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Prendimi se ci riesci
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Prendimi se ci riesci
E-book153 pagine2 ore

Prendimi se ci riesci

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Info su questo ebook

Non è che detto che si riesca sempre a incontrare l’amore, quello vero, quello che ti non lascia dormire e ti fa camminare con la testa fra le nuvole.

Jacopo, trentenne precario venuto a Milano per cercare fortuna, quasi ormai non ci crede più. Lui, che per sbarcare il lunario è costretto a fare il cat-sitter, sa una cosa soltanto: non ha mai incontrato un ragazzo in grado di fargli finalmente dire: «Sono innamorato!».

Ma ecco che, in un giorno di inizio estate, nella sua vita compare Luigi: bello, spigliato, in sella a un motorino con cui sfrecciare fra le strade della città. Prima un bacio, poi qualcosa di più finché, quando la luna è ormai alta nel cielo, Jacopo si accorge di una cosa: non gli ha chiesto il numero di telefono!

E c’è di più: insieme a Luigi, è scomparso anche uno dei gatti di cui si stava occupando.

Comincia così una doppia ricerca che coinvolgerà tutti i suoi amici, e condotta con ogni mezzo possibile.

Riuscirà Jacopo a ritrovare Luigi e il gatto perduto? Ma, soprattutto, riuscirà finalmente a scoprire l’amore?
LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2016
ISBN9786050476095
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    Anteprima del libro

    Prendimi se ci riesci - Valentina Gucci

    15

    1

    George dorme accanto a me. È tranquillo, respira piano, e la sua pancia si muove appena. Lo accarezzo, partendo dalla testa e scendendo lungo tutta la schiena. E quel gesto mi scalda dentro.

    Può essere amore, ciò che provo per lui?

    O dovrei lasciare questa parola per descrivere qualcosa di più grande, qualcosa che forse, nella mia vita, ancora non ho avuto la fortuna di conoscere?

    Sempre che poi, l’amore, sia davvero misurabile.

    Per esempio, dove si colloca il mio amore per George su una scala da uno a dieci?

    Direi sul sei, forse sul sei e mezzo.

    Di certo Oscar è più affettuoso, e la passione con cui mi cerca è a tratti commovente. Senza contare quel pelo, e il modo in cui il suo corpo vibra ogni volta che lo accarezzo. Lui, nella mia scala dell’amore, si merita almeno un sette all’otto. Forse perfino un otto pieno.

    Con le femmine è diverso. Con loro la scala dell’amore non ha senso. Le femmine, o le amo o le odio. Zero o dieci, insomma.

    Virginia, per esempio, è terribile: quel suo vizio di nascondersi e poi di attaccare senza una ragione apparente davvero non lo sopporto.

    Audrey, al contrario, è adorabile: dolce, occhi languidi, svenevole. Non appena mi siedo sul divano, ecco che arriva accanto a me, mi fissa per un istante, e poi inizia a fare la pasta con quelle sue zampine unghiute. Per fortuna che è estate, altrimenti potevo dire addio ai miei maglioni di lana. Anche perché alle coccole di Audrey non ci rinuncio: dopo una giornata passata a girare da una parte all’altra di Milano, a portare cani fuori e a raccogliere i loro bisogni, a cambiare lettiere, a lavare piattini, a versare croccantini in ciotole più o meno capienti, il lieve ma appuntito massaggio di Audrey è esattamente quello che ci vuole. Lei, con il suo folto pelo beige, il nasetto rosa, le vibrisse più folte e lunghe che abbia mai visto. Un incrocio di razze semplicemente straordinario.

    Viene da un gattile in zona Famagosta. Me lo ha raccontato il suo padrone, un uomo sulla cinquantina, alto, elegante, sempre ben vestito e con una barba argentata perfettamente curata. Per lavoro ogni settimana trascorre due giorni a Roma e, ormai da tre mesi, sono io che penso a Audrey quando lui è via. Gli piace che sia una sola persona ad avere le chiavi del suo appartamento – un quadrilocale nei pressi di piazzale Loreto in un condominio non troppo elegante, almeno non quanto ci si aspetterebbe vedendo lo stile impeccabile dell’individuo.

    Il portiere, un tipo basso e palestrato, lampadatissimo, ormai mi conosce e ogni volta che esco mi chiede: «Allora, sta bene Odri Eppurn? Che nome, eh... ma il padrone, sai...» aggiunge passandosi più volte l’indice dietro l’orecchio. Io faccio sempre finta di non aver visto e sentito. E tiro dritto oltre il portone. Chissà perché mi ha preso tanto in simpatia, poi?

    Comunque non c’era certo bisogno che mi dicesse lui che il padrone di Audrey – alla gatta davvero è stato dato un cognome, e questo cognome davvero è Hepburn – è gay. D’altronde sono cose che si capiscono.

    O almeno sono cose che i gay, tra loro, capiscono. Il resto del mondo, invece, non sempre. Altrimenti perché ancora adesso, ogni volta che torno al paese – un piccolo borgo nel viterbese –, Franceschina mi fa il filo e la sera, sul muretto, mentre io fumo sigarette e lei mi osserva sbuffare nuvole odorose, puntualmente tenta di baciarmi? Ma possibile che non abbia ancora realizzato?

    Il signor Eppurn non è l’unico cliente gay che ho, comunque, e il merito penso sia del volantino che ho fatto affiggere alla bacheca del Regine di Cuori. Ci avevo scritto, a pennarello blu su un foglio a quadretti grossi: "Ragazzo offresi come dog-sitter e cat-sitter. Serio, paziente, affidabile. Provare per credere. Jacopo. Alessandro, il gestore, ci ha poi aggiunto: P.S. Bella presenza!". E così ho ricevuto anche telefonate da parte di assatanati alla ricerca di escort, alcune perfino nel cuore della notte... in ogni caso, un po’ di buoni clienti – padroni di animali domestici, si intende – li ho trovati.

    D’altronde il Regine di Cuori serve anche a questo. Non solo a bere qualche drink – scadenti, per la verità, ma non mi lamento, visto che la cosa tiene alla larga i modaioli con la puzza sotto al naso – ma anche a far incontrare persone. A creare una comunità: tu vieni qua e sai che, quasi sempre, troverai qualcuno che conosci.

    Magari più tardi ci passo, penso, dando un’ultima carezza a George. Lancio un’occhiata all’orologio: è quasi ora.

    Prendo le mie cose e vado.

    La bici l’ho legata a un palo all’altro lato della strada.

    Ho davanti a me venti minuti di pedalata per arrivare a Porta Romana. Ho appuntamento con una nuova possibile cliente. Al telefono non è stata esattamente quello che si dice cortese, ma il lavoro è lavoro.

    E un dog/cat-sitter libero professionista non può permettersi di essere schizzinoso.

    Che poi schizzinoso di me proprio non si può dire: questo, infatti, non sarebbe neppure il mio vero lavoro. Io ho studiato in accademia a Roma per diventare grafico. E, dopo aver provato invano a stabilizzarmi lì, sono venuto a Milano per uno stage in un’agenzia. Peccato che dopo tre mesi con una retribuzione ridicola non mi sia stato proposto nient’altro. E mi son ritrovato a dover pagare l’affitto di una stanza – ovviamente in nero, ma non per questo meno salato – in un appartamento in zona Loreto che divido con un mio ex collega, Federico – che nel frattempo è stato assunto da un’altra agenzia.

    Perché si sa, oggi la parola d’ordine è flessibilità.

    Così, complice la mancanza per la mia gatta tredicenne Ruffiana – si chiama proprio così –, rimasta a casa dei miei a Viterbo, mi sono inventato un’occupazione. I cani, devo ammetterlo, li amo meno, ma è la parte più redditizia del mio lavoro. I gatti – accidenti a loro – resistono un sacco di tempo da soli: basta lasciargli acqua e croccantini, e il gioco è fatto. Ma coi cani no, a meno di non voler trovare al proprio ritorno la casa distrutta e disseminata di escrementi e fetidi laghetti paglierini.

    Quindi trascorro gran parte delle mie giornate per le strade di Milano con uno o più cani al guinzaglio, specialmente nel primo pomeriggio. E devo dire che, quando non piove, è un vero piacere andare al parco, aprire il cancelletto dell’apposita area, e lasciare i cani liberi di sfogarsi e correre come forsennati. Almeno quelli che desiderano farlo, perché poi c’è anche qualche cagnetto che preferisce starsene attaccato alle mie caviglie piuttosto che lanciarsi in giochi e nuove conoscenze.

    Mi sono fatto un bel giro di clienti, ormai: ci pago l’affitto, la spesa e anche qualche bevuta al Regine di Cuori. Ma il lavoro non è mai abbastanza, specie perché alcuni clienti vanno e vengono, in particolare i padroni di gatti.

    Quindi, come dicevo, non mi tiro mai indietro quando ricevo una telefonata: gli annunci sono ancora sparsi per mezza Milano – biblioteche, panettieri, bar, perfino in qualche lavanderia gestita da cinesi.

    Per fortuna mi piace scorrazzare sulla mia bicicletta per la città. Si gira in un attimo, l’unico problema è quando piove. Ma visto che adesso è estate, il problema quasi non si pone.

    E, nel caso, ho un impermeabile giallo canarino.

    Sì, non esattamente ciò che si definisce macho.

    ***

    Il grande arco bianco – un bianco un po’ sporco, in realtà – mi annuncia che sono giunto in Porta Romana.

    Guardo l’orologio. Bene, sono in anticipo. Ho tempo per tentare di far asciugare un po’ il sudore e per guardarmi intorno.

    Non vengo spesso da queste parti. È una zona molto bella. Chissà com’è la situazione degli affitti, mi chiedo. Anzi no, non ci voglio neanche pensare. Tanto non potrei permettermi mai una casa nei paraggi.

    Però quella caffetteria che un tempo – mi han raccontato – era un glorioso negozio di dischi sembra proprio un posto carino. Certo, non quanto il Regine di Cuori, ma scommetto che caffè e cocktail sono migliori qua.

    Faccio un bel respiro, e mi dirigo deciso verso via Crema – è lì che ho l’appuntamento –, trovo il numero civico, il nome sul citofono e suono. Attendo qualche secondo ma non mi risponde nessuno. Guardo di nuovo l’orologio. Eppure ci eravamo detti che...

    «Ragazzo, dica a me. I citofoni non funzionano se ci sono io.»

    Mi giro. È il portiere.

    L’uomo, non tanto alto e con la schiena un po’ curva – tutto un altro pianeta rispetto al palestrato del signorEppurn –, mi guarda in maniera sprezzante. Sono vestito tanto da straccione?, penso. O è perché non sapevo quella storia dei citofoni?

    «D-devo andare dalla signora Tabacchi.» Chissà perché mi è venuto da balbettare.

    «Hm. Seconda scala a destra, sesto piano.»

    La scala è decisamente maestosa, niente a che vedere con quella del palazzo dove abitiamo io e Federico. L’ascensore è d’epoca, lo vedo arrivare dietro la grata, con un gran muovere di cavi e un rumore poco rassicurante.

    Lo stesso rumore, unito a un sinistro traballare, che mi accompagna fino al sesto piano.

    Qui, sul pianerottolo, vedo subito una porta socchiusa. Suono il campanello. E da dentro sento una voce di donna: «Entra». Dal vivo è ancora meno simpatica che al telefono.

    Spingo la porta e la vedo. È a metà di un lungo corridoio, le mani appoggiate alle due pareti, le gambe leggermente divaricate. Manca un faro puntato alle sue spalle, e poi sembrerebbe la copertina di un cd – o più verosimilmente di un film pornosoft.

    Ha addosso solo una vestaglia da casa.

    Rosa. Semitrasparente.

    Il fisico è prorompente, niente male per una donna della sua età. Avanza verso di me con falcate sexy. Ho un’allucinazione o quelle che ha addosso sono proprio scarpe con tacchi a spillo?

    Mi stropiccio gli occhi. Sì, per fortuna è un’allucinazione. Anche se forse le babbucce rosa che indossa non sono poi tanto meglio.

    La donna mi tende la mano: «Patrizia, piacere».

    Poi mi fa accomodare nel salottino, come lo definisce lei, e allunga verso di me una bottiglia. «Vuoi?»

    È whisky. E questa no, non è un’allucinazione.

    «Io sono una scrittrice» dice sprofondando in una poltrona.

    La vestaglia le si apre da tutte le parti. Non so più dove guardare.

    «Ah... e cosa scrive?»

    «Storie d’amore. Perché io sono una sognatrice.»

    Ride forte, tirando indietro la testa

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