Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Mosaico di violenza
Mosaico di violenza
Mosaico di violenza
E-book286 pagine3 ore

Mosaico di violenza

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Milano, 2011. L'ingenuo Tido lavora per le Poste ed è in cerca del fratello tossico scomparso. Il suo amico Ugo è un cinico autista di ambulanze dal passato oscuro, curiosamente esperto di omicidi. I disordinati tasselli delle loro grottesche e violente vicende, innescate da un banale scippo, si ricompongono in un mosaico dagli esiti sorprendenti, tra bande di albanesi, un misterioso taccuino e boss nostrani.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2019
ISBN9788835352099
Mosaico di violenza

Correlato a Mosaico di violenza

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Mosaico di violenza

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Mosaico di violenza - Lorenzo Lecci

    GIORNO ZERO. DOMENICA

    Rendiamo grazie

    Si sprecano le speculazioni filosofiche sul dilemma se siamo artefici o vittime dell’esistenza; tuttavia ritengo ci sia sempre un bivio, seppur smarrito nel susseguirsi degli eventi, di fronte al quale la scelta è soltanto nostra.

    Perché dove oggi pullulano tabagisti, alcolizzati, drogati e adulteri, in origine c’erano la prima sigaretta, birra, canna e scambio di sguardi: tutto ha un inizio, e spesso altro, dove possiamo ancora evitare di perderci nella strada senza vie d’uscita.

    È proprio da uno di questi momenti che parte la mia testimonianza, cioè da quella volta in cui Tido doveva decidere se tornare indietro.

    Serata primaverile con aria frizzante, in preludio di nottata luminosa; dedicata la domenica al momento amicizia, soli maschi al parchetto a fumare hashish, il tempo dei saluti era arrivato.

    Quasi tutti, vivendo con i genitori, avevano consolidato negli anni i propri riti: dal collirio al correre in bagno a lavarsi la faccia, dagli occhiali da sole all’essere impegnati al cellulare. Ma per Tido la situazione era più semplice, perché non avrebbe trovato genitori svegli ad aspettarlo.

    Il programma era elementare: televisione e cereali. Non avendo una tazza, doveva soltanto evitare di scambiare l’abituale pentolino con la pentola per la pasta dato che, in preda alla fame chimica, era riuscito più volte a confondersi.

    Accese l’IPod. Lo usava sempre, anche per fare la rampa di scale o prendere l’ascensore: con l’opportuna ricarica era il suo più fidato compagno di viaggio.

    Inaugurò il rientro cullandosi nell’armonia onirica e delicatamente afosa di Lullaby dei Cure; lontano da gravità e attrito, per meglio apprezzarla si perse guardando la bellezza del viale alberato che costeggiava entrambi i lati della strada. Una via come tante, dove in primavera le fronde degli alberi s’incontravano creando un immenso affresco materico, le cui tonalità di verde venivano impreziosite delle pennellate argentee della luna.

    L’eleganza urbana di Evidence dei Faith No More modellò il piglio ipnotico in introspettivo e teso. Quindi Tido affrontava il marciapiede pronto a difendersi dall’aggressione di qualche figura insana, per questo procedeva con passo scaltro rasentando i cornicioni e abbassandosi sotto le finestre, impavido come un eroe metropolitano.

    Nell’imboccare la via di casa saltò dietro un’auto parcheggiata, lanciando uno sguardo furtivo verso il proprio portone; un gioco innocente, ma quell’istantanea legò realtà e immaginazione gettandolo nel caos.

    Si sfregò nervosamente gli occhi, inspirò e fece con circospezione capolino. Lo scenario non cambiava: davanti al suo palazzo c’erano parcheggiate diverse auto della polizia.

    Rannicchiatosi repentinamente, incollando la schiena all’auto, d’istinto iniziò a graffiarsi i palmi contro il fango rinsecchito sulla portiera. Strofinava con foga, tentando di scandire il susseguirsi caotico dei pensieri che gli ingolfavano la mente: era nel panico.

    È qui che Tido si trovò inconsapevolmente di fronte al proprio bivio: sottovuoto, incapace di percepire la vita che lo circondava, lo spazio, l’aria e tanto meno il passare del tempo.

    Fissava la via appena fatta e il paradosso è che era proprio da dove lei conduceva che sentiva il bisogno di fuggire. Eppure si trattava soltanto dell'altra direzione, di una strada che quella sera aveva vissuto come in un poliziesco: «Me la sono tirata addosso ed è diventato reale».

    È così, sentiva come se tutto dipendesse dalla sua volontà, come se a dar corpo a quel mondo ci fosse il suo libero arbitrio.

    Determinato a ritornare a casa, più che domandarsi cosa lo attendesse, si rifugiò nel riflettere se avrebbe avuto senso sbucare dall’auto con le mani alzate, per meglio calarsi nell’atmosfera che la situazione gli stava offrendo.

    Lo fece ma, dopo pochi passi, realizzò che ad attenderlo c’erano soltanto tre Pantere completamente vuote. Si fermò per qualche secondo sotto la luce del lampione a guardarle ostruire la strada; se ne stavano lì indisturbate, in quello stato di apparente abbandono ad annunciargli l’imminente disastro.

    Era il suo Getsemani e doveva prepararsi al sacrificio quindi, non sapendo cosa fare, decise di comportarsi come d’abitudine.

    Aperto il portone del palazzo, si lanciò nella solita gara di quanti gradini riusciva a fare prima di sentirne la chiusura: quella sera salì meno scalini del solito, mentre la chiusura metallica del portone fece un rumore più pesante e risolutivo.

    Fino a quel momento era riuscito disperatamente a sfocare tutto con una ludica miopia, ma adesso c’era la terribile sensazione di non avere più scampo.

    Abitando al primo piano si ritrovò subito davanti al pianerottolo di casa: uno spazio di circa otto metri quadri che quella sera era gremito da almeno dieci poliziotti.

    Sul pianerottolo davano tre porte e ormai era chiaro, di qualunque cosa si trattasse riguardava la sua famiglia.

    Per affrontare correttamente la situazione bisognava essere fedeli alla procedura: nascondendo gli occhi rossi sotto il lungo ciuffo, con garbo e cortesia sgusciò tra i poliziotti, accompagnato da un brivido che gli si addensava furioso alla base del cranio.

    Sentiva un gran bisbigliare ma nessuno gli rivolse la parola, soltanto un «Ma...» quando aprì la porta verso cui tutti guardavano, chiudendosela alle spalle come d'abitudine.

    «Tuo fratello vuole cambiare pettinatura, non farglielo fare che diventa brutto.»

    Era la madre che, aggirandosi in vestaglia come un fantasma, cercava di dare il suo contributo. Bianca, scheletrica, capelli trascurati, lineamenti dolci ma di una bellezza ormai appassita nel dolore: da troppi anni era contesa tra sedativi e antidepressivi, lontano dalla realtà.

    Tido andò in bagno alla ricerca di Max, luci accese e acqua aperta, ma lui non c’era.

    Il campanello si mise a squillare, preannunciando il classico: «Aprite, polizia».

    Corse in camera, attirato da un gran trambusto: il fratello, nudo come un verme, cercava di nascondersi.

    Spalle larghe, fisico slanciato, tratti belli: un marchio di famiglia che non era ancora riuscito ad annullare.

    Su tutto il lato destro della testa si era tosato delle figure geometriche, dei rombi di una perfezione chirurgica inaccessibile; Tido rimase per qualche secondo sconcertato, non solo nel chiedersi come ci fosse riuscito, quelle rasature lo smuovevano nel profondo: sentiva l’odore del disinfettante, degli spazi asettici, dell’aria chimica. Ma non c’era tempo per i chiarimenti, la tragicità del momento faceva passare in secondo piano anche l’inspiegabile.

    «Nell’armadio ti troveranno. Esattamente, cos’hai combinato?»

    In questa casa non ci sono nascondigli sicuri, pensò precipitandosi in bagno. Mi conviene cambiare faccia.

    Era strafatto, con occhi sgranati per il panico; incerto nel proseguire con la testa o tagliare la barba, sporca ma integra.

    Fuori campo, una cantilena: «Fermalo, fate i bravi, fermalo...»

    Il campanello smise. «Aprite, per favore, siamo venuti a fare un controllo.»

    «Non li fare entrare, io non ho fatto niente. Adesso mi rimetto nell’armadio e tu dici che non ci sono.»

    «Ma questa è una situazione che non puoi evitare, cos’è che hai combinato?»

    «Non ho fatto niente, è tutto falso. Se mi arrestano mi ammazzo, devi pensarci tu.»

    In questi casi un comportamento educato corre sempre in aiuto, cortesemente bisognava fare accomodare la polizia... tanto per non fargli sfondare la porta.

    Nel frattempo: «Cambiati subito i vestiti, mettiti il pigiama, così sarai solo un onesto cittadino che stava dormendo».

    «Io lo faccio, ma mi ammazzo, guarda che mi ammazzo...»

    «Basta dire certe cose davanti alla mamma. In camera a cambiarti, velocemente.»

    Incrociando lo sguardo della madre, immobile in un angolo come vi fosse sepolta, ebbe la netta sensazione che gli stesse dicendo: «Sono fiera di te. Apri quella porta, se cadrai la mamma ti sarà vicino, pronta a curarti le ferite».

    Il complottare oltre la porta d’entrata e il tumulto nella camera da letto, erano gli estremi del cunicolo nero dentro il quale Tido si muoveva senza scampo: si diresse verso l’entrata, con ancora l’impermeabile addosso.

    Aprì la porta: «Buona sera noi siamo la famiglia Cannone, accomodatevi pure».

    La madre aveva un atteggiamento altrettanto controllato, non per etichetta ma perché era troppo anestetizzata per trasformare la paura in aggressività. Con tono di voce consunto: «Perché siete venuti, potete dirmi che cosa è successo per favore?».

    I poliziotti non sono soltanto poliziotti, sono anche padri di famiglia, professionisti che possono aver visto di tutto ma mai abbastanza. C’è sempre un margine d’imbarazzo o commozione, proprio nelle situazioni secondarie e non pericolose, proprio quando non te lo aspetti e le tue difese sono abbassate.

    «Ci dispiace molto per la situazione ma è una procedura necessaria. Stiamo cercando un ragazzo ma non è lui» indicando Tido, «ci hanno detto che vive qui e la nostra testimone vorrebbe vederlo, per capire se si tratta della persona che l’ha scippata.»

    Una chioma rosso rame si fece largo tra le uniformi blu.

    Occhi grandi azzurri, labbra carnose, lineamenti perfetti: Tido rimase del tutto insensibile a quell’immagine, ma poi successe qualcosa di inaspettato.

    Con un gesto naturale, lei si passò la mano tra i capelli facendo spuntare, dal polsino dell’elegante camicia, l’orologio: quadrante con pavé di diamanti, il resto in oro bianco.

    Come ipnotizzato dalle iridescenze di quelle pietre, Tido barcollò, sentendosi avvinghiare e portare giù, nella passione più profonda e intima.

    La vedeva ridere, entusiasmarsi e poi assorta in lui; perché intorno a loro era tutto così crudele, che cosa ci facevano quei poliziotti?

    Bastò il sentore di ricordi indefiniti per spingerlo all’angoscia per lo spreco del bello, al rimpianto di progetti infranti contro la vita.

    Tido stava male per qualcosa che non capiva, ma non c’era spazio per le domande: scosse la testa tornando alla realtà.

    Max era uscito dalla stanza, fortunatamente in mutande e un calzino, con in bella mostra le bruciature che gli ricoprivano il corpo: sigarette e fornelli roventi, fatte seguendo un rituale masochistico da eroinomane.

    Davanti a quello spettacolo la ragazza abbandonò ogni esigenza di giustizia, rintanandosi in discorsi evasivi: «Sapete, non sono proprio convinta che sia lui, insomma ho bisogno di pensarci... è una cosa che non mi sento di fare da sola... sì, forse devo ragionare meglio».

    Era evidente, lo aveva riconosciuto, ma tutta quella deriva rendeva immorale la stessa applicazione della legge.

    Un poliziotto: «Quindi ritiene sia meglio pensarci di più?».

    Un altro: «La decisione spetta solo a lei, se non sussistono i presupposti non possiamo procedere».

    Cercavano tutti di prendere le distanze da una situazione così disgraziata, spiazzati da quel quadretto familiare dalle tinte strazianti.

    Tido, appoggiato comodamente al muro, si era ripreso dall’imboscata emotiva e assisteva allo spettacolo sentendosi invulnerabile. La riconquista della sua vigile apatia gli dava a sprazzi un senso di onnipotenza, una sorta d’illuminazione, di passaggio a un livello superiore di consapevolezza.

    A modo suo, provava comunque imbarazzo per lo spettacolo: presentarsi con una famiglia allo sbando, che soccombeva nella tristezza e nello smarrimento, era quantomeno inopportuno.

    Conosceva bene la situazione e la facilità a sopravviverne, forse era per questo che si fece largo in lui un forte senso di colpa nei confronti di quella ragazza.

    Pensando di consolarla, si mise a declamare quanto scrisse sul diario in occasione della scomparsa del padre: «La vita nella tragedia ti tiene stretta, perché la sua grandiosa inconsapevolezza non ti abbandona mai. La vita è ironica perché più è crudele e più ti fornisce gli strumenti per sopravviverle...»

    «È troppo tardi per le lezioni di vita» disse un poliziotto, interrompendolo quasi con scherno. «Dobbiamo prendere una decisione.»

    La ragazza, mostrando un’elevata inclinazione alle espressioni di maniera, disse: «Come ho già spiegato, non sono certa che sia lui. Per non commettere errori devo ragionarci con più tranquillità».

    Mentre Max assisteva con un’aria stupida, per non lasciar trasparire la soddisfazione di averla fatta franca, Tido alzò lo sguardo ostentatamente vigile invitando i poliziotti a uscire.

    Non riuscì a rivolgersi alla ragazza e tanto meno a guardarla; richiuse la porta, rammaricato dalla netta sensazione di aver perso un’importante opportunità.

    Era stanco dell’inconsapevolezza, stanco di tutte quelle emozioni incomprensibili; l’unica certezza che gli era rimasta era il desiderio che il resto della famiglia se ne andasse a dormire. Così fece la madre, mente Max aspettò qualche minuto e, una volta visto dalla finestra che le volanti se ne erano andate, si vestì e uscì con foga senza né girarsi e né salutare.

    Tido corse a letto, per chiudere al più presto con quella serata.

    Dopo mezz’ora un rumore lo costrinse ad aprire di sobbalzo gli occhi; fu più una sensazione ma, nella nebbia del torpore, distinse la sagoma di spalle di un poliziotto.

    Ancora conteso tra il sonno e la veglia, si rese conto che non si trattava di un flashback; quell’uomo era lì, imbucato in una festa ormai finita a reclamare il suo momento. Abusava dell’uniforme, a luci accese, frugando senza ritegno nei cassetti delle scrivanie poste ai piedi dei due letti.

    Non era una banale problema di invasione di spazi, non più per Tido, non da quando quell’uomo si fermò.

    Quell’uomo si fermò per il tempo di un accenno del suo profilo, della pelle che forma rughe innaturali, delle fossette che diventano voragini e delle labbra tirate in un ghigno infernale: non vedeva i suoi occhi, ma lo sentiva guardargli dentro, nell’anima e negli affetti, con ferocia e voracità.

    Si stropicciò l’intero viso per riprendersi da quell’immagine orrenda, ma quando riguardò l’uomo se ne era andato lasciandolo smarrito nella paura.

    Corse a dare diverse mandate alla porta, ognuna accompagnata da un profondo sospiro di sollievo. Fece infine un mezzo giro così, anche con le chiavi, suo fratello non sarebbe riuscito a entrare.

    «La prossima volta quando esci chiudi» sussurrò, lasciandosi il mondo oltre quella porta.

    GIORNO PRIMO. LUNEDÌ

    Chi cerca...

    Si svegliò con la sensazione di chi si prepara per un lungo viaggio, certo di essersi dimenticato qualcosa: Max non era rientrato. Dopotutto era primavera e non aveva piovuto, tranquillizzarsi pensandolo a dormire su di una panchina, strafatto e lurido, era la cosa giusta.

    Tido come lavoro consegnava ogni tipo di posta e, per sentirsi più autentico, lo faceva usando la sua bicicletta. L’aveva colorata con l’aerografo completamente di viola, mentre le ruote e i cerchioni erano rigorosamente neri, con un risultato così accurato da lasciar fraintendere che appartenesse a chi ama lo sport.

    In effetti un po’ sportivo lo era, considerato che trascorreva molte ore in sella a consegnare lettere e, quel giorno, anche per cercare il fratello.

    Primo pezzo della giornata: Crying Lightning degli Artic Monkeys, un belligerante incedere da ascoltare rigorosamente a palla. La cosa non gli dispiaceva perché, destreggiarsi nel traffico senza udito, gli consentiva di esercitare l’apertura mentale.

    Per andare al centro di smistamento della posta deviò per i primi giardini, ma di Max nessuna traccia.

    Arrivato in magazzino, il grido di riconoscimento: «Per me il solito».

    Goffamente, Cesare, cinquantenne dall’aria pacifica e le forme tondeggianti, gli diede l’intero pacco di buste, salutandolo.

    «Divertiti pure, figliolo. Se avessi la tua energia, non sarei su quella bicicletta ma a spassarmela.»

    Per non essere meno banale, Tido lanciò un occhiolino d’intesa ostentatamente equivoco, per poi scippare la posta scappando in bicicletta.

    «Ti aspetto in guardiola, pasta per due» gridò risedendosi davanti alla televisione.

    Cesare Pasquotti era l’emblema della persona dal lavoro mediocre, ma era tutt’altro che un tipo scontato; lo faceva per poter leggere, appagando la sua sete di conoscenza: si trattava di una scelta, come il suo abbigliamento, così ordinario da apparire studiato. Andava anche fiero della sua calvizie, perché lo aiutava a confondersi con gli altri, garantendosi una vita serena.

    Per Tido non era solo un collega: si volevano bene.

    Due Natali fa andarono a messa insieme e pregarono ad alta voce, inginocchiati su di un martirizzante gradino; poi Tido lo aiutò a rialzarsi, tanto per rendere più ridicola la situazione. Alla fine Cesare gli regalò un portachiavi con mini torcia a led, qualcosa di veramente kitsch e che accettò soltanto dopo essersi pomposamente accertato che fosse un originale made in Cina: da quella sera lo portò sempre con sé.

    Passò l’intera giornata a consegnare lettere e pacchi, come sempre, ma anche sbirciando nei luoghi dove avrebbe potuto trovare il fratello.

    La ricerca si concluse con un nulla di fatto e, rientrato a casa, la madre: «Tuo fratello non è tornato, lo hai visto?».

    Spiazzato: «Di sfuggita, ma non mi sono fermato perché stavo lavorando. Tanto lo sappiamo che alla fine torna sempre a casa».

    Sprizzava sicurezza e tranquillità, ma era preoccupato: Forse si è offeso perché ho fatto mezza mandata, costringendolo a dormire fuori... è stata colpa sua se quel poliziotto ha trovato la porta aperta... Max sa che se suona mi alzo ad aprirgli, non l’ha fatto per non svegliare la mamma. Deve essere andata così, è stato costretto a dormire fuori e adesso è arrabbiato.

    Sfidando l’ennesima frustrazione, quella sera s’incontrò con un amico e la sua auto. Una Ford Taunus TC3 con allestimento sportivo S, prodotta nel 1982, ufficialmente un'auto d’epoca. Di color nero metallizzato opaco, l’amico ne garantiva una meccanica maniacalmente perfetta.

    Sballottato da una zona all’altra a veder giardini, sentendosi come un pacco postale non affrancato; poi anche peggio, con le frasi d’incoraggiamento improvvisate dall’amico, a ogni lampo di speranza inghiottito dalla realtà.

    Quindi, l’amico: «Non c’è, lui non c’è. Tanto vale accettarlo. Vecchio mio, è da quando ha capito che esisti che ti crea problemi... è meglio che questa sera non lo troviamo perché lo prendo a calci fino a rompermi la caviglia».

    L’auto procede abusiva in zone pedonali e vialetti, accompagnata dallo stridio di sassolini, compressi fino a scheggiarsi sotto il peso dei pneumatici; Tido si riaccende pensando alla tecnica della percussione, all’Homo habilis che costruisce strumenti in pietra: «Ehi, stiamo forse viaggiando verso l’età della pietra?».

    L’amico non risponde, non lo aiuta a evadere, i loro sguardi sono stanchi e rassegnati per il troppo frugare dove non credono: è tempo di andare a nanna.

    Quando tutto sembrava concluso, quell’essere saltò fuori dal nulla gridando: «Sei pazzo, pazzo a guidare quest’auto. Moriremo tutti, sarà la nostra tomba... è colpa tua!».

    Occhi allucinati a guardar storto, la testa ruotata in una posizione anormale, la pelle sporca e ricoperta di croste, i vestiti bruciati; guardava inspiegabilmente Tido che, povero passeggero sconvolto, lo osservava spezzarsi le unghie nel tentativo di staccare le lettere Ford dal muso dell’auto.

    Disgustati sgommarono via da quell’immagine che, riflessa nel retrovisore, si contorceva freneticamente come avvolta dalle fiamme, facendosi piccola fino a scomparire.

    Quella notte Tido cercò di esorcizzare lo shock, calandosi nei panni di un investigatore sgangherato da telefilm, uno di quelli che andando a fondo delle cose scoprono che c’è molto di più, e più chiariscono e più non capiscono.

    Quando però alzava la testa dall’immaginazione, si sentiva travolgere da un forte senso di angoscia; conviveva da anni con la violenza e l’instabilità, ma quello che gli era capitato negli ultimi due giorni andava oltre: ieri l’incontro con la ragazza che lo aveva proiettato nel fallimento di una vita adulta, adesso quell’essere disgustoso che gli si scagliava contro accusandolo.

    Era solo un ragazzo, per lui era troppo e non ci stava a diventare pazzo. Quella notte sembrava interminabile, ma poi riuscì ad addormentarsi; riuscì a spegnere ogni tensione decidendo che l’amico avrebbe vegliato su di lui: ora c’era l’amico e, grazie a lui, si sarebbe buttato alle spalle tutto questo e molto altro.

    GIORNO SECONDO. MARTEDÌ

    Amici e altri

    Tranquillizzata la madre, andò al lavoro improvvisando nello zaino un kit di primo soccorso: spazzolino, sapone, cambio. Era fermamente intenzionato a trovare suo fratello, renderlo accettabile e riportarlo a casa.

    «Ciao Cesare, dammi la posta che oggi mi aspetta una brutta giornata.»

    «Cosa succede ragazzo, di qualunque cosa si tratta sappi che alla mia età te la sarai dimenticata.»

    «Sono due notti che mio fratello non torna a casa a dormire e la mamma è preoccupata.»

    «È una testa calda, si sarà andato a imboscare con qualche compagna di merende. Vedrai che non sta male, altrimenti te lo saresti già ritrovato in casa.»

    «Se non riesco a trovarlo questa mattina, non mi aspettare per pranzo. Scusami ma devo correre.»

    La giornata di ricerca si concluse con un nuovo insuccesso; rientrato a casa la madre lo accolse così spaventata, che dovette inventarsi che Max era probabilmente partito.

    La situazione stava diventando pesante, lui stesso aveva difficoltà a reprimere un principio di angoscia: una sensazione fredda e priva di spessore che riusciva comunque a mostrare serie potenzialità.

    «Hai perfettamente ragione mamma, ma lo sai com’è fatto, se ne frega. La cosa

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1