Alice in gabbia
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Anteprima del libro
Alice in gabbia - Arianna Gasbarro
golem / narrazioni
© 2010 Miraggi Edizioni
via Dronero 2 - 10144 Torino
www.miraggiedizioni.it
Progetto grafico Miraggi
Prima edizione cartacea: ottobre 2010
(ISBN edizione cartacea 978-88-96910-01-6)
Prima edizione formato ePub: marzo 2013
ISBN 9788896910665
Table of Contents
01_Cover
02_Collana
03_Colophon
04_Frontespizio
05_Dedica
06_Uno
07_Due
08_Tre
09_Quattro
10_Cinque
11_Sei
12_Sette
13_Otto
14_Nove
15_Dieci
16_Undici
17_Dodici
18_Tredici
19_Quattordici
arianna gasbarro
Alice in gabbia
Miraggi edizioni
alle papere
uno
Benvenuti. Vi trovate a Firenze, anno del Signore 2009. Scacciate immediatamente dalla vostra mente l’immagine dell’Arno che solletica Ponte Vecchio, la tradizionale coda di turisti agli Uffizi, i mimi vestiti da poeti e i venditori di lampredotto. Prendete quella strada che conduce a sud e osservate dissolversi in lontananza la città mentre vi addentrate nelle verdeggianti periferie fiorentine.
Fa caldo, questo sole estivo infiamma l’asfalto e quando arrivate nel cortile dell’azienda tutto intorno non c’è un’anima. Lasciate la carrozza, il tappeto volante, il drago bifronte o qualsiasi altro mezzo voi abbiate utilizzato per arrivare fin qui, poi alzate lo sguardo e osservate le mura dell’edificio. Vetri a specchio e cemento, il coesistere di fragilità e persistenza.
Dirigetevi verso la parete a est e zoomate sulla terza finestra al secondo piano. Adesso guardate molto attentamente: tra la finestra e il condizionatore alle mie spalle, riuscite a distinguere le sbarre trasparenti? Ecco, lì è dove lavoro io e quello è il confine tra libertà e schiavitù, tra l’ape felice che ronza riflessa sul vetro e io che do le spalle al sole, all’ape e al mondo mentre cerco di concentrarmi sullo schermo luminoso di fronte a me.
Sono le 10:47 del 20 luglio e mentre l’Italia si contorce nella morsa del caldo io tremo. Ho il privilegio di sedere accanto al sacro dispensatore di gelo, al divino che fredda gli animi roventi e iberna il presente, così possiamo scongelarlo e divorarcelo quando ci pare. Lavoro fianco a fianco con questo dannatissimo arnese che mi sta pietrificando i muscoli della schiena ma se tento di spegnerlo qui rischio il linciaggio, quindi gelo sia.
C’è anche il buffone oggi, chiuso nella sua stanza. Non è qui spesso, grazie al cielo. È sempre in viaggio per il mondo, a torturare i clienti con i suoi sproloqui o pungolare le nostre sedi estere per incrementare il flusso di lavoro. Il budget è la sua croce, dice, però visto che pesa troppo ce la ritroviamo sempre noi sul groppone, mentre lui a pancia all’aria doma la crisi. È sempre in giro ma purtroppo ogni tanto deve pur tornare, per battere un po’ il ferro finché è tiepido, spiscettare qua e là sul suo territorio e dimostrare che lui è presente e indaffaratissimo, la pingue ruota senza cui il carro giacerebbe inerte. Fa veloce il giro dei saluti e dei rimbrotti, poi si chiude nella sua stanza: un videogame, Facebook e ogni tanto un latrato per far sentire ch’egli è desto e vigile.
Io invece vorrei solo poter essere fuori di qui.
Eccomi seduta alla mia scrivania con lo sguardo spento mentre sogno che accada qualcosa, un qualsiasi evento che possa tirarmi fuori da questa micidiale routine. Qualche tempo fa in Germania è crollata un’azienda. La palazzina era vecchia, ha barcollato finché ha potuto e poi un giorno CRAK, secca, disintegrata sotto il peso della polvere e della noia. Ecco io sogno quello, CRAK!, o come accade in banca, un gruppo di delinquenti armati fino ai denti che fanno irruzione in ufficio per impossessarsi dei prestigiosi progetti Venus. Immagino noi inchiodati dall’inerzia alla scrivania mentre quelli si fanno strada coi fucili spianati, mettono Laura sotto tiro e la costringono a consegnargli i progetti delle chaise-longue con la scandalosa Venere ignuda. E poi, mentre loro ci derubano, immagino il clown che arriva col suo passo pesante e quelli che colti alla sprovvista lo mitragliano di colpi. Sangue, distruzione e bye-bye dannata routine.
Poi torno in me e alla mia tediosa realtà. Salvo i documenti aperti e scendo in cortile per fare una pausa.
Il getto d’aria gelida sopra la porta mi ghiaccia capelli e sinapsi, ma io intrepida spingo il maniglione e mi do in pasto al caldo sahariano. La mia corazza di brina si scioglie e gocciolante mi dirigo verso il torrente.
Beh, il torrente direte voi… In realtà è solo un fiumiciattolo fognario che costeggia l’azienda, ma per me vedete è un piccolo angolo di natura, un anfratto di paradiso che sbircio attraverso le maglie fitte di questa rete che m’opprime. Lascio tutto alle mie spalle e per qualche istante m’immergo tra le fronde e osservo le papere, gli aironi e l’uccello imbronciato che ogni giorno mi saluta quando entro in gabbia. Io sono San Francesco e loro i miei pennuti rivelatori.
Preziose paperelle. Vedete, io sono nata e cresciuta a Roma e lì non mi è mai capitato di vivere a stretto contatto con la natura. Non ho mai visto un cespo di insalata sbucare dalla terra né gli animali vivere allo stato brado. Incontravo solo le bestiole stecchite del supermercato, oppure quelle depresse dello zoo e del circo. Naturalmente ogni tanto andavo anche a trovare le papere, i cigni e le defunte nutrie quando la domenica c’era il sole e i miei mi portavano a Villa Pamphili. A quei tempi però per me le papere non erano altri che dei pennuti che sguazzavano nel laghetto e si tuffavano col culo all’aria per prendere i pesci, ammesso che ce ne fossero. Loro vivevano la loro vita mentre io vivevo la mia, nel ventre sicuro della società urbana.
Adesso invece, segregata in quest’angolo di periferia, osservo le papere ogni giorno. Già da qualche tempo mi soffermo a rimirarle per indagare il senso della loro esistenza. Queste piccole, sciocche paperelle che vivono tutto il giorno con le zampe nell’acqua, preoccupate solo di sopravvivere e fornicare. Hanno un nido nascosto da qualche parte, covano le uova e poi un giorno all’improvviso escono fuori i pulcini, minuscoli esserini che riempiono di gioia le mie primavere in gabbia. Sguazzano, papere e pulcini, e si godono il calore del sole, il sollievo dell’ombra e delle fronde bagnate, i frutti della natura e tutto quello che la loro umile esistenza animale gli riserva.
Ecco, questo senso dell’esistenza della papera mi ha fatto molto riflettere. Perché a un certo punto la mia indagine si è ribaltata. Vedete, queste 8 ore che trascorro voltando le spalle al sole, non le passo davvero tutte a lavorare. Viaggio nella rete, il prezioso filo virtuale che procrastina la mia incombente follia, e penso a quello che è il senso della mia vita. Sono quasi tre anni adesso che lavoro e che ho perso ogni facoltà di vivere il mondo. Se splende il sole, piove o nevica la mia vita procede indifferente: 8 ore davanti al PC. E se ci pensate bene, in totale non sono 8 ma 11 ore della mia vita, se consideriamo:
8 ore in gabbia +
2 ore per arrivare qui e tornare a casa +
1 ora d’aria per il pranzo =
————————————————
11 ore bruciate
Aggiungiamo poi 7 ore di sonno e vedete mi restano appena 6 ore al giorno per procurarmi il cibo, prendermi cura di me stessa, pulire, stirare, cucinare, leggere un libro, vedere gli amici, resistere ai richiami seduttivi di altre divinità, santificare le feste, onorare la famiglia lontana, reprimere gli istinti omicidi, amare il mio fidanzato, non rubare né farmi fottere, non dire idiozie, non desiderare di aver sedotto un miliardario, bere almeno un litro e mezzo d’acqua e ingurgitare frutta e verdura, preferibilmente di stagione. Quando alle 6 esco dall’ufficio mi scapicollo per andare in palestra a sgranchirmi i nervi, stressandomi per arrivare in tempo e per tornare a casa a un’ora decente.