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Alice in gabbia
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Alice in gabbia
E-book106 pagine1 ora

Alice in gabbia

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Info su questo ebook

La vita di Alice è apparentemente perfetta: 28 anni, un lavoro a tempo indeterminato e un fidanzato che ama, ricambiata. Non le resta che cercare casa e fare dei figli, guadagnandosi il paradiso terrestre di una vita normale. Eppure di perfetto non c’è nulla. Il surreale sarcasmo di Alice fa scoprire al lettore situazioni che suo malgrado conosce fin troppo bene, nascoste dietro la maschera della normalità di un’ordinaria giornata in ufficio. Il badge che scandisce malignamente il tempo. La routine del ritmo aziendale che diventa ossessione. Le manie degli impiegati, a un passo dalla psicosi. La sindrome antisociale dell’open-space. Le figure clownesche dei capufficio, tronfi della loro incompetenza. I giorni che invece di allargarsi in un presente vivo si spengono con monotonia uno sull’altro. Le pause – pausa-aria, pausa-mela, pausa-sclero – sono le uniche boccate di sollievo. Finché Alice non scopre la pausa-papera! Osservando da dietro la recinzione dell’azienda i pennuti che vivono liberi nel loro stagno, ad Alice si rivela una nuova filosofia di vita, una possibilità di salvezza, di liberazione…
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2015
ISBN9788896910665
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    Anteprima del libro

    Alice in gabbia - Arianna Gasbarro

    golem / narrazioni

    © 2010 Miraggi Edizioni

    via Dronero 2 - 10144 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Prima edizione cartacea: ottobre 2010

    (ISBN edizione cartacea 978-88-96910-01-6)

    Prima edizione formato ePub: marzo 2013

    ISBN 9788896910665

    Table of Contents

    01_Cover

    02_Collana

    03_Colophon

    04_Frontespizio

    05_Dedica

    06_Uno

    07_Due

    08_Tre

    09_Quattro

    10_Cinque

    11_Sei

    12_Sette

    13_Otto

    14_Nove

    15_Dieci

    16_Undici

    17_Dodici

    18_Tredici

    19_Quattordici

    arianna gasbarro

    Alice in gabbia

    Miraggi edizioni

    alle papere

    uno

    Benvenuti. Vi trovate a Firenze, anno del Signore 2009. Scacciate immediatamente dalla vostra mente l’immagine dell’Arno che solletica Ponte Vecchio, la tradizionale coda di turisti agli Uffizi, i mimi vestiti da poeti e i venditori di lampredotto. Prendete quella strada che conduce a sud e osservate dissolversi in lontananza la città mentre vi addentrate nelle verdeggianti periferie fiorentine.

    Fa caldo, questo sole estivo infiamma l’asfalto e quando arrivate nel cortile dell’azienda tutto intorno non c’è un’anima. Lasciate la carrozza, il tappeto volante, il drago bifronte o qualsiasi altro mezzo voi abbiate utilizzato per arrivare fin qui, poi alzate lo sguardo e osservate le mura dell’edificio. Vetri a specchio e cemento, il coesistere di fragilità e persistenza.

    Dirigetevi verso la parete a est e zoomate sulla terza finestra al secondo piano. Adesso guardate molto attentamente: tra la finestra e il condizionatore alle mie spalle, riuscite a distinguere le sbarre trasparenti? Ecco, lì è dove lavoro io e quello è il confine tra libertà e schiavitù, tra l’ape felice che ronza riflessa sul vetro e io che do le spalle al sole, all’ape e al mondo mentre cerco di concentrarmi sullo schermo luminoso di fronte a me.

    Sono le 10:47 del 20 luglio e mentre l’Italia si contorce nella morsa del caldo io tremo. Ho il privilegio di sedere accanto al sacro dispensatore di gelo, al divino che fredda gli animi roventi e iberna il presente, così possiamo scongelarlo e divorarcelo quando ci pare. Lavoro fianco a fianco con questo dannatissimo arnese che mi sta pietrificando i muscoli della schiena ma se tento di spegnerlo qui rischio il linciaggio, quindi gelo sia.

    C’è anche il buffone oggi, chiuso nella sua stanza. Non è qui spesso, grazie al cielo. È sempre in viaggio per il mondo, a torturare i clienti con i suoi sproloqui o pungolare le nostre sedi estere per incrementare il flusso di lavoro. Il budget è la sua croce, dice, però visto che pesa troppo ce la ritroviamo sempre noi sul groppone, mentre lui a pancia all’aria doma la crisi. È sempre in giro ma purtroppo ogni tanto deve pur tornare, per battere un po’ il ferro finché è tiepido, spiscettare qua e là sul suo territorio e dimostrare che lui è presente e indaffaratissimo, la pingue ruota senza cui il carro giacerebbe inerte. Fa veloce il giro dei saluti e dei rimbrotti, poi si chiude nella sua stanza: un videogame, Facebook e ogni tanto un latrato per far sentire ch’egli è desto e vigile.

    Io invece vorrei solo poter essere fuori di qui.

    Eccomi seduta alla mia scrivania con lo sguardo spento mentre sogno che accada qualcosa, un qualsiasi evento che possa tirarmi fuori da questa micidiale routine. Qualche tempo fa in Germania è crollata un’azienda. La palazzina era vecchia, ha barcollato finché ha potuto e poi un giorno CRAK, secca, disintegrata sotto il peso della polvere e della noia. Ecco io sogno quello, CRAK!, o come accade in banca, un gruppo di delinquenti armati fino ai denti che fanno irruzione in ufficio per impossessarsi dei prestigiosi progetti Venus. Immagino noi inchiodati dall’inerzia alla scrivania mentre quelli si fanno strada coi fucili spianati, mettono Laura sotto tiro e la costringono a consegnargli i progetti delle chaise-longue con la scandalosa Venere ignuda. E poi, mentre loro ci derubano, immagino il clown che arriva col suo passo pesante e quelli che colti alla sprovvista lo mitragliano di colpi. Sangue, distruzione e bye-bye dannata routine.

    Poi torno in me e alla mia tediosa realtà. Salvo i documenti aperti e scendo in cortile per fare una pausa.

    Il getto d’aria gelida sopra la porta mi ghiaccia capelli e sinapsi, ma io intrepida spingo il maniglione e mi do in pasto al caldo sahariano. La mia corazza di brina si scioglie e gocciolante mi dirigo verso il torrente.

    Beh, il torrente direte voi… In realtà è solo un fiumiciattolo fognario che costeggia l’azienda, ma per me vedete è un piccolo angolo di natura, un anfratto di paradiso che sbircio attraverso le maglie fitte di questa rete che m’opprime. Lascio tutto alle mie spalle e per qualche istante m’immergo tra le fronde e osservo le papere, gli aironi e l’uccello imbronciato che ogni giorno mi saluta quando entro in gabbia. Io sono San Francesco e loro i miei pennuti rivelatori.

    Preziose paperelle. Vedete, io sono nata e cresciuta a Roma e lì non mi è mai capitato di vivere a stretto contatto con la natura. Non ho mai visto un cespo di insalata sbucare dalla terra né gli animali vivere allo stato brado. Incontravo solo le bestiole stecchite del supermercato, oppure quelle depresse dello zoo e del circo. Naturalmente ogni tanto andavo anche a trovare le papere, i cigni e le defunte nutrie quando la domenica c’era il sole e i miei mi portavano a Villa Pamphili. A quei tempi però per me le papere non erano altri che dei pennuti che sguazzavano nel laghetto e si tuffavano col culo all’aria per prendere i pesci, ammesso che ce ne fossero. Loro vivevano la loro vita mentre io vivevo la mia, nel ventre sicuro della società urbana.

    Adesso invece, segregata in quest’angolo di periferia, osservo le papere ogni giorno. Già da qualche tempo mi soffermo a rimirarle per indagare il senso della loro esistenza. Queste piccole, sciocche paperelle che vivono tutto il giorno con le zampe nell’acqua, preoccupate solo di sopravvivere e fornicare. Hanno un nido nascosto da qualche parte, covano le uova e poi un giorno all’improvviso escono fuori i pulcini, minuscoli esserini che riempiono di gioia le mie primavere in gabbia. Sguazzano, papere e pulcini, e si godono il calore del sole, il sollievo dell’ombra e delle fronde bagnate, i frutti della natura e tutto quello che la loro umile esistenza animale gli riserva.

    Ecco, questo senso dell’esistenza della papera mi ha fatto molto riflettere. Perché a un certo punto la mia indagine si è ribaltata. Vedete, queste 8 ore che trascorro voltando le spalle al sole, non le passo davvero tutte a lavorare. Viaggio nella rete, il prezioso filo virtuale che procrastina la mia incombente follia, e penso a quello che è il senso della mia vita. Sono quasi tre anni adesso che lavoro e che ho perso ogni facoltà di vivere il mondo. Se splende il sole, piove o nevica la mia vita procede indifferente: 8 ore davanti al PC. E se ci pensate bene, in totale non sono 8 ma 11 ore della mia vita, se consideriamo:

    8 ore in gabbia +

    2 ore per arrivare qui e tornare a casa +

    1 ora d’aria per il pranzo =

    ————————————————

    11 ore bruciate

    Aggiungiamo poi 7 ore di sonno e vedete mi restano appena 6 ore al giorno per procurarmi il cibo, prendermi cura di me stessa, pulire, stirare, cucinare, leggere un libro, vedere gli amici, resistere ai richiami seduttivi di altre divinità, santificare le feste, onorare la famiglia lontana, reprimere gli istinti omicidi, amare il mio fidanzato, non rubare né farmi fottere, non dire idiozie, non desiderare di aver sedotto un miliardario, bere almeno un litro e mezzo d’acqua e ingurgitare frutta e verdura, preferibilmente di stagione. Quando alle 6 esco dall’ufficio mi scapicollo per andare in palestra a sgranchirmi i nervi, stressandomi per arrivare in tempo e per tornare a casa a un’ora decente.

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