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#Scrittasullapelle
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E-book157 pagine2 ore

#Scrittasullapelle

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Info su questo ebook

#scrittasullapelle racconta dell’amore che la protagonista, Andrea, prova per Elena.
Il romanzo si apre in medias res, con Andrea sofferente dopo una notizia stravolgente, Dice semplicemente alla sua migliore amica “é incinta” senza specificare chi. Si passa alla descrizione della quotidianità di Andrea con una donna, Cinzia, più grade di lei. Si apre un grosso flashback, la parte dominante del libro, in cui si narra del grande amore della protagonista: Elena. All’interno di questa parte si racconta della vita di Andrea, della sua omosessualità, dei suoi viaggi, della scuola, delle sue amicizie, delle prime volte, dei tradimenti e di un altro amore parallelo, quello con Maria.
Si ritorna a Cinzia per poi passare alla parte finale del romanzo, ambientata nel futuro.
In tutta la vicenda fa da sfondo Sophia, migliore amica di Andrea.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2018
ISBN9788894981001
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    Anteprima del libro

    #Scrittasullapelle - Silvia De Paola

    essere.

    Prologo

    Novembre 2014

    Ero ferma al semaforo rosso. Pioveva forte, ininterrottamente, le nuvole scure, alte nel cielo, non promettevano nulla di buono. Le gocce d’acqua uniformi picchiettavano sul vetro della mia auto, mentre i tergicristalli con un ritmo veloce e costante le toglievano dalla mia visuale.

    Era una giornata grigia, cupa, le case sembrano sporche, l’acqua lasciava un alone sulle facciate che sui colori chiari, soprattutto, dava un macabro contrasto. Il traffico era lento, tutto aveva perso la sua vitalità, solo la luce dei fulmini ogni tanto risplendeva nella penombra.

    Io, spettatrice in un paesaggio di provincia, immobile in una macchina che isolava i rumori esterni, ma amplificava tutto ciò che avevo dentro. Pensavo e non volevo. Pensare poteva spingermi a ragionamenti logici che avrebbero potuto modificare la mia decisione.

    Verde. Dovevo solo pensare a mettere la prima e ricordarmi la strada. Ero distratta e assorta. Non vedevo bene, i miei occhi erano sporchi di lacrime di sangue.

    Parcheggiai, alzai il cappuccio del giubbotto e chiusi la macchina. Camminai per qualche metro, feci un respiro profondo e entrai.

    «Buongiorno, come posso aiutarla?»

    La voce era lontana, come se sentissi l’eco lontana di quella voce calda, sconosciuta.

    «Vorrei un biglietto per il primo volo disponibile per New York, diretto, se possibile.»

    La signorina con la camicetta rossa mi guardò stranita. Il rosso, il cuore, le labbra…mi persi. Non capiva l’urgenza di quella prenotazione.

    Pagai con la carta di credito e tornai all’auto, accesi la radio.

    Non riesco a guidare senza la musica a tutto volume.

    Suonava qualcosa, ma non ricordo che canzone fosse.

    Di quei momenti vivevo solo le sensazioni, non le azioni.

    Cosa dovevo fare?

    La valigia?

    Il passaporto era valido? E la mamma? Cosa avrebbe detto mia madre?

    Guardai le mani strette al volante e notai il mio bracciale al polso. Da quando me lo aveva regalato non l’avevo mai tolto, era diventato il mio portafortuna; quando lo guardavo ricordavo di non essere sola che c’era sempre qualcuno accanto a me. Era semplice, in acciaio, come piacciono a me. Lei conosce i miei gusti. Aveva dei pendenti, uno per ogni occasione, guardai quello traforato con incisa una farfalla, simbolo di rinascita. Ricordai il bigliettino che lo accompagnava: "Con l’augurio che tu possa ritornare ad essere felice. Tua Sophia." Il cervello mi mandò un impulso, mi parve positivo.

    Pensai a Sophia.

    Sapevo che era casa, non quello che stava facendo. Tanto non dovevo avvisarla del mio arrivo. Tra noi c’era e c’è un rapporto istintivo, essenziale.

    Aprì la porta e mi guardò come solo lei mi guarda, i piccoli occhi di ghiaccio cosparsi di nero carbone. Scoppiai a piangere.

    Mi strinse e non disse niente. Strano.

    «Vado via, devo andarmene» dissi singhiozzando.

    «Le cose si risolvono, Andrea, ci sono io con te.»

    «Lo so, ma questo è troppo.»

    «Questo cosa?»

    «Sophia…»

    «Sì?»

    «Sophia…lei è incinta.»

    Capitolo 1

    Estate 2015

    Tornavo dal solito lavoro alla libreria nella monotonia dei miei orari, quando squillò il telefono.

    «Tesoro, sono io.»

    «Ciao, Cinzia, cucciola, non ti sento bene, sono in metropolitana.»

    «Vieni da me? È qualche giorno che non ci vediamo.»

    «Aspetta, ti richiamo io.»

    Avevo riappeso cogliendo solo qualche parola, ma avevo capito che voleva vedermi. Ormai la conoscevo, era una donna sola, aveva bisogno di contatto, di coccole.

    La richiamai appena uscita dalla metro.

    «Eccomi.»

    «Allora?»

    «Allora cosa? Non ho capito niente prima.»

    «Vieni o no?»

    Lei era così, se non l’accontentavi subito si infastidiva, io lo sapevo e mi piaceva stuzzicarla, farla arrabbiare, ma conoscevo il limite, quando fermarmi.

    «Sì, lo sai, appena posso ci vediamo. Arrivo tra un’oretta, così prima passo da casa.»

    «Perché tra un’ora?»

    «Te l’ho detto, passo da casa.»

    «Uffa, devo sempre aspettarti.»

    «Ma sì, un’oretta, due al massimo.»

    «Va bene, ci vediamo direttamente stasera.»

    Ero già arrivata al suo limite. Cambiai gioco.

    «Non ti arrabbiare, amore, arrivo subito, va bene?»

    «Vedi tu, fai come vuoi.»

    Faceva l’arrabbiata per avere doppia dose di coccole, lo sapevo, ma l’assecondai.

    Davanti all’uscita della metro c’era una pasticceria rinomata per i suoi buonissimi dolci. Entrai per prendere qualcosa e farmi perdonare. Mille profumi mi accolsero: cioccolato, frutta, caffè. Andai alla cassa e chiesi decisa una torta cioccolato e pera. Era la sua preferita. L’avremmo mangiata insieme davanti a una tazza di tè o dopo cena, tanto sapevo che mi avrebbe chiesto di restare per la notte. La torta emanava il suo profumo all’interno dell’abitacolo e mi ricordava lei. Quante volte l’avevamo cucinata insieme.

    Qualche volta sono entrata in pasticceria a prenderne una fetta quando non ci vedevamo da troppo tempo.

    Arrivai e lei disse che mi stava aspettando. Lo diceva sempre. Però ogni volta che entravo la sorprendevo indaffarata tra mille lavori, tutti iniziati e mai portati a termine. In quel momento era intenta a cercare il posto giusto per appendere delle fotografie incorniciate in piccoli quadretti. Sul divano c’era una cesta zeppa di vestiti da stirare, sul tavolo altrettanti e in mezzo a questo caos l’asse da stiro con il ferro che emanava un caldo africano e ogni tanto sbuffava qualche nuvoletta di vapore: sembrava voler richiamare l’attenzione su di sé. Chissà da quanto era acceso e aspettava di essere utilizzato.

    Al centro della stanza e del caos, spuntava un esserino. Accanto alla finestra, sul tappeto sul quale trascorrevo molti pomeriggi, quegli occhietti profondi mi squadravano. Seguivano i miei movimenti da lontano e quando scartai la torta per mostrarla a Cinzia, captai un rapido sorriso, aveva capito che era un dono per loro, anche se lei l’avrebbe solo assaggiata.

    Sulla porta, Cinzia mi accolse senza guardarmi troppo. Aveva aperto e subito era sparita dietro il muro della cucina gridando:

    «Metto su un po’ di latte caldo per la bambina. Tu cosa vuoi? Tè, vero?»

    Non beveva caffè e ogni volta che andavo da lei, prima mi facevo una buona dose di caffeina nel bar vicino.

    «Sì, certo.»

    Avevo imparato ad accettare anche quello. Piccole cose, lo so, ma all’inizio mi mandavano in bestia.

    Sono una drogata di caffè, sono una fumatrice, anche abbastanza accanita e togliermi fumo e caffè per tutte quelle ore mi faceva impazzire.

    Adesso quasi la ringrazio.

    Come per il caffè, prima di salire, però, fumavo un paio di sigarette, una dopo l’altra con l’avidità di un condannato a morte.

    Infatti, quando mi affacciai alla cucina per salutarla con un bacio, lei mi fermò.

    «Ferma! Sento la puzza di fumo fino a qui. Prima ti lavi i denti, poi ci saluti.»

    Non ribattei, avevo costantemente una cicca alla menta in bocca e nonostante questo mi beccava sempre.

    Dopo aver sbirciato in sala, rincorrendola nelle sue faccende, andai in bagno. Quando tornai Cinzia era seduta per terra, di fianco al suo piccolo gioiello. Insieme erano qualcosa di indescrivibile, uno spettacolo mozzafiato.

    Era uno dei miei momenti preferiti, quando la mamma nutriva la sua cucciola, con lo stesso istinto di un animale a cui siamo così simili.

    L’idea che fosse in grado di soddisfare i bisogni primari di un altro essere umano mi affascinava. Ne ero quasi invidiosa perché io non credevo ne sarei stata capace, non credevo di essere in grado di soddisfare qualcuno che non fossi io. Forse perché non avevo figli, forse perché ero ancora piccola e perché ero, e sono tutt’ora, un’egoista. Il suo modo di essere mamma, così affettuosa, tenera, carnale, mi colpiva, mi scaldava il cuore.

    Eccoli lì, ancora su di me. Quegli occhietti che mi sorridevano. Giulia, un nome che mi aveva stregato come solo la bellezza di un bambino riesce a fare. Stava lì e mi guardava. Momenti intensi, vuoti di parole e gesti. La voce del silenzio. Momenti che trasmettevano significati oltre a ciò che le parole potevano esprimere.

    Mi sedetti sul divano e pensai alla prima volta che avevo visto Cinzia.

    Un giorno qualunque di maggio avevo ricevuto una telefonata dal responsabile del mio negozio che mi chiedeva se conoscevo qualcuno in cerca di lavoro. Cercava una commessa per il suo negozio di intimo che stava proprio di fronte alla libreria dove lavoravo, in centro a Milano: tutti negozi di sua proprietà. Frugai tra le mie conoscenze, ma niente. Allora chiamai Sophia, magari lei conosceva qualcuno. Ecco il nome: Cinzia. L’avevo sentita nominare ma non la conoscevo di persona. Il mio capo dopo qualche giorno l’assunse.

    Quando la vidi mi fece uno strano effetto, la guardai in silenzio. Una bellissima donna. Ma non andai oltre l’aspetto fisico.

    Ero ferma nelle mie sabbie mobili, non permettevo a nulla di attraversarmi. Nei giorni a seguire chiacchierammo un po’ e mi scoprii imbarazzata davanti a lei. Era strano sentirsi ancora così: nuda davanti a qualcuno, incapace di fissarla negli occhi, di essere sorpresa a guardarla. Cancellai l’idea, ancora una volta soffocai l’emozione. Temevo di dovermi dare delle risposte, rifiutavo qualcosa che si muoveva dentro di me.

    Un martedì d’estate, con il caldo che soffocava il respiro, per le strade del centro non c’era nessuno. Mi affacciai al suo negozio e la invitai al bar. Accettò. Tra noi scattò un’alchimia inspiegabile, mi sembrava di conoscerla da molto tempo, conoscevo il suo sguardo e anche il suo sorriso.

    Decisi di raccontarle di me, della mia storia, ma non le dissi della mia omosessualità. Mi aprii e lei fece lo stesso con me.

    Tornai a casa e il pensiero di lei era maledettamente intenso. Avevo il suo sorriso stampato in testa, la risata squillante risuonava nel mio cervello. Era divertente, ironica e malinconica allo stesso tempo. Pensavo a lei come a un paesaggio sublime perché era così: una donna che mentre rideva, piangeva lacrime amare. Come la maschera di Pierrot: un pagliaccio che piange.

    Capii che dovevo scendere in profondità per cercarla, per trovarla.

    Aveva una figlia, l’angelo del suo dolore. Era una sognatrice, ma i sogni erano nascosti dentro di lei. Ogni tanto riemergevano e le si stringeva il cuore. Aveva rinunciato a tutto per sua figlia, alla libertà dell’adolescenza, quando ti senti potente e padrone del mondo, aveva rinunciato a quella frenesia sfacciata. Era una donna interrotta, dominata dai suoi drammi. Aveva il fascino maledetto di chi ha avuto il contrario di ciò che si aspettava. Non incolpava nessuno, se non se stessa, ma quando guardava la sua bambina si sentiva completa e, per quanto pulsassero quei sogni, amava la sua vita con lei più di ogni cosa al mondo, più delle sue aspirazioni.

    Mi innamorai di lei giorno dopo giorno. Se avessi potuto scegliere, sarei scappata perché l’amore mi spaventava. L’amavo come avevo amato la prima volta, in modo istintivo, carnale, intenso.

    Amavo tutto di lei: il suo corpo vissuto, le sue mani, la sua pelle, gli occhi camaleontici; le sue labbra, la pancia, la schiena, le spalle i piedi e la sua risata imbarazzante. Amavo le parole che non riusciva a dire, i silenzi che urlavano, la sua paura e la sua diffidenza, il suo sorriso e il purgatorio che si era costruita per non lasciarsi attraversare. Amavo i suoi sogni, quelli che teneva relegati chissà dove per dimenticarli, anche se non era possibile.

    Noi siamo i nostri sogni.

    Lei era un linguaggio nuovo e anche se credevo di

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