Testamoro Cocktail di camelie, basilico, ricordi e segatura
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Anteprima del libro
Testamoro Cocktail di camelie, basilico, ricordi e segatura - Irene Chiozza
falegnameria.
PRIMA PARTE
CAPITOLO 1
Rosa Tesaura Crocisia, 72 anni, maggio 1995, poco lontano da qui.
Lo scrittore delle mie parti che anni fa ha elogiato la leggerezza, dev’essere stato molto amato. Prendete la vita con leggerezza che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore; invece, la sottoscritta si sente invischiata, ancorata alle cose che, non lo nego, spesso mi sono sembrate pietroni appesi al collo, e non è un gran collo, ve lo assicuro, piuttosto esile e sfigato, come il resto, per altro.
Mi sarei accontentata almeno dell’ironia, ma avverto che in me tale condizione si muta in sarcasmo e si tinge del colore della bile.
Le circostanze della mia nascita mi sono oscure e, forse, farcite di romanticismo e malinconia, tanto che ignoro se siano vere o frutto di fulgida immaginazione.
Era il signorino per la gente del paese, si occupava della proprietà di famiglia e del grande giardino tra la scogliera e la strada costiera. Alto il giusto, bello il giusto, biondo il giusto, aristocratico e ambizioso troppo.
Lui, il signorino, studiava ma, soprattutto, esplorava la collina gialla di ginestre e rubava al vento semi e specie che piantava, innestava, spiava con patologica insistenza.
Sto divagando?
No, certo.
Il racconto comincia con lui, Ubaldo, specialista in esagerazioni e colpi di scena. Mi chiamò Rosa Crocisia per la luce della luna sulla mia carnagione di neonata e perché ero indubbiamente la croce di qualcuno. Qualcuno che fece in modo che lui mi trovasse.
In paese la storia circolò sulla bocca di tutti.
Sentite? L’aria secca e fredda scende dalla collina e mi dà i brividi nella schiena. Salgo i gradini d’ardesia che portano alla mia stanza per coprirmi.
Questa casa mantiene l’antico odore fatto di legno e pietra e, aprendo l’armadio, avverto ancora i profumi di lavanda e salvia dei rametti freschi che Teza collocava al suo interno.
Mentre richiudo l’armadio e indosso il suo scialle violaceo, ripenso a lei, la domestica. Quadrata e tozza, metà della testa non imbiancata quanto l’altra, in paese era soprannominata Juventus.
Con me fu aspra nutrice e compagna distratta dagli anni, madre, cuoca, custode rude. Presente senza affetto, avara di parole, impose regole categoriche e alimentò la solitudine e il vuoto dei miei giorni sempre uguali.
Lo scialle mi pizzica le spalle ma, anche se non dovrei, ci sono affezionata; lo indosso ogni sera e, ogni sera, la voce di Teza mi graffia i ricordi.
«Ehi ragazzina! Meglio nascere fortunati che ricchi, e tu sei entrambe le cose. Anche se non te lo meriti e resti refiôza¹ come le streghe, il signor Ubaldo lascerà tutto a te. Vedi quanto bene ti vuole?»
Io non lo vedevo quel bene. Non l’avevo mai visto.
Quel giorno Teza si scostò dal lavandino, asciugandosi le mani nel grembiule.
«Vuoi rispondermi?» mi fulminò in due parole. «Refiôza e maleducata. Quando qualcuno ti parla devi rispondere.»
Indietreggiai sino alla porta mentre lei, indispettita, poggiava con rabbia sul tavolo il grembiule che si era tolta. Fece una smorfia, masticando la sua stessa saliva. Le scodelle gocciolavano sul marmo mentre un raggio di sole filtrava di sbieco.
«Refiôza sarai tu» gridai, correndo fuori, non prima di avere arraffato il grembiule di Teza appoggiato al tavolo, alzandolo quindi al vento, come una bandiera, giù dalle fasce, sghignazzando.
«Prendimi se puoi!»
«Avrebbe dovuto lasciarti dove ti ha trovata, il signorino» mi urlò dietro. Teza sapeva essere cattiva.
Quando decisi di voltarmi, ormai a pochi passi dalla scogliera, la vidi lassù, seduta rigida sulla panchina vicino al ginepro. Una macchia grigia. Lo sguardo fisso sul mare. Di lì a poco sarebbe tornata in casa a prendere gli aghi da maglia.
Il passato torna; non si dimentica. Ed è quasi buio.
Ripercorro il corridoio, come ogni sera. Lo specchio sulla parete mi rende nervosa; sta lì a contare giorni e stagioni, rughe e solitudine. Potrei eliminarlo, ma non ho spostato nulla da quando se ne sono andati. Sembrano ancora qui, loro, tra il tavolo di marmo e la credenza; pranzano e cenano con me, allo stesso tavolo, e mi imprigionano tra queste mura.
Tutto risale a quegli anni ed è sbiadito, immutabile, piccolo e noioso. L’unico segnale di cambiamento è il tappeto che Ubaldo mi ha spedito dalla città statunitense in cui si è trasferito. Lo odio, questo tappeto. È ridicolo, con l’albero di melanzane ricamato sopra. Un assurdo ricamo contro natura: melanzane, appunto, cresciute sui rami come pesche. Ed è pesante, questo tappeto, per niente confortevole. Spesso inciampo.
La luce delle lampare emerge dal mare, mi stringo nelle spalle e accendo una sigaretta; costeggio la parete, giro l’angolo e raggiungo la veranda nel cortile delle camelie. Mi avvicino alla poltroncina in vimini dove, nel pomeriggio, ho appoggiato la rivista con la ricetta di Grosso. Me la spedisce da quando ha scoperto che esisto. Ogni volta che la trovo, bene incellofanata, nella buca del cancello secondario, sento una fitta allo stomaco. Vedo Casacamelia sempre uguale a sé stessa, ancorata alle pietre di Liguria, e la vita oltreoceano di Ubaldo con i suoi successi e di Grosso con le sue crociere.
Vi state forse chiedendo chi sia Grosso? Al passo, al tempo, presto ve lo dirò.
Torno a sentire freddo. Entro in cucina e butto la rivista nel primo angolo. Parecchie volte mi è capitato di non aprire per giorni la corrispondenza americana, altre di dimenticarla o perderla del tutto.
Ormai sono una vecchia pesante signora e mi irrito facilmente.
Vi offro una tisana di passiflora caerulea?
Consumiamola sul divanetto del soggiorno ascoltando Bach.
Questa bevanda calda e profumata e l’armonia delle note mi aiutano ad affrontare le lunghe serate da sola: il concerto per due violini e orchestra è una inesauribile sorgente, capace di trasmettermi un profondo senso di benessere. Dopo un inizio energico e trascinante, i movimenti si fanno ricchi e, nel finale, i piani sonori si fondono in trame fittissime. La mia solitudine si alimenta anche di questa musica.
In passato ho allontanato molte persone e, certo, non l’ho fatto con le buone maniere. Non me ne pento.
Prima di andare a letto aprirò quella rivista maledetta: The Thruster. So già che ricetta troverò. Volete scommettere? Io dico Il pesto alla genovese
. Ci giurerei.
Ubaldo per il basilico stravedeva e ne tesseva elogi. Forse è proprio il ricordo a farmi detestare il suo odore.
CAPITOLO 2
Rosa Tesaura Crocisia, 72 anni, maggio 1995, poco lontano da qui.
La radio era accesa ed io scimmiottavo ad alta voce una canzone usando il mestolo come microfono. Indossavo un maglioncino rosso un po' infeltrito che a stento mi arrivava sotto l’ombelico. Le gambette magre mi uscivano dalla gonna a pieghe. Nella luce azzurra della porta, Ubaldo entrò.
«Ti si sente dalla strada Cro’, smettila.» E mi allungò un cestino di more. «Tieni queste, ti fanno bene.» Io ne arraffai una manciata, impiastricciandomi le mani.
«Sai, sotto il boschetto ho scoperto un cespuglio meraviglioso con le more più sugose viste in vita mia. Le voglio fotografare!»
«Anche Darwin e Mendel scattavano foto alle more?»
«Cro’, ma cosa ti viene in mente?»
Che vi dicevo? Un’esagerazione dall’inizio alla fine. Fotografare cespugli.
Egli nutriva passioni esagerate, durature o passeggere. Fin da giovane era innamorato della terra ligure, esplorava arbusti e prati; nei noti sentieri scopriva i segreti della natura. Un’ossessione. Studiava Darwin e Mendel, e sognava un posto nei manuali scientifici. Come loro.
«Dai, lavati le mani e andiamo alla serra del basilico.» Si tolse il cappello e l’appese all’attaccapanni in ingresso. Portava con sé l’odore selvatico della sua passeggiata solitaria.
«Ma devo proprio venire anch’io?»
«Sì Cro’, devi. Mi fa piacere se vieni anche tu alla serra.»
«Uffaaaaaa !!!!!»
Mi sciacquai le mani controvoglia, continuando a sbuffare. Mi tolsi anche il maglioncino infeltrito che mi stava stretto; al suo posto mi infilai una camicetta larga. Avevo il muso.
Ubaldo aveva costruito a ridosso della collina di ponente una serra ventilata e stava ore ed ore disteso allungato su una stretta asse di legno sospesa sulla coltivazione. Le dita ciondolanti sfioravano leggere le foglioline sottostanti. Ancora un’esagerazione. Ubaldo era così.
Il sole batteva deciso sulla vetrata del tetto e l’odore intenso del basilico mi infastidiva. Ferma di fianco a lui che, accucciato, coccolava le piantine come creature regali e perfette, lo osservavo scocciata.
«Ci vuole ancora molto? Uffa. Sono stufa di stare qua dentro. Si soffoca.»
Senza voltarsi, mi allungò qualche piantina già composta in mazzetto. Altri mazzetti li aveva sistemati in un cestino.
«Non strizzarlo, Cro’, come al tuo solito. È il migliore della riviera, è quasi un peccato raccoglierlo. Sai, voglio pubblicare un articolo che riveli i segreti di una pianta degna dei principi.»
«Solo principi? Non principesse?»
All’improvviso si alzò e si diresse all’uscita, tenendosi al petto il cestino di basilico come fosse suo figlio. «Forza vieni» urlò, «faremo un pesto sublime, Cro’.» I suoi occhi aristocratici brillavano.
Qualche passo fuori dalla serra, si bloccò di colpo per mettermi il raccolto sotto il naso.
«Guarda che verde tenero! Così dev’essere. Annusa, annusa l’aroma, è lieve com’è giusto che sia. Il nostro basilico è il re assoluto della costa.»
«Viva la pasta al burro!» gridai.
Lui finse di non sentire.
Tornava a cercarmi solo per mostrarmi ciuffi di borragine spontanea, la fioritura prematura della mimosa o la fuga delle lucertole lungo le fasce di olivi di Casacamelia. Per il resto, non c’ero, non esistevo.
Io sbuffavo, bevevo parole, osservavo la vita, detestavo la leggerezza e l’incanto dei suoi gesti.
Alimentava in me la repulsione per il terreno scosceso e pieno di sassi, battuto incessantemente da tramontana o scirocco, e per le tradizioni inalterabili, per i cibi sempre uguali.
Non vi nego che le mie vendette, anno dopo anno, divennero crudeli, e questo vi autorizza a immaginarmi ragazzina dispettosa e acida.
Un giorno, elegante e profumato, stava per uscire. Diede un’ultima occhiata al nodo della cravatta nello specchio dell’ingresso.
«Teza, a proposito, ho visto che sulla mensola del salotto mancano il Prospetto della flora ligustica di Gismondi e un mio importantissimo progetto. Li hai spostati? Dove li hai messi? Quando pensi di spolverare, dovresti dirmelo in anticipo.»
Teza alzò la faccia dai fagiolini appena raccolti.
«Fermo, fermo, Ubaldo … io non so di cosa parlate, ma sono parecchie sere che vedo la luce attraverso la porta della vostra camera. Studiate fino a tardi. Sul tavolino c’è una gran confusione, potrebbero essere lì.»
«Dici sul tavolino?» Ubaldo corse a guardare. Spostò fogli e riviste. «No, Teza, qui non ci sono.»
Elegante e profumato, uscì sbattendo la porta. Teza riprese a pulire i fagiolini.
Quel giorno il mio cuore fece un salto carpiato con tripla capriola. La settimana dopo rimisi il Gismondi e il progetto sulla mensola in salotto, al loro posto.
«No, non posso crederci. Tezaaaaa?»
«Ubaldo, ma che c’è?»
«Teza, ascolta. Sono state strappate le prime pagine del Gismondi e manca una parte importantissima del mio progetto. Non ho parole.»
Io sbirciavo dalla porta di camera mia e sghignazzavo in silenzio. Lui impallidiva a vista d’occhio. Poi uscì di casa, calcandosi in testa il cappello appeso in ingresso. Teza alzò le spalle e tornò in cucina.
Lo schizzo di quell’assurdo e ridicolo albero di melanzane era sparito.
Oplà. Opera mia? Fate voi.
Odioso disegno, odiosa idea, odioso progetto. Tutto nel gabinetto. Aaah! Che sollievo.
Questa era la Cro’ ragazzina. Riuscite a immaginarmi?
Ho un ricordo chiaro dello sguardo deluso e amareggiato di Ubaldo mentre mi allontanava da casa e ordinava alla domestica di tenermi in paese con lei per qualche tempo.
Percorremmo insieme la salita, io e Teza. Il suo sedere grasso e dondolante saliva davanti a me. La tramontana e il salmastro avevano consumato le pietre vive ai margini della crêuza², spaccate in più punti da agavi e rosmarino.
Gonnellina a pieghe, calzettoni, gambette magre, saltellavo e calpestavo le lumache che osavano sfidare i miei passi.
Teza si voltò indietro.
«Così ci mettiamo un’ora. Passa davanti e cammina. Te lo sei meritato, tutto questo.»
«Io non voglio andare al Borgo vecchio. Tu lo vuoi. Stai tu davanti.»
«Eh no carina, gli ordini li dò io. Al posto di Ubaldo ti avrei fatto assaggiare la cintura sulle gambe. Altro che.»
Teza stava