Cronaca di una retrocessione
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Un deprecabile evento, il giallo della conclusione degli spareggi finali, i compagni di sventura, qualche personaggio, l’incontro con l’amore e altro ancora, fanno da sfondo al campionato e alle partite. Tutti ingredienti che lo guideranno verso una crescita più sul piano umano che su quello calcistico.
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Cronaca di una retrocessione - Giorgio Astolfi
Giorgio Astolfi
Cronaca di una retrocessione
Giorgio Astolfi, Cronaca di una retrocessione
© Giorgio Astolfi
Collana Romanzi e Racconti
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www.edizioniesordienti.com
Prima edizione L’Autore Libri Firenze.
Seconda edizione EEE-book novembre 2011
ISBN: 978-88-6690-014-6
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"il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido".
(E. Montale, Casa sul mare
, da Ossi di seppia
)
NOTTE
Con questo caldo mi è impossibile dormire. Dalla finestra aperta entra la luce della strada, un giallo soffuso che si espande e muore nella stanza. Vedo la forma del corpo di mia moglie, tenero frutto di questa terra, girato, come solito, su un fianco, che dorme, e nella sua serena immobilità mi muove un moto di tenerezza. Il respiro appena percettibile accompagna con lieve ritmo il riposo. Fuori dalla stanza in penombra le voci della notte ripetono il rito dell’estate e del tempo: grilli e cicale, qualche timido abbaiare, un gatto che sfugge da chissà cosa, e qui, sugli alberi vicini, il canto notturno, monotono e fastidioso, della civetta; infine, smorzato dalla lontananza, il sordo rumore dell’auto di qualche nottambulo. Mi alzo e mi dirigo verso il balcone. Appoggiato al parapetto, guardo attorno e vedo bene, con le vie, le porte e le finestre, una parte del paese e dell’altra solamente i tetti, e un tozzo campanile che vi si eleva appena appena sopra. Un quadro fatto di parti illuminate e parti in ombra: di talune si vedono i contorni e di altre l’esatta forma; il tutto dà vita ad un suggestivo gioco di luci gialle che si alternano, e talvolta si mescolano, ad altre bianche, e poi assieme, come confusi tratti usciti dall’indecisa pennellata di un pittore dalle idee ancora vaghe, sciamano in macchie scure di gruppi di alberi che le fanno filtrare in deboli raggi disperdendole nel folto di rami e foglie assopiti e immersi nella notte silenziosa. Un’intera cittadina dorme tra questi giochi della notte in un caldo giorno di luglio. Non si vedono lampade accese nelle case, e proprio per questo mi assale il desiderio di vederne una salire dal piano terra a quello rialzato e lì, dopo un po’, spegnersi. Avverto istintivamente il desiderio di partecipare attraverso un movimento luminoso a un momento di vita, perché in questo silenzio degli uomini e con le luci che dipingono le loro case e le loro strade tutto sembra essere lì e così da sempre e che mai potrà animarsi. Eppure dentro i vaghi contorni e sotto i tenui chiarori c’è chi riposa e chi veglia, chi ama e chi odia, chi attende e spera e chi è già appagato, chi gioisce e chi soffre. Lì, in quel lembo di mondo momentaneamente nascosto al sole, c’è l’umanità. C’è la storia di una nazione, o meglio, la peculiare storia di una parte di una nazione perché qui siamo al sud, nei luoghi di uno stato che solitamente sono i più diseredati, i più disperati, i più carichi di dramma e di vita.
Sin dal giorno del mio arrivo in questa terra rossa ho provato a immaginare come si vivesse qui anche solamente qualche decennio prima. Ho richiamato alla mente ciò che Levi, Pavese, De Martino, hanno scritto su questi luoghi, cercandone i segni e le testimonianze. Così mi chiedevo se le donne in nero che incontravo per la strada fossero ancora quelle di De Martino con i loro sacri e preziosi segreti di magia e superstizione. E i traini
che lenti si avviavano, all’alba, verso gli avari campi, erano quelli di Levi? Poi, la surreale città scolpita nel sasso
aveva risolto il problema del chinino? E anche qui un confinato politico ha avuto una storia d’amore con la donna che lo accudiva e gli curava la casa? Ma queste erano fantasie e domande retoriche di un giovane ventenne immerso all’improvviso in un mondo tanto diverso da quello da cui proveniva. In realtà, le cose stavano un po’ diversamente e le risposte vennero subito perché era manifesto il segno del tempo che portava le trasformazioni.
Alla fine degli anni sessanta, quando arrivai a Bernalda, c’era un evidente e molto visibile strappo col vecchio. Il paese intero, uomini e case, stava vivendo una lotta, cruda e difficile, tra un passato ostinato e duro a morire e un presente che anelava al progresso e al nuovo. Ed erano queste due anime a segnare i giorni, a scandire le stagioni, a regolare gli anni e a imprimere la loro immagine su ogni cosa. È trascorso un quarto di secolo dai miei primi ingenui interrogativi ed è stato sufficiente un lieve respiro di tempo a sancire la vittoria del mondo nuovo e del suo inarrestabile divenire e perciò a trasformare letteralmente una piccola città meridionale.
In questa terra, tra la gente che ora dorme in queste case, ho vissuto per quasi un anno un’esperienza singolare, almeno per quei tempi. Anch’io qui, sotto un tetto, ho gioito e sofferto, ho odiato e perdonato, mi sono illuso e disilluso, ho incontrato l’amore. Sono stato uno di loro. Un paesano. Uno che forse ha dato qualcosa e che ha, comunque, ricevuto qualcosa.
PARTENZA
Bernalda, ottobre.
Miei cari,
ho fatto un viaggio lunghissimo, eterno, che non finiva mai perché siamo stati costretti a passare per Firenze e Prato dato che i dirigenti dell’U.S. Bernalda dovevano vedere alcuni giocatori.