D.A. Le iniziali del mio cuore
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Info su questo ebook
Un angelo e un diavolo.
Ava e Patrick Drummond.
Due mondi agli antipodi che per un caso fortuito si avvicineranno a tal punto da non poter più fare a meno l'una dell'altro.
Lei è una giovane neolaureata aspirante archeologa, che si guadagna da vivere facendo la commessa in una libreria. Lui, compositore e pianista, nonché front man di una pop band, è capace di mandare in visibilio con un solo sguardo migliaia di fan.
Una sera, Ava mentre si reca al lavoro, trova abbandonato sotto ad una poltrona della metropolitana, un misterioso taccuino dal contenuto esplosivo.
Patrick Drummond, insofferente della sua vita da rock star, fugge spesso dalla sua gabbia dorata per mischiarsi tra la folla e ossigenarsi. Durante una delle sue fughe, perde qualcosa di molto prezioso che vuole ritrovare.
Ava e Patrick si incontreranno, si allontaneranno, si riavvicineranno in un incalzare di avvenimenti pericolosi e imprevedibili.
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Anteprima del libro
D.A. Le iniziali del mio cuore - Lucilla Rainer
Lucilla Rainer
D.A. LE INIZIALI DEL MIO CUORE
Prima Edizione Ebook 2019 © R come Romance
ISBN: 9788893470711
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
www.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Paolo Ferrari 51/c
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
La trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.
Alla mia famiglia
Lucilla Rainer
D.A. LE INIZIALI
DEL MIO CUORE
Romanzo
INDICE
Parte Prima
D.
non come Diavolo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
Parte Seconda
A.
come Angelo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Epilogo
Ringraziamenti
L’autrice
Catalogo
Parte Prima
D.
non come Diavolo
Ho inciampato nei tuoi occhi
mentre guardavo il vuoto.
E tutto è cominciato.
1
Quando esco di casa è ancora buio. Il vento gelido che soffia da nord non promette nulla di buono. Cammino svelta verso la stazione e, infreddolita, mi vado a sedere in una fila di poltrone lontana dalle rotaie, per cercare un po’ di riparo.
Lavoro in una grande libreria del centro di Londra che – a causa del neoliberismo, nonché del capitalismo imperante, sbandierato come unico antidoto alla crisi e alla povertà – è aperta al pubblico giorno e notte, nella speranza che pure gli homeless, per scaldarsi d’inverno o rinfrescarsi d’estate, finiscano dentro al negozio e con i pochi spiccioli racimolati elemosinando per strada, optino per l’acquisto del best seller pubblicizzato in vetrina, al posto del solito panino al formaggio o di un paio di mele verdi, per sopravvivere alla giornata.
A una velata critica riguardo l’orario di lavoro, accampata durante il colloquio sostenuto prima dell’assunzione, mi è stato fatto capire a chiare lettere che sono un soggetto incapace di comprendere i pilastri che stanno alla base del mercato, come pure le strategie di vendita, e il valore apportato dal marketing – che a mio parere non è altro che l’arte, o l’inganno, di vendere sabbia a un beduino del deserto. Ma per fortuna
, mi ha detto l’intervistatrice, le decisioni importanti non spettano, e mai spetteranno, a lei o a tutti quegli sciocchi di cui il mondo è pieno!
. Il destino ha voluto che non le abbia risposto e mi sia limitata ad abbassare il capo, per non cadere nella tentazione di sputarle in faccia. Grazie a quel mio silenzio, ora sono una delle tante neolaureate in lettere antiche che, in attesa del lavoro dei miei sogni, sbarca il lunario facendo la commessa. Poteva andarmi peggio, molto peggio.
Guardo l’orologio e mi rendo conto di aver perso la metro delle 5:00. Non posso fare altro che aspettare quella delle 5:25, e arrivare con circa 5-6 minuti di ritardo al lavoro. Anne, la collega che smonta alle 6:00, lo andrà a riferire a Eleanor, la responsabile. Sarò richiamata, come ho già visto succedere ad altre ragazze. Un altro ritardo e sei fuori
mi dirà la capo
della libreria, con tono sprezzante e con un certo sadico compiacimento. Se in passato avevo solo sospettato che i mezzi capi fossero peggio dei capi veri e propri, adesso ne ho la certezza matematica. Questi esseri si arrabattano al limite delle loro forze per renderti la vita invivibile e stopparti in ogni modo possibile e immaginabile. Ma il neoliberismo ha assoluto bisogno di questi Polifemi fetenti e frustrati, di cultura pressoché inesistente, che si prestano a fare da occhio del grande fratello
. Consapevole della giornata in salita che mi attende, penso con tristezza a quanto sia vicina la nostra realtà a quella descritta da Orwell nel suo 1984.
Per la fretta ho dimenticato, come al solito, i guanti a casa. Senza pensarci troppo, cerco di scaldarmi un poco infilando le dita tra il bracciolo e l’imbottitura sporca della poltrona, ma urto contro qualcosa. Cerco di capire di cosa si tratta, sfilando cautamente l’oggetto dalla fessura. È un piccolo taccuino con la copertina in morbido tessuto nero. Deve essere inavvertitamente scivolato fuori dalla tasca di qualcuno e finito proprio lì, quasi sotto al sedile. Lo apro furtivamente. Non c’è nessun nome, nessun indirizzo. Sfoglio alcune pagine scritte fitte fitte con calligrafia veloce e decisa. Leggo un paio di frasi. Sto violando la privacy – quella più sacra che ci sia – di qualcuno che non conosco, che si è fidato e confidato soltanto con quei fogli ora aperti tra le mie mani. Richiudo immediatamente il taccuino e lo rimetto dove l’ho trovato. Il proprietario verrà sicuramente a cercarlo.
*****
È sabato. Oggi cambio turno in libreria. Lavoro da mezzanotte alle sei, alla faccia della febbre del sabato sera
.
Le mie due coinquiline – Susan e Karol – sfilano in minigonna e tacco dodici davanti allo specchio attaccato alla parete del salotto – senza minimamente preoccuparsi di quanti gradi ci siano, o non ci siano, questa sera fuori dalla porta, mentre io mi preparo il caffè da portare al lavoro per evitare di addormentarmi sul bancone. Auguro loro un gigantesco in bocca al lupo, mi raccomando di non far dormire nessuno nel mio letto, ed esco per prendere la metro delle 23:00.
Non può continuare così
mi dico chiudendo la porta. La paga non è granché e il tempo libero che mi rimane è troppo poco. Non riesco a dedicarmi a ciò che vorrei, alle mie ricerche, ai miei studi. È logorante, deprimente.
E mentre cammino a testa bassa, mi chiedo se il taccuino sia ancora là, incastrato tra il bracciolo e la seduta della poltrona nella sala d’attesa della metropolitana.
Da quando l’ho scoperto, mi siedo sempre nello stesso posto e controllo ogni giorno. Con una piccola parte del cuore spero che il proprietario, passando nuovamente di lì, lo abbia ritrovato. Con la restante parte, ben più grande invece, spero che non sia così. Quindi faccio scivolare velocemente le dita sotto all’imbottitura e quando sento il tessuto soffice della copertina contro i polpastrelli, tiro un inspiegabile sospiro di sollievo. È ancora qui!
mi dico contenta.
Stanotte ho ripetuto il solito rito, ma è successo qualcosa che non so spiegare. Ho estratto il taccuino e l’ho tenuto stretto tra le mani come per infondergli un po’ di calore vitale finché non è arrivata la metropolitana. A quel punto, invece di rimetterlo al solito posto come avrei dovuto, l’ho infilato dentro alla borsa, come una ladra, e mi sono precipitata sul treno. Il cuore mi batte ancora fortissimo. Ho commesso un’azione meschina e riprovevole, ma ormai l’ho commessa.
Il turno di notte è insopportabile. Il tempo sembra non passare mai. Per quanto mi piacciano i libri, trascorrere la nottata in un ambiente con la luce al neon sparata a giorno è da neuro. È contro non solo la natura umana ma anche quella dei libri. Libreria non è sinonimo di sala operatoria. È un luogo che dovrebbe favorire – o almeno stimolare – la concentrazione con atmosfere create ad hoc: luci calde e soffuse, divanetti e poltrone disposte in modo da scimmiottare
salottini per la lettura, aree poco in vista, protette
, per consentire al lettore di stare da solo con il libro che ha scelto. Questa libreria invece, a mio parere, è nemica dei libri e dei lettori. Chi ha voglia alle tre di notte di farsi accecare da fasci di luce algida che inondano scaffali di ferro senza arte né parte?
Infilo la mano nella borsa. Oltre al thermos pieno di caffè sento la seta del taccuino. Forse stanotte non avrò bisogno di tutto il beverone che mi sono portata per stare sveglia!
Ah, dimenticavo: mi chiamo Ava.
2
Il dolore, come un martello pneumatico, mi pulsa nelle tempie. Accendo la luce. Sono le quattro del mattino. Nel mio letto c’è una ragazza, coperta solo da un lembo di lenzuolo. Dorme profondamente. Mi passo una mano tra i capelli. La solita situazione di merda. Devo aver bevuto troppo. Mi alzo e faccio appena in tempo a raggiungere il lavandino del bagno. Al terzo conato, parte del malessere è sparito. Apro un astuccio che sta sulla mensola sotto allo specchio e ingoio due aspirine. Vado in camera, sfilo il cellulare dalla tasca dei jeans ammucchiati per terra insieme agli altri vestiti e torno in bagno. Mi siedo sul bordo della vasca e chiamo Jas.
«Che c’è Patrick?»
«La ragazza che sta a letto con me… vieni a prenderla. Falla uscire dalla mia stanza. Ho bisogno di stare solo.»
Jas riattacca, non dopo aver sospirato profondamente. È così tutte le volte. Prima il concerto, poi il party, qualche drink per scaldarmi, e infine il sesso.
"Sei un bastardo mi ripete mia sorella, ma questa ormai è diventata la mia vita da quando sono il frontman dei Four and You. Una vita dorata da incubo. Vivo in una gabbia, come un animale dello zoo che tutti vanno a vedere e a fotografare. La mia è una esistenza virtuale, tranne quando - con qualche piccolo escamotage - riesco a sfuggire alla sorveglianza. E con un cappuccio in testa o una parrucca, degli occhiali da sole extra large e dei vestiti informi, mi immergo nella folla. Cammino per le strade alla luce del sole come fanno tutti, come facevo sempre anche io prima di tutto questo. Mi compro un panino, entro nei negozi, mi siedo su una panchina di qualche parco a far finta di leggere il giornale e mi guardo intorno. L’ultima fuga è stata una settimana fa. Il nostro manager è andato su tutte le furie e mi ha dato l’ultimatum:
un’altra bravata del genere e vi pianto in asso tutti e quattro". Sottovaluto il pericolo, sono un incosciente, potrei essere assalito o addirittura rapito, ha detto.
Sento la voce della ragazza di là nella mia stanza che protesta e non vuole andarsene. «Dov’è Patrick?» continua a ripetere. Jas ci sa fare, e in un modo o nell’altro riuscirà a metterla su un taxi che la riporti a casa sana e salva. Non ha mai fallito.
Ha ragione mia sorella: sono un bastardo. Non riesco neppure a ricordarmi il suo nome. Ricordo solo che aveva un bel culo e così le ho offerto da bere. Sono un bastardo, anche se prima di salire in camera da letto ero stato chiaro con lei: solo sesso tra due adulti consenzienti che vogliono divertirsi un po’. Nessun legame. Nessun domani. Nessuna promessa. Questa è la frase che ripeto immancabilmente a tutte le ragazze per sentirmi meno in colpa, per far finta di avere la coscienza un po’ meno sporca. Ma Gillian ha ragione: se non fossi tua sorella probabilmente anche io vorrei trascorrere una notte a letto con te. Quale ragazza con tutti gli ormoni a posto, non lo vorrebbe? Sei il loro idolo, il ragazzo perfetto, quello dei loro sogni, attento, sensibile, comprensibile… e poi scrivi tutte quelle frasi a effetto che non so da dove le tiri fuori… ma come fai a inventartele? Sei proprio tu che le scrivi o lo fa qualcun altro e tu ci metti i soldi e la firma?
.