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La caduta: Edizione italiana
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E-book356 pagine4 ore

La caduta: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Volare mi spaventava.
Ma lui mi faceva volteggiare.
Dopo anni passati a scalare il successo nel mondo dell’industria musicale, finalmente avevo tutto ciò che potessi desiderare.
Eppure, mi ritrovavo ad affrontare la vita da solo.
Il capitano Evan Roth era l’uomo che non mi ero aspettato.
Alto, bruno, misterioso… Etero.
Eravamo entrambi irrimediabilmente danneggiati e in cerca di qualcosa di tanto sfuggente che non eravamo nemmeno certi esistesse.
Quando due anime spezzate si scontrano a mezz’aria, la caduta è un dato certo.
Ma non mi sarei mai aspettato di desiderare con tanto trasporto il momento in cui saremmo precipitati.
LinguaItaliano
Data di uscita27 dic 2021
ISBN9791220701914
La caduta: Edizione italiana
Autore

Aly Martinez

Aly Martinez is a USA Today bestselling author originally from Savannah, Georgia. Never one to take herself too seriously, she enjoys cheap wine, mystery leggings, and baked feta. She passes what little free time she has by reading anything and everything she can get her hands on. She currently resides in South Carolina with her husband and four young children.

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    Anteprima del libro

    La caduta - Aly Martinez

    1

    HENRY

    La pioggia cadeva fitta. Meno di mezz’ora prima, quando ero salito a bordo del mio jet privato, era rada. Adesso riuscivo a malapena a scorgere l’aeroporto fuori dal finestrino.

    «No, tesoro, non è un problema. Ma mi sarebbe piaciuto incontrarti finché mi trovavo in città. Non ci vediamo da un sacco di tempo. Tutto qui,» dissi, passandomi il telefono nell’altra mano.

    Affondai l’indice nel bicchiere ormai vuoto, che aveva contenuto il mio terzo Gin Tonic, e mescolai in cerchio il ghiaccio, osservandolo mentre si scioglieva.

    La voce all’altro capo della linea, roca e assonnata, non sembrava appartenere più alla bimba di cinque anni che avevo conosciuto. Ma, ne erano passati sedici, e nemmeno Robin Clark le assomigliava più.

    «Lo giuro, credevo che la festa per il bambino fosse il prossimo fine-settimana. Ho fatto confusione con le date. Mi dispiace tantissimo,» mentì. Lo faceva spesso.

    «Non preoccuparti, è tutto a posto,» risposi, fingendo di crederle. Cosa che io facevo spesso.

    E ogni volta che succedeva, morivamo dentro un altro po’.

    «Ti voglio bene, Biscottino,» mi sussurrò lei.

    Non ero più in grado di dire se si trattasse di una bugia oppure no.

    Una cosa però era vera. «Anch’io te ne voglio, piccola.»

    Per svariati secondi restammo in silenzio. Nessuno di noi aveva voglia di riattaccare, ma non sapevamo che altro dire. C’era un milione di parole sospese tra di noi, nessuna delle quali avrebbe risolto niente. Dio solo sapeva che le avevo già pronunciate tutte nel corso degli ultimi cinque anni. Eppure, Robin non ne aveva sentita neanche una. Non veramente.

    Avvertii una fitta al cuore; deglutii e ingoiai il rospo. «Ascolta, sto per decollare. Sarò a Los Angeles per uno spettacolo la prossima settimana. Perché non vieni a trascorrere qualche giorno con me?» Era un invito sincero.

    Non ricevetti una risposta altrettanto sincera.

    «Ci sarò!»

    «Chiederò a Carter di organizzare tutto. Domani pomeriggio, appena tornerò, ti darò i dettagli. Non posso fermarmi a lungo, forse per una cena veloce o qualcosa del genere.»

    «Perfetto.»

    Non ci attardammo nei saluti. Qualche secondo più tardi spensi il cellulare e tornai a guardare fuori, in direzione della pioggia scrosciante, desiderando essere ovunque tranne che a bordo di un aereo.

    Carter, il mio responsabile della sicurezza, si sistemò sul sedile accanto al mio e aprì l’ultimo numero di Sports Illustrated.

    Mi si serrò lo stomaco quando, con un sobbalzo, l’aereo iniziò ad allontanarsi dal gate.

    «Di’ a Levee che la amo, d’accordo?» gli ordinai, senza staccare gli occhi dal terminal che scompariva in lontananza.

    «Rieccoci,» mugugnò lui, chiudendo la rivista e rivolgendo la sua attenzione su di me.

    «Puoi farmi un favore enorme? Se non dovessi sopravvivere, assicurati che tengano la bara aperta e che il mio cadavere sia vestito…»

    «Di blu. Ti fa risaltare gli occhi,» concluse per me.

    «Giusto, ma…»

    «Ma avrai gli occhi chiusi, quindi sarebbe meglio il verde. Dona di più alla tua carnagione.»

    «Sì, ma…»

    «Ma la tua carnagione tenderà al color cenere, dato che sarai morto e tutto il resto. Quindi opteremo per un elegante completo nero. Non passa mai di moda.» Inarcò un sopracciglio in un’espressione incredula.

    Sollevai il bicchiere e feci tintinnare il ghiaccio verso Susan, la mia hostess personale. Era impegnata ad allacciarsi la cintura per il decollo, ma mi rivolse un caldo sorriso materno, come a dire che mi aveva visto.

    «Forse, allora, abbiamo già avuto questa conversazione,» osservai rivolto a Carter.

    Lui alzò gli occhi al cielo. «Ogni volta che voliamo.»

    Sbuffai, ma non mi presi il disturbo di dare spiegazioni. Sapeva esattamente quanto fossi terrorizzato dagli aerei. Era presente il giorno in cui tutto era cominciato.

    Si potrebbe pensare che, dopo aver viaggiato in giro per il mondo per anni, un semplice volo di due ore non rappresentasse un problema. Ma il battito cardiaco accelerato e i palmi delle mani sudati dicevano il contrario.

    Negli ultimi otto anni la mia carriera era decollata, facendomi passare da youtuber abbastanza popolare a re dell’industria musicale, dopo che io e Levee avevamo lanciato Dichotomy, il nostro album di debutto autoprodotto. Io avevo composto metà delle tracce, lei l’altra, ed era arrivato in cima alle classifiche. Non c’era stata stazione radio del Paese che non avesse trasmesso la nostra musica. Nel giro di qualche settimana, le nostre carriere erano esplose, costringendo il resto del mondo a notarci.

    Gli anni successivi erano stati frenetici. Grammy, contratti discografici, fama, fortuna, stabilità. Avrei potuto ritirarmi sei mesi dopo aver cominciato e non desiderare mai più nient’altro. Beh, non era del tutto vero. La cosa che più desideravo non avrei mai potuto comprarla.

    Non ero nemmeno sicuro che sarei mai stato in grado di guadagnarmela.

    Era qualcosa di così raro che temevo che neanche esistesse davvero.

    L’amore. Incondizionato. Incrollabile. Eterno. Amore.

    L’avevo donato a due sole persone nel corso della mia vita.

    Ed ero stato contraccambiato soltanto da una.

    Sono nato omosessuale. Non c’è mai stato un attimo nella mia vita in cui mi sia sentito, anche remotamente, attratto dalle donne. Se così fosse stato, avrei sposato Levee Williams nel preciso istante in cui avevo posato lo sguardo su di lei. Perché avevo capito, fin da subito, che lei sarebbe stata la cosa migliore che potesse capitarmi.

    E lo era stata.

    Ero andato al college a spese dello Stato, e avevo iniziato a vivere da solo a diciotto anni, armato solo di una chitarra e una mente piena di testi mediocri.

    Per molti versi, la solitudine mi faceva sentire meglio.

    Per molti altri però, peggio.

    Per fortuna, poche settimane dopo l’inizio della mia nuova avventura, in un bar del posto, durante la serata dei dilettanti, avevo incontrato Levee. Lei non lo avrebbe mai ammesso, ma ci aveva provato con me subito dopo la sua esibizione. Era stato chiaro che avesse frainteso le occhiate intense che le avevo lanciato mentre cantava. Ma nel momento in cui i nostri sguardi si erano incrociati, e io avevo visto i suoi gentili occhi castani illuminarsi, avevo capito che, gay o etero, io dovevo conoscerla. Quella sera, tra molte birre e più risate di quante ne avessi mai fatte, legammo grazie alla musica. Meno di due settimane più tardi andammo a vivere insieme. Parte del mio cuore si era legato al suo in un modo che non avevo mai sperimentato prima. Senza genitori né parenti, nemmeno una matrigna che provasse dell’affetto per me, avevo passato la maggior parte della mia vita in cerca di un senso di appartenenza che Levee mi aveva dato solo pochi minuti dopo avermi conosciuto.

    Amavo con tutto il cuore quella donna folle. E nel corso degli anni, quando mi ero reso conto che lei mi ricambiava, quel sentimento era cresciuto

    Levee non era solo la mia migliore amica. A parte Robin, era l’unica famiglia che avessi mai avuto.

    Il che significava che era la mia unica vera famiglia.

    Avevo sentito dire che Dio non andava precisamente pazzo per l’omosessualità ma, andiamo, quale razza di masochista inviava a un gay un’anima gemella munita di tette e vagina?

    Considerando, oltretutto, che era sposata con Sam Rivers e incinta di sei mesi di sua figlia?

    Nel corso degli anni, avevo cercato di frequentare qualcuno, ma i pochi uomini che trovavo interessanti mi avevano sempre considerato un impegno provvisorio. Andavo bene per realizzare le loro fantasie segrete di una notte. Ma finiva lì. Ecco cosa succedeva ad avere un debole per gli etero. Tuttavia, non riuscivo a smettere. Non si trattava di sesso. Ero una celebrità, quindi c’erano un sacco di uomini che facevano a gara per ricevere le mie attenzioni. Trovare un culo era facile. Ma lo sballo che provavo con un etero, nel sapere che pur di passare una notte con me era disposto ad andare contro la propria programmazione genetica, valeva ogni minuto del mio dolore.

    Quegli incontri proibiti erano come una droga.

    E io come un tossicodipendente.

    La caccia alla perfetta combinazione tra bruta mascolinità e timida curiosità.

    Gli attacchi e le provocazioni; farli eccitare al punto che non vedevano l’ora di togliermi i vestiti di dosso.

    Il senso di vittoria, quando alla fine cedevano, arrendendosi all’unico desiderio che non avevano mai preso in considerazione prima di finire nel mio mirino.

    Era quello lo sballo.

    A cui però seguiva subito la caduta.

    Inclusa l’inevitabile spirale discendente quando si rendevano conto di ciò che avevano fatto.

    Qualcuno perdeva la testa e mi ricopriva di insulti e minacce; come se io in qualche modo avessi lanciato su di loro un incantesimo, così da far finire il loro uccello nella mia bocca per magia. Altri mostravano vergogna mentre raccoglievano i propri vestiti, e poi correvano fuori dalla stanza senza nemmeno voltarsi indietro. Altri ancora si sballavano proprio come me e tornavano una seconda volta, smaniosi di averne di più.

    In un modo o nell’altro, però, se ne andavano tutti.

    Sempre.

    Avevo smesso di abbattermi quando avevo riconosciuto che quegli incontri non erano altro che una droga.

    Anche se avevo avuto la mia buona dose di partner, non ero affatto facile. Non concentravo le mie doti da seduttore esperto su qualunque etero mi attraversasse la strada. Sarebbe stato uno sforzo inutile. Ero bravo, su quello non c’erano dubbi. Ma gli uomini non cadevano nudi nel mio letto, implorandomi di prendere i loro corpi in modi che non avrebbero mai dimenticato. Almeno, non gli uomini che desideravo. Occorrevano pazienza e dedizione per raggiungere lo sballo.

    Avevo passato due anni a cercare di infilarmi nella camera da letto di un certo quarterback della National Football League.

    E ne era valso ogni singolo secondo.

    O almeno così mi ero detto, quando il giorno seguente lui mi aveva cancellato dalla sua vita, strappando via un altro pezzo della mia anima.

    Forse dopotutto ero una puttana.

    Ma avevo provato ad avere una relazione e non aveva funzionato.

    Una volta avevo regalato il mio cuore a un uomo. E dopo qualche mese, lui me lo aveva restituito.

    Quando se n’era andato, avevo provato un dolore immenso. E, due mesi più tardi, mi aveva distrutto vederlo sposare una donna della quale sapevo che non era innamorato.

    No. Non era vero. Quello di cui lui non era innamorato ero io.

    Era un motivo ricorrente nella mia vita, nonché la ragione per cui avevo tanta fortuna come cantautore. Era difficile dire povero me quando milioni di fan adoranti si comportavano come se fossi un dio sceso sulla terra.

    Mentre Levee combatteva con il peso della fama, io prosperavo sotto le luci della ribalta. Sul palcoscenico ero vivo. E dato che non c’era nessuno a casa ad aspettarmi, avevo dedicato anni alle tournée. Il ruggito della folla mi riempiva di una tale felicità che temevo il giorno in cui avrei dovuto fermarmi.

    In quel preciso momento, mentre serravo il bracciolo con le nocche sbiancate, il jet accelerò lungo la pista per sollevarsi in cielo.

    «Merda. Merda. Merda,» bofonchiai e avvertii un vuoto allo stomaco, quando il carrello rientrò con un rumore sordo.

    «Va tutto bene,» commentò Carter in tono assente.

    Non andava bene per niente.

    «Sto per vomitare,» gemetti.

    Senza staccare gli occhi dalle pagine della rivista, lui mi srotolò davanti una busta per il vomito e me la porse.

    «Grazie,» risposi con finta riconoscenza.

    «No problem. Adesso fa’ un respiro profondo e cerca di rilassarti. Arriveremo in men che non si dica.»

    L’aereo assunse una posizione orizzontale e lo stesso fece il mio stomaco.

    Con un sospiro profondo, lasciai ricadere il capo contro il poggiatesta. «Avremmo dovuto prendere il pullman.»

    «Non c’era tempo. Il tuo culo dev’essere su un palco tra quattro ore. Non avremmo dovuto guidare fino a San Francisco.»

    «Ne abbiamo già discusso. Non avevo intenzione di perdermi la festa per la bambina.»

    Lui bofonchiò, sistemandosi sul sedile. «Levee e Sam avrebbero capito, credo.»

    Strinsi gli occhi e mi voltai per scoccargli un’occhiataccia. «Vedi di non cominciare. Avrebbero capito alla perfezione. Questo non cambia il fatto che io volevo esserci.»

    La tournée era stata programmata con oltre un anno di anticipo. I biglietti erano andati esauriti in meno di cinque minuti. Tutto quello però, aveva cessato di avere importanza quando avevo scoperto che la madre di Sam aveva organizzato un baby shower per Levee. Avevo pochissime priorità nella vita. Ed esserci per Levee era una di quelle.

    Susan raggiunse il mio sedile. «Posso portarle un altro drink, signor Alexander?»

    «Grazie a Dio. Sì!» Sollevai il bicchiere nella sua direzione.

    «Nessun problema.» Spostò nervosamente lo sguardo su Carter. «Possiamo scambiare una parola?»

    Lui si slacciò la cintura e mi oltrepassò. I due si accalcarono dietro al piccolo mobile bar antistante, io però ero concentrato sulla mini bottiglia di gin che Susan stava svuotando nel mio bicchiere. Sapevo che avrei dovuto andarci piano con l’alcol. Salire ubriaco su di un palco non era certo una novità per me, l’importante tuttavia era non biascicare le parole o incespicare sui testi.

    Proprio mentre stavo per dirle di non versare, l’aereo ebbe un repentino sussulto, facendo schizzare di nuovo il mio nervosismo alle stelle. Risucchiai l’aria nei polmoni, mentre Susan e Carter incrociavano il loro sguardo preoccupato con il mio.

    Già. Posso tornare sobrio più tardi.

    Schioccando le dita, ordinai: «Da bere.»

    Susan mi rivolse un sorriso colmo di comprensione, quindi diede un’occhiata impaziente a Carter. Se non fossi stato sul punto di strapparmi i vestiti di dosso e trasformarmi nell’Incredibile Hulk, mi sarei chiesto perché bisbigliassero.

    «Glielo dirò io,» cedette l’uomo con un sospiro, togliendole di mano il gin e poi muovendosi nella mia direzione.

    Con mani tremanti, presi il drink e ne bevvi un sorso, godendomi il rilassante bruciore che mi pervase il petto.

    «Dirmi cosa?» domandai, prima di sistemare il bicchiere nell’apposito sostegno.

    Carter lo indicò con un cenno del mento. «Perché prima non lo finisci?»

    Il liquido chiaro schizzò oltre i bordi quando, all’improvviso, l’aereo si piegò verso sinistra.

    «Idea eccellente,» commentai.

    Ancora una volta, Carter sollevò lo sguardo verso Susan, in una specie di conversazione silenziosa.

    Lei premette insieme le labbra.

    Tracannai il resto del liquore, spostando l’attenzione tra i due: Susan appariva molto nervosa, e Carter parecchio infastidito.

    «Okay, cosa diavolo vi prende?» volli sapere.

    «Il pilota ha dei dolori al petto,» annunciò lui.

    Non mi sarebbe bastato tutto il gin del mondo.

    Strinsi la cintura di sicurezza e ansimai. «È svenuto? Stiamo precipitando?»

    Il viso di Carter rimase impassibile.

    «Certo che no!» intervenne Susan.

    La rassicurazione non fu in grado di tranquillizzarmi del tutto perché, di punto in bianco, il meccanismo magico che manteneva la cabina pressurizzata smise di funzionare. Se avessi dovuto credere al dolore che avvertivo nei polmoni, allora nell’aereo non era rimasto più ossigeno. Stavamo per morire tutti.

    La pesante zampaccia di Carter mi atterrò sulla schiena e mi spinse giù il torso, costringendomi a infilare la testa tra le ginocchia.

    «Calmati e respira. Non stiamo per precipitare. Il copilota ci sta riportando a San Francisco. Tra pochissimo saremo a terra.»

    La morsa che avvertivo nel petto non si allentò.

    Annuii, ancora piegato in due. Avevo sentito le sue parole, ma non mi davano alcuna consolazione.

    Susan si inginocchiò accanto a me. «Va tutto bene, Henry. Il vice-capitano Baez è un pilota incredibile. Non ti accorgerai nemmeno della differenza.» Mi massaggiò la schiena.

    In quel momento provai un forte imbarazzo, misto a una sensazione di impotenza. Ma non riuscivo a riprendermi. Il mio corpo era fuori controllo. Non ero niente di più che una marionetta prigioniera delle mie paure.

    Allungai un braccio e afferrai disperatamente la coscia di Carter, cercando un modo per ancorarmi.

    Quell’uomo era un bestione, alto un metro e novantacinque per più di centotrenta chili. Con i corti capelli neri e gli occhi quasi del medesimo colore, era una guardia del corpo spaventosa. Non c’era niente di morbido o gentile in lui. Ma lavorava per me da quasi un decennio. Sapeva come reagivo, anche se non gli piaceva.

    Sentii una pacca sulla mano e poi il fruscio della rivista che si apriva.

    «Starai bene,» sentenziò lui.

    Non ero certo che avesse ragione.

    2

    EVAN

    «Resta.» La afferrai per il braccio.

    Nikki tirò su con il naso, gli occhi ancora lucidi. «Non posso.»

    Alzandomi in piedi, mi allontanai dal divano e la seguii verso la porta. «Nikki, ti prego.»

    «Non posso. Io ti amo, Evan. Ti amo,» sottolineò, in caso mi fossi perso le ultime volte in cui l’aveva detto. «Mi dispiace che tu non provi lo stesso.»

    Chiusi gli occhi e scossi la testa. Sapevo che sarebbe successo. Me lo aveva fatto capire per settimane… era stata sul punto di dirmelo ma, quando io avevo cambiato improvvisamente argomento, si era spaventata e si era tirata indietro. Quel giorno però mi aveva colto di sorpresa. E io non avevo saputo cosa risponderle. Ti voglio bene non era proprio la stessa cosa.

    Io e Nikki ci frequentavamo da sei mesi. Dormivamo insieme da sette e, ufficiosamente, vivevamo insieme da due. Ma, fino a trenta secondi prima, non ci eravamo mai detti quelle due magiche parole.

    A dire la verità, le avevo pronunciate una volta sola in tutta la mia vita. E le cicatrici di quell’errore ancora mi ricoprivano il cuore. Nikki non sapeva della loro esistenza, anche se ne pagava le conseguenze. Non avevo intenzione di mentirle solo per non ferire i suoi sentimenti. Il mondo era già abbastanza ipocrita senza doverci aggiungere anche le emozioni fasulle.

    Le balzai di fronte, impedendole di raggiungere l’uscita. «Non andartene così.»

    «Bene. E poi? Vuoi che resti a casa tua, sapendo che non proverai mai ciò che io provo per te?»

    «Non ho detto che non succederà.» Nel profondo, ne avevo la certezza, ma immaginai che l’informazione non mi sarebbe stata di alcun aiuto.

    Nikki era una donna incredibile. Bellissima. Dolce. Divertente. Intelligente. Adoravo passare il tempo con lei. Tornare a casa dopo un lungo volo e sapere che l’avrei trovata lì, ad aspettarmi. Amavo la sensazione del suo corpo sotto il mio.

    Però non ero innamorato di lei.

    Tra noi c’era un’innegabile chimica, che però non mi travolgeva. Il pensiero di Nikki non mi consumava. Il desiderio non mi faceva ardere.

    Nikki era la scintilla, ma non il fuoco.

    Forse però l’amore non doveva essere un incendio che bruciava senza controllo, divorandoti, finché di te non restava niente, per nessun altro.

    Ma era l’unico che avessi mai conosciuto.

    Forse il grado di intimità che avevo con Nikki era vero amore. Forse, invece, era proprio davanti ai miei occhi e io avevo delle aspettative troppo alte. Forse stavo per vedere la cosa migliore che mi fosse mai capitata dai tempi del college uscire dalla mia vita, solo perché non faceva abbastanza male da poter essere amore.

    Forse.

    Ma il ghiaccio che imprigionava il mio cuore mi diceva che non era così.

    Avevo bisogno delle fiamme. Del fuoco. Di una esplosione incontestabile.

    Il mento di Nikki tremò, mentre lei piegava le labbra in un mezzo sorriso. «Posso trasferirmi da te, allora?»

    Sbattei le palpebre in preda alla confusione. «Nik, praticamente vivi già qui.»

    Lei mosse un passo nella mia direzione. «No. Voglio dire… posso vivere con te, Evan? Non in effetti. Non in pratica. Posso pagare le bollette e lasciare il mio appartamento?»

    Sentii il battito del cuore impennarsi. Non mi accorsi di essere indietreggiato finché lei non mi si avvicinò.

    «È come pensavo,» sussurrò, trattenendo nuove lacrime. «Togliti, Evan. Devo andarmene.»

    «Aspetta.» Feci un passo di lato per fermarla. Che cazzo stavo combinando? Lasciala andare, idiota.

    Non appena la fissai negli occhi, cerchiati di rosso, avvertii il peso del senso di colpa nelle viscere. Analizzata ogni possibile scusa, provai a trovare le parole giuste per farla restare, ma senza doverle mentire. Tutto ciò che desideravo era ricambiare i suoi sentimenti. Avrei venduto l’anima pur di avvertire di nuovo quel fuoco.

    Ma non lo avevo mai provato con Nikki.

    Stavo soltanto rimandando l’inevitabile. «Dobbiamo almeno parlarne. Tornerai?»

    Lei fece un sospiro tremante. «Non lo so.»

    Passandomi una mano tra i capelli, le dissi la cosa più sincera che avessi da offrirle: «Non voglio che te ne vada.»

    Nikki mi prese il volto tra le mani e mi scrutò negli occhi. «Nemmeno io.» Il dolore che aveva impresso sul viso diceva che quella era la verità. Mentre la rigida determinazione del suo corpo rivelava che sarebbe successo comunque.

    «Nik, avanti,» dissi, come un cretino.

    Il suo non era un comportamento irrazionale. Aveva appena capito che non avrebbe mai ottenuto ciò che desiderava da me. Eppure eccomi lì, a chiederle di restare comunque.

    «Lasciami andare, Evan,» ansimò. Non mi sfuggì il significato più profondo della richiesta.

    Avvertii un dolore lancinante. Ma dato che non potevo mentire né contraddire ciò che avevo sempre provato, non avevo altra scelta.

    Lasciai ricadere la mano. Qualche secondo più tardi, lei se n’era andata.

    «Stronzo,» ringhiai, tirando un pugno contro la porta d’ingresso.

    Il rumore dell’auto di Nikki che usciva dal vialetto mi rimbombò nelle orecchie… e nel cuore.

    Lei era la cosa migliore che mi fosse capitata negli ultimi anni. Tuttavia non era stata sufficiente. Niente lo era, e quella cosa mi esauriva.

    Meglio che le cose fossero andate in quel modo.

    Anche se non mi sembrava meglio.

    Faceva un male d’inferno.

    Estrassi il cellulare dalla tasca e le scrissi un messaggio, informandola che mi avrebbe trovato lì quando fosse stata pronta a parlare. Se voleva andarsene, non potevo fermarla. Ma non avrei permesso che le cose finissero così. Glielo dovevo.

    Venti minuti più tardi, stavo guardando una partita di football in televisione. Tuttavia la mia mente era altrove.

    A Nikki.

    Al mio passato.

    Alla mia vita.

    Al mio futuro.

    Tutto perduto.

    Quella mattina mi ero svegliato soddisfatto. Non felice. Ma senza niente di cui lamentarmi.

    In quell’istante, tutto ciò che provavo era inquietudine.

    Il cellulare squillò e subito lo presi dal tavolo. «Nik?» domandai, senza nemmeno guardare lo schermo.

    «Roth? Sono Jackson. Mi servi all’aeroporto tra venti minuti.»

    «Mi spiace, signore. Sono libero, oggi.»

    «Non più. Ho un jet privato, una rockstar che non ha tempo da perdere e nessun pilota.»

    Mi misi seduto dritto e domandai: «Cos’è successo a Craig? Credevo si occupasse lui di quel volo.»

    Lui sospirò. «Se ne occupava. Dolori al petto. Baez ha riportato indietro l’aereo. Ascolta, Craig sta bene. Ma ho bisogno di un capitano in cabina entro trenta minuti, o ci vorranno ore prima che il controllo aereo possa trovarci un altro buco. Ora vestiti e porta qui le chiappe, altrimenti sei licenziato. Non posso assolutamente permettermi di perdere questo cliente. Possiede un suo jet e si appoggia esclusivamente a noi. Più o meno come dire: soldi gratis. Oh, e il tipo ha una paura matta di volare. Ho bisogno che tu faccia filare tutto liscio, lassù.»

    Roteai gli occhi. Avrebbero potuto piovere proiettili dal cielo e io sarei comunque riuscito a far atterrare quell’affare su un cazzo di francobollo. Non mi serviva un promemoria su come volare.

    «Certo. Tutto liscio

    «Dico sul serio, Roth. Togli quel tuo culo arrogante dal piedistallo e fammi un favore.»

    Mentre riflettevo sulla mia decisione, lanciai un’altra occhiata alla porta, come se Nikki avesse potuto precipitarsi dentro da un momento all’altro. Non lo avrebbe fatto. Prima o poi sarebbe dovuta tornare a prendere la sua roba, ma non quel giorno. Inutile aspettarla. Volare era l’unica cosa che potesse farmi sentire meglio.

    Mi alzai dal divano e mi avviai in direzione della camera da letto. «Ci sarò.»

    Avevo fatto una corsa e poi mi era toccato aspettare.

    Ero arrivato all’aeroporto con largo anticipo ma, a causa delle pesanti piogge nella zona, tutti i voli avevano subito dei ritardi. Il traffico aereo era indietro di almeno un’ora.

    Desiderai essermi fermato per strada a prendere qualcosa da mangiare. Stavo morendo di fame, ma nel minuscolo aeroporto privato non c’era esattamente un’abbondanza di ristoranti.

    Infilai qualche moneta nel distributore automatico, feci la mia scelta, quindi tornai a controllare il cellulare.

    Nikki non aveva risposto al messaggio. E più il tempo passava, più temevo che non lo avrebbe fatto.

    Non se è furba.

    «Merda,» borbottai tra me e me, mentre la mia cena si incastrava dietro il vetro.

    All’improvviso, un grido strappò la mia attenzione dal distributore. «No!»

    Un uomo alto, con i capelli biondi e scompigliati, mi fissava dall’estremità opposta del corridoio. Teneva le mani strette a pugno lungo i fianchi, ma aveva gli occhi sbarrati in un’espressione di assoluto terrore.

    «No,» ripeté in un sussurro angosciato.

    Inarcai un sopracciglio.

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