radiosa, infilata in un vestito nero che metteva in risalto la sua forma snella e longilinea. Alta, anzi altissima, con la sua bellezza tutta polacca, gli occhi più azzurri del mare e la chioma sottile e liscia, di un bel castano naturale, Olga arrivò sfoderando il suo sorriso come un’arma con cui sarebbe riuscita a far arrendere chiunque. Ci salutò a uno a uno e poi disse: «Ve lo giuro, ogni volta che inizia la stagione non vedo l’ora di venire qui per voi! Ma mi avete fatto un incantesimo?».

    Scoppiammo a ridere, parlammo di mille cose diverse e li guardai tutti con uno slancio di affetto che a malapena riuscivo a contenere. Poi osservai con particolare interesse Ismael, così carico ed entusiasta. Volevo credere alle sue sensazioni riguardo a quella folle estate che ci attendeva. Volevo sperare che succedesse qualcosa, un imprevisto o un miracolo, che mi scombussolasse la vita.

    Ismael stava proprio dicendo agli altri del suo presentimento sulla nuova stagione quando Milena ci fece notare qualcosa.

    «Chi è quello?», chiese, indicando un ragazzo che era apparso nelle vicinanze. Stava aprendo le tende di uno stand che, evidentemente, aveva già allestito in precedenza e che fino a quel momento avevamo totalmente ignorato. Uno stand che gli anni prima non c’era mai stato e che, a sorpresa di tutti, adesso si ergeva lì accanto ai nostri. Lui un ragazzo sconosciuto, il suo stand pieno di libri. Insomma, un nuovo vicino. Una novità alla quale non eravamo preparati, che ebbe l’effetto di uno schizzo nel bel mezzo di un dipinto monocromatico.

    «Sarà uno nuovo. C’è tanta gente mai vista quest’anno», osservò Olga con curiosità, guardandosi intorno.

    Olga era la mia più immediata vicina di bancarella. I nostri tavoli erano praticamente attaccati l’uno all’altro. Al culmine dell’estate finivo per imparare a memoria, a furia di sentirgliele ripetere, le caratteristiche dei suoi gioielli di cartapesta, mentre lei arrivava a conoscere per filo e per segno persino i più piccoli dettagli di come creavo le mie candele, quali colori usavo per renderle così sgargianti, con quali oli essenziali ottenevo le profumazioni, che tipo di cera adoperassi. Alla mia sinistra Ismael, con il suo stand etnico, le lanterne di terracotta realizzate da lui stesso e le immancabili maschere africane di legno, allungate e un po’ inquietanti. Infine, accanto a Ismael, lo stand cosmetico di Milena e Chiara: trucchi e creme alle erbe naturali prodotte dall’azienda di famiglia.

    Eravamo tutti degli artigiani. Artigiani innamorati dei propri prodotti che, in qualche modo, vendendoli, cercavano di sbarcare il lunario.

    E anche per questa ragione, il nuovo venuto, che invece vendeva libri, ci sembrò lì per lì un po’ fuori luogo in quello spazio stretto che ci era stato assegnato. Smarrito, nel volto un’espressione cupa, come provata dalla vita, sebbene non potesse avere più di trent’anni, il ragazzo tirava fuori da alcune scatole grosse quantità di libri, rigorosamente usati, dalle copertine logore e ingiallite.

    «È il tuo nuovo vicino», scherzai rivolgendomi a Olga, la cui postazione era adiacente a quella di lui. «Perché non vai a salutarlo?»

    «Perché invece non lo fai tu?», si accigliò lei.

    «E va bene. Sistemiamo le cose e poi ci vado», la sfidai.

    Allestii con cura la mia bancarella. Stesi una tovaglia a motivi damascati e poi tirai fuori le mie candele, a una a una, srotolandole dalla carta in cui le avevo avvolte e controllandole scrupolosamente per assicurarmi che nel viaggio non si fossero ammaccate. Accolsi i primi clienti, vendetti qualcosina e, nel frattempo, osservai con crescente interesse quel ragazzo dall’aria distratta che di tanto in tanto usciva dallo stand per prendere pacchi di libri imballati con poca cura.

    Mi alzai dal mio sgabello e, lanciando un’occhiata di sfida a Olga, finalmente mi decisi ed entrai nel tendone.

    Il ragazzo, di schiena, era intento a sistemare una pila di libri. Era alto, sulla nuca delicata si appoggiava un folto ciuffo di capelli bruni, aveva gli occhi di un’intensa tonalità verde. In effetti i suoi occhi verdi furono tra i primi dettagli che notai di lui, perché quando arrivai all’interno dello stand si voltò di scatto, non aspettandosi che qualcuno potesse già entrare a quell’ora, e spalancò gli occhi nei miei. I raggi del sole colpirono le sue iridi, fu inevitabile notarne subito il colore stupendo, verde smeraldo come quello di certi mari.

    «Scusa, non volevo spaventarti», dissi, accorgendomi che era quasi saltato su sé stesso.

    «Ciao, no, è che ero indaffarato qui…», farfugliò guardando i libri. «Siamo vicini, vero?»

    «Esatto. Sono Dalia. Volevo presentarmi e farti conoscere i miei amici. Noi veniamo qui tutte le estati. Tu invece hai ottenuto la licenza quest’anno?»

    «Sì».

    «Ok, e…», continuai alzando un sopracciglio a causa della sua risposta secca, «…te li presento?»

    «Senti, io… se non ti dispiace…», fece segno verso i libri, ancora accatastati sulle bancarelle, «…magari un’altra volta, eh?».

    Fui delusa da quella brusca risposta, ma la dolcezza del suo sguardo mi convinse che in quel ragazzo dovesse per forza esserci dell’altro, qualcosa di diverso da quello che mostrava. Era appena arrivato, in fin dei conti. Probabilmente aveva solo bisogno di tempo per ambientarsi. E io, quel ragazzo – Omar si chiamava – volevo aspettarlo. Così, a pelle, volevo aspettare che Omar uscisse fuori dal guscio e diventasse uno di noi, se mai ne avesse avuto voglia. Ma dubitavo che gli avremmo lasciato scelta. E, se anche non ci avessimo provato noi, pensai che sarebbe stato inevitabile per lui rimanere coinvolto, visti gli spazi, la vicinanza e la lunga estate che ci attendeva.

    «Bene, allora io vado», dissi gentilmente, indietreggiando di qualche passo. «Quando vuoi siamo qui, eh?». Poi prima di girare sui tacchi aggiunsi: «Ah, a proposito, i tuoi libri vecchi sono molto affascinanti». Forse un inutile tentativo di farlo uscire dal guscio subito, ma Omar se lo tenne tutto addosso e ci infilò pure la testa, pronunciando un timidissimo grazie. Lo disse così a bassa voce che dovetti leggergli il labiale.

    Da quel momento in poi non ci fu più tanto tempo per pensare. La stagione era iniziata bene. Temperatura ideale, gente in abbondanza. I turisti avevano già preso d’assalto le spiagge salentine e parecchi si erano affacciati al mercatino. Non potevo lamentarmi di come fossero andate le vendite già il primo giorno della stagione. E intanto, senza accorgercene, si erano accesi i lampioni, illuminavano ogni cosa di una calda tonalità bruna, come se fosse stato applicato un filtro alla sera. Anche i grilli iniziarono presto a farsi sentire, incominciando a frinire nell’erba dietro ai muretti che delimitavano il corso.

    Quando i clienti cominciarono a diminuire, prendemmo tutti a chiudere gli stand e smontare le bancarelle. Eravamo stanchi, ma si continuava a parlare come se il tempo non fosse mai abbastanza per scambiarsi notizie, chiacchiere, confidenze. I ricordi migliori di quei mercatini sono in effetti legati, più o meno tutti, a quell’atmosfera di leggerezza e di spontaneità che l’estate portava con sé, e poi all’umiltà e alla leggerezza dei discorsi, perché era giugno, era estate, e non si poteva parlare di cose serie d’estate, come diceva qualcuno. Per le cose serie c’era l’inverno, non si potevano sprecare nella preoccupazione quelle giornate diventate improvvisamente più lunghe, quei tramonti che arrivavano sempre più tardi, quell’aria delicata della sera, che sfiorava la pelle come una timida carezza. La gente lasciava da parte le ansie, per un po’ dimenticava di averne mai avute. Il mercatino era una festa perenne.

    Ismael, che doveva solo trascinare dentro la merce esposta e chiudere il tendone, fu il primo a finire.

    «Sto morendo di fame. Prima di andare mi fermo da Beppe. Chi di voi mi segue?».

    Beppe aveva una pasticceria e rosticceria alla fine del corso, famosa in tutta la marina, specialmente per i rustici e i pasticciotti che lui e la moglie preparavano con le loro mani e che sfornavano, caldi caldi, a qualsiasi ora. Non potevamo tirarci indietro di fronte al pensiero della sfoglia croccante, della crema chantilly morbida e fumante, dopo un pomeriggio intenso di lavoro era proprio quello che ci voleva, quindi accettammo tutti la sua proposta.

    Finimmo di raccogliere la nostra roba, eravamo pronti per andare, solo che qualcosa mi tratteneva ancora lì. Non avevo smesso per tutta la serata di rivolgere uno sguardo, ogni tanto, alla postazione di Omar. Ora che tutti stavamo andando via e che il mercatino si stava completamente svuotando, mi chiedevo che cosa ci facesse lui ancora lì, nel suo tendone che era ormai l’unico illuminato nella notte.

    Mi rivolsi subito ai miei amici e chiesi loro di aspettare qualche istante, volevo solo invitare il ragazzo dei libri a unirsi a noi.

    Quando entrai, era seduto sul suo sgabello di legno e fissava il vuoto. Era buono il profumo che si respirava lì. Di libri vecchi, di carta degradata, con un leggero odore di umidità che esalava dalle pagine. Forse non certo l’odore più buono del mondo, ma ricordava l’infanzia, era lo stesso che usciva fuori dai libri lasciati per troppo tempo in soffitta e che assorbivano l’umidità dell’inverno, quand’ero piccola, ma che restavano pur sempre dei libri e che, anzi, per qualche ragione sconosciuta, l’umidità finiva per rendere ancora più affascinanti, come se tra quelle pagine avvizzite si nascondessero dei segreti, delle verità, dei misteri datati molto lontano nel tempo, che attendevano solo di essere scoperti.

    «Ciao», gli dissi destandolo da qualche pensiero in cui sembrava essersi assorto profondamente. Teneva un libro tra le mani.

    «Ciao».

    «Noi stiamo per andare via. Prima però passiamo da Beppe, la rosticceria all’angolo. Ti va di unirti a noi?». Lo dissi quasi in punta di piedi, con metà corpo dentro e metà fuori, come se non volessi osare introdurmi più di tanto né nel suo tendone né nella sua vita, visti i suoi modi sfuggenti di qualche ora prima.

    «Vorrei stare ancora un po’ qui, ma grazie, davvero».

    Non insistetti e lo salutai, lasciandolo solo in quella che, lì per lì, mi sembrò una tana che si fosse costruito per difendersi da possibili attacchi esterni di socializzazione.

    Il rustico e il pasticciotto non erano gli unici prodotti per cui il locale di Beppe era così famoso, ma, estate dopo estate, non c’era stato verso per nessuno di noi di riuscire a cambiare. Eravamo tradizionalisti e prendevamo sempre gli stessi prodotti a cui non riuscivamo a rinunciare.

    Ma quella sera, quasi a segnalare sul serio un’estate alternativa, Ismael ci sorprese con una novità. Mentre noi procedevamo con la solita ordinazione, lui si contrasse in una smorfia di disappunto, dicendo che occorreva cambiare ogni tanto, provare cose nuove. Quindi allungò il collo per sbirciare nel bancone, picchiettando l’indice sulla guancia con espressione riflessiva.

    «Quest’anno prepariamo anche dei fagottini con farina di cereali ripieni di prosciutto e mozzarella che c’è da leccarsi i baffi», spiegò Beppe con qualche capello grigio in più.

    Guardai Ismael per un po’ di tempo mentre sceglieva il prodotto con cui avrebbe accompagnato quella nuova stagione. Mi incuriosiva, forse avrei dovuto cambiare anch’io, pensai.

    Alla fine scelse il fagottino ai cereali e ci sedemmo a un tavolino all’aperto per consumare il pasto. Masticavamo in silenzio e intanto osservavamo il passaggio pedonale sul lato opposto, gli stand ormai quasi tutti chiusi e, al di là di quelli, il mare, nero, immenso e a tratti spaventoso. Non si vedeva niente, il buio ingoiava tutto e solo l’immaginazione e la conoscenza ti lasciavano indovinare che cosa ci fosse di là.

    «Allora, Ismael, non ci hai ancora raccontato la ragione di questa tua voglia di cambiamento, quest’anno», dissi incuriosita.

    Rimase a riflettere un attimo prima di rispondere, come se avesse bisogno di scegliere parole adeguate a descrivere cosa si portava dentro in quei giorni. «Be’, i cambiamenti a volte sono semplicemente necessari».

    «Eccome se lo sono», commentò Milena con le guance piene. Poi, una volta ingoiato il boccone, aggiunse: «Il cambiamento è la chiave d’accesso alla felicità. Quando le cose non vanno, bisogna avere

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