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Gerusalemme
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E-book171 pagine2 ore

Gerusalemme

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Info su questo ebook

Un paio di settimane in Israele, con base a Gerusalemme, sospese fra la notte e il giorno, tra un passato straordinario, rivisitato e sorprendente, e un presente imprevedibile. Un personaggio indecifrabile, l’uomo dal mantello verde scuro, punteggia un viaggio intenso che da un fazzoletto di terra arso dal sole e al centro di antiche aspirazioni religiose sfocia, lasciandolo lentamente intravedere, nel fascino spirituale dell’immensità notturna del cosmo, ritrovata come dimensione splendente e funzionale nell’essere umano. Enigmatiche mappe stellari disegnate dal personaggio senza nome sulla piantina di Gerusalemme Antica e sulla cartina geografica di Israele-Egitto alludono a una conclusione del racconto che in realtà apre nuove porte.

Giornalista professionista, conosce quattro lingue oltre il latino classico e il greco antico.
Ha scritto per quotidiani e settimanali nazionali, e ha lavorato in uffici stampa di editori. Ha trascorso ventidue anni della sua carriera giornalistica in RAI sia facendo reportages, anche da teatri di guerra, sia come conduttrice e curatrice di rubriche giornalistiche televisive. Ha sempre coltivato lo studio di testi sacri antichi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2019
ISBN9788835374244
Gerusalemme

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    Anteprima del libro

    Gerusalemme - Giovanna Tatò

    Sommario

    Dentro le guerre

    È tutto pronto: passaporto, visto di Israele, valuta.

    Prendo la Bibbia, la tengo qualche istante fra le mani raccolte a coppa, la apro a caso e leggo in alto a destra:

    Con tutto il mio cuore è te che cerco¹.

    Guardo l’orologio. Il campo magnetico del mio corpo interferisce sul meccanismo di precisione e nel volgere di poco influenza lo scandire delle ore. Butto l’occhio a uno dei display della sala partenze per confronto. Va tutto bene, per ora.

    Mara, Alexia e io arriviamo a Tel Aviv nel primo pomeriggio e per adeguarci alla rete locale di telecomunicazione noleggiamo dei telefonini di tecnologia israeliana. Un’ora e mezza di taxi per Gerusalemme e siamo in albergo, appena fuori le Mura, nella parte araba a nord-est della Città Antica, a pochi minuti dal centro storico. L’impressione complessiva è gradevole. C’è un bel giardino interno, ombroso, con diversi tavoli e un banco da bar in un angolo. Ci diamo appuntamento lì entro un’ora.

    «Ecco, è arrivato il momento. Sono qui».

    Con la voce appena alterata dall’emozione, mi congedo quasi subito da colui che per me è l’Amico in assoluto, al di là del tempo e dello spazio, l’Amico nel senso più alto del termine. Averlo incontrato ha segnato un turning point nella mia vita, un vero inizio.

    La stanza non è molto grande, orientale nei colori ma nitida ed essenziale nelle linee. L’aria che la pervade è calda, secca, penetrante. Mi avvolge. Una sensazione forte, bella e severa. Non lascia il passo al superfluo. Percorro con lo sguardo le colline di fronte, fatte di roccia. Dura. Aspra. Roccia del deserto. Il deserto di Giudea. Sono qui. Domani comincio. Le valigie in un angolo. Le apro stasera, ora no. Quanto tangibile silenzio. Che meraviglia!

    Decido di uscire, all’aperto. Questi alberi sembrano assurdi: un verde cupo bellissimo fa pensare all’umidità ma tutto intorno è roccia, deserto, sabbia, infinito cielo senza nuvole. E il caldo: la temperatura è ancora molto alta. Non c’è odore di verde, di terra, di cibo, di esseri umani. Non ci sono odori. Il caldo secco mangia tutto. Che terra è questa, senza odori?

    Mi sdraio sul letto. Lentamente mi abbandono. Sono al centro del mondo. Si alza una specie di nebbia leggera, poi si infittisce. È come puntinata di luci lontane. Assaporo quell’intensità, fatta di intangibilità e di luce… e mi ricordo del prorompente, dolce profumo del verde, portato da un vento gentile. Non è di fiori, di erbe, di foglie ma di in un’unica soave fragranza che li fonde. Mi sento rarefare da quell’essenza verde. È ovunque. Leggera e travolgente mi trasmuta in una morbidezza senza forma. Eppure, mi contiene, come un mantello. E, mentre affondo, mi sento svanire. Da un ramo spezzato goccia la linfa: è lattea.

    Poi si ferma. L’incanto finisce.

    Prendo due libri dalla valigia grande. Li poggio sul comodino e mi guardo intorno. Adesso la stanza è mia. Quei libri hanno posato nello spazio un po’ di me. Prendo La Bible de Jérusalem. La preferisco in francese, è un po’ più libera. Quella italiana, riscritta molte volte soprattutto negli ultimi cinquanta anni, rivela divergenze sconcertanti.

    «La Bibbia, come sai, è stata fatta a mille mani, in diverse epoche», mi disse un giovane Pastore di Tübingen. «Ma quello che non sai, forse, è che la Bibbia è sì un compendio di alcune verità – per questo è un libro, diciamo, eterno – ma anche di tante storie di uomini e di donne».

    Ricordo il suo volto, la piega severa delle labbra. Mentre mi parlava lo osservavo e mi domandavo se sarei mai riuscita a trovare la Verità tra le molte migliaia di righe, alcune di superba bellezza e profondità. Forse, nel Nuovo Testamento…

    «La Verità è una sola e non si trova nei libri. Non si può creare. Si può solo viverla».

    Ora sono cresciuta ma queste frasi all’epoca mi arrivarono come una staffilata. Quell’assunto, rimasto scolpito nel petto, ora tornava, inarrivabile come allora.

    Ci ritroviamo in giardino.

    «Volevo fare subito una piccola ricognizione delle nostre idee su cosa fare e quando, che ne dite?», è la mia proposta.

    «Facciamo stasera…», sorride Mara. «Ora ce ne usciamo a fare una bella passeggiata, a vedere un po’ di cose, senza decidere niente. Così, in relax. Eh?».

    «Il viaggio è stato abbastanza lungo e complicato, non ti pare?», interviene Alexia.

    Certo la proposta era sensata.

    «Non c’è dubbio: passeggiata».

    L’ora è perfetta.

    Dritta davanti a noi, la bella Porta di Damasco si apre su una strada ampia in discesa a gradoni. Ci immergiamo nella folla multicolore dei palestinesi, dei turisti, delle bancarelle cariche di colori: frutta, ortaggi, stoffe, oggetti. Le grida del venditore di falafel ci portano verso una magnifica padella gigante posata su un altrettanto gigantesco fornello al centro di uno incrocio. Un giovane prepara le tradizionali polpette di ceci da friggere. Le fa scivolare dentro la grande padella. Impossibile non mangiarne. Il primo cartoccio è mio, Mara e Alexia si dividono il secondo. Proseguiamo. Passiamo sotto a delle gallerie. Luce e ombra giocano con le ore del pomeriggio, vocìo, risate, grida.

    Arrivate in fondo siamo al bivio tra la parte cristiana e quella ebraica. Decidiamo per quella ebraica nuova, fuori le Mura.

    Il panorama cambia completamente. Normali strade asfaltate di città dotate di altrettanto normale marciapiede, palazzine comuni a tre, quattro, piani. Rari bar, diversi negozi, alcuni simili a piccoli supermercati. Ci lasciamo alla nostra destra quello che la piantina indica come il quartiere russo e proseguiamo verso la centralissima Ben Yehuda. Tutto è pulito e ordinato. Per strada nessuno grida, visi severi. Dei chassidim ci passano accanto: probabilmente padre e figlio. Sono vestiti uguali, tonaca nera lunga, cappello nero a tesa larga, boccoli che scendono lungo le orecchie. Il bimbo replica il padre in sedicesimo. Siamo silenziose.

    «Ho sete», dico giusto per rompere questo strano silenzio. «Ci fermiamo in un bar?».

    Poco lontano ci sono dei tavolini sistemati per strada. Ci dirigiamo lì. Non facciamo in tempo a sederci che davanti a noi si para un drappello di soldati in tuta mimetica, berretto e fucile in spalla. Ci sediamo e guardiamo la scena. A me sembra incredibile. Un soldato poggia il suo fucile su un tavolo e va dentro, presumo per ordinare qualcosa mentre gli altri, due sono donne, si siedono intorno al tavolino restando armati di tutto punto. Volti tirati e silenziosi. Il compagno torna e rimette il fucile in spalla. Si siede. Guardo le facce degli altri avventori. Nessuna sorpresa. Devono essere abituati a vedere militari armati, che ordinano una bibita fresca al tavolino di un bar. Mai visto nulla di simile se non in una città in guerra. Nei miei viaggi precedenti, ne avevo solo percepito l’atmosfera. Fra aeroporto, albergo, sale conferenze, Knesset o Yad Vashem e studi televisivi, non mi ero potuta calare pienamente nel quotidiano di una guerra con i fucili e di un’altra con i libri sacri. L’atmosfera è pesante. Non c’è requie.

    Rivedo il volto di chi ci ha riunito qui e torno alle sue parole ascoltate in pubblico, parole mai dette prima. Aveva lanciato l’idea del viaggio a Gerusalemme durante una circostanza alla quale non ero presente. Fu Alexia a portarmi l’invito e a parlarmi di Mara.

    La proposta mi piaceva, sollecitava la mia ricerca di radici in mille direzioni. Avevamo tutte e tre in comune un bell’obiettivo: stare un po’ a Gerusalemme, andare nel Giardino degli Ulivi, visitare la Palestina di un tempo.

    Rivedo il volto di Cristo, Verità sempre tra noi. Ma come è rimasto, rimane tuttora, inascoltato, incompreso, tradito: strategicamente. E non penso a Giuda.

    Guardo la strada. È moderatamente animata. Il sole comincia a farsi obliquo e l’azzurro del cielo più tenue.

    «Quando andiamo nel Giardino degli Ulivi?».

    «Hai fretta? Abbiamo tutto il tempo».

    Mara sembra pensare a qualcosa.

    «La fretta non c’entra», replico. «Siamo qui adesso, tutte e tre, allora parliamone. C’è molto da vedere».

    L’idea di andare insieme nel Getsemani ci aveva accompagnato fin dall’inizio. Eravamo entusiaste. Mi sembrava evidente che fosse una priorità. Eppure, le mie parole ora suscitano perplessità.

    «No, senti, se vuoi fallo tu. Io adesso ho voglia di farmi dei giri qui intorno», dice Mara con un filo di voce.

    «Anche io», si intona Alexia. «Rivediamoci per cena».

    Capisco. È una strana vacanza ma è una vacanza.

    «Va bene», annuisco. «Vediamoci dopo».

    Io vado verso l’ufficio turistico. Mara e Alexia in un’altra direzione, tra la gente.

    Sono piena di progetti. Voglio fare tante cose e i giorni non sono molti. Prima di tutto, voglio trovare la via verso il Getsemani, averla chiara per percorrerla, come d’accordo, tutte e tre insieme senza dover chiedere niente a nessuno. Nella mia testa visualizzo già noi tre durante la camminata: siamo sicure e tranquille. È una bella immagine.

    Trovo quello che serve, una cartina dettagliata del centro storico e qualche opuscolo. Mi siedo al tavolo di un bar e leggo e rileggo le informazioni. Individuo, sulla cartina, il percorso. La Gerusalemme dentro le Mura è raffigurata un po’ all’antica, disegnata a mano, piena di colori. E immagino…

    Soddisfatta mi alzo e decido di fare ritorno. Imbocco la direzione dell’albergo ma mi accorgo che non mi va di andarmi a chiudere nella stanza e cambio idea: Porta di Jaffa, verso la parte ebraica antica. Voglio vedere la Città Antica, c’è ancora luce. Seguo la suggestiva cartina colorata e arrivo. La porta è alle mie spalle, io mi trovo in uno spiazzo accanto alla Torre di Davide. L’orario di entrata al Museo è terminato. Mi guardo intorno, non c’è molta gente. Poco distante la Porta Nuova. Un’insegna indica un centro culturale francescano. Mara e Alexia stanno dall’altra parte del piazzale.

    Mi avvicino. Siamo tutte e tre sorridenti per la sorpresa. Decidiamo di fermarci un po’. Non lontano da qui, in qualche dove, il pastorello figlio di Jesse e unto del Signore, divenuto re di Israele e di Giuda, conquistatore dell’antica Urusalim, compose i suoi Salmi, una delle vette poetiche del Vecchio Testamento.

    Alexia cerca qualcosa nella sua Bibbia. Mara fissa la torre. Io guardo la gente. Siamo a qualche passo l’una dall’altra. Una comitiva di turisti esce alla nostra destra come dalle pieghe del muro di pietre e si allontana. Alexia comincia a leggere ad alta voce un brano. Quasi contemporaneamente, in mezzo al piazzale si fa sempre più distinta una voce, in inglese, che cresce in volume e si espande. Alexia smette di leggere. Un uomo, di una certa età, in tunica grigio chiaro poco alla volta prende a gridare. Alterna toni veementi a toni salmodianti. Ha un portamento fiero. Sembra innocuo, preso da un suo personale dialogo con l’Alto dei Cieli.

    «Chissà cosa sta dicendo?», si domanda Alessia «Chissà chi è?», e fa per avvicinarsi quando lui urla chiaramente: «Hey, you, lady!».

    Lei si ferma.

    «E tu, signora, anche tu!».

    L’uomo adesso sembra rivolgersi a me.

    «E anche tu! Ehi, signora. Tu, proprio tu!».

    È chiaro: sta parlando a noi tre.

    «Dico a voi. I profeti hanno parlato in nome di Dio e Dio ha detto che il suo popolo è quello di cui lui circoncide il cuore. Non basta la carne. Il centro è il cuore, un cuore pulito. È su quel cuore pulito e innocente che Egli scrive la sua legge, che esso appartenga a un circonciso o a un arel. Sì, Dio ha parlato per mezzo dei profeti. Con quel popolo e con la discendenza di esso, l’Emmanuele Gesù compie la promessa: Dove sono due o tre, sopra la terra riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».

    L’uomo parla spedito e chiaro. Adesso lo capisco bene. Si interrompe e ci guarda. Non sembra ubriaco.

    «Il profeta dice che anche l’orecchio va circonciso, e quell’orecchio che udiva solo le voci del mondo, allora udrà la Legge del Signore».

    «Di quali profeti sta parlando?».

    Provo a stare al suo gioco e lo apostrofo guardandolo in faccia.

    «Mosè, Geremia, Isaia ed Ezechiele», è la sorprendente risposta.

    Dunque, sa di cosa parla e accetta anche l’interferenza della mia domanda. Mi

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