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Roma Caput Mundi. L'ultima battaglia
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E-book742 pagine11 ore

Roma Caput Mundi. L'ultima battaglia

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Info su questo ebook

Un autore da oltre 1 milione di copie
Il romanzo del nuovo impero

«Frediani è un grande narratore di battaglie.»
Corrado Augias

La morte del grande Costantino lascia l’impero ai cinque eredi designati: troppi, per andare d’accordo, e il regno è subito marchiato dal sangue. Tra lotte per la supremazia, rivolte, usurpazioni, invasioni barbariche e cortigiani ambiziosi, la dinastia regnante presto si assottiglia, finché non rimane un solo imperatore. Ma un unico sovrano ora sembra insufficiente per governare un territorio così esteso, peraltro minacciato lungo tutti i confini. E allora le lotte di potere e i contrasti tra parenti ricominciano. Con Giuliano l’Apostata, ultimo rappresentante della famiglia, si assiste addirittura al clamoroso quanto fugace ritorno del paganesimo a Roma. Ma l’impero è ormai al crepuscolo e la sua fine travolgerà tutti, dagli eredi di Costantino a coloro che li hanno sostenuti o combattuti, amati o odiati: il vescovo Osio, Minervina e Sesto Martiniano, i loro figli. Tutti condannati dall’epoca tragica in cui sono vissuti.

Un autore da oltre 1 milione di copie

Hanno scritto della trilogia:

«Grande conoscitore del quotidiano annidato nella storia, Frediani usa il particolare come un fregio arricchendo le vicende con precisione, dalle descrizioni degli abiti imperiali fino alle regole dei cerimoniali.»
Sette del Corriere della Sera

«Ascesa, regno e decadenza dell’imperatore Costantino. Una saga narrativa dello storico e romanziere Andrea Frediani, che ha venduto un milione di copie dei suoi libri.»
La Lettura del Corriere della sera

«La vicenda storica di Costantino si accompagna all’intensa storia d’amore con Minervina, una donna fragile e ingenua, ma fortemente passionale.»
la Repubblica
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; L’ultima battaglia dell’impero romano, Le grandi battaglie tra Greci e Romani, Le grandi battaglie del Medioevo, La storia del mondo in 1001 battaglie) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma; 300 guerrieri, 300. Nascita di un impero e I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potere, La battaglia della vendetta, Guerra sui mari, Sfida per l’impero). L'ultimo pretoriano e L'ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2016
ISBN9788854192317
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    Anteprima del libro

    Roma Caput Mundi. L'ultima battaglia - Andrea Frediani

    PROLOGO

    Costantinopoli, giugno 337 d.C.

    Martino Martiniano estrasse la spada dall’addome dello schiavo che si era parato davanti al suo obiettivo, guardò il sangue e i filamenti di intestino che ricoprivano la lama e si rese conto solo in quel momento che era la prima volta.

    La prima volta che uccideva un essere umano.

    Il suo bersaglio, il prefetto del pretorio Ablabio, fissò terrorizzato l’uomo che, col suo gesto disperato, aveva prolungato solo di qualche istante la sua miserabile vita. Martino sentì intorno a sé i suoi commilitoni ridere. Ridevano delle sue esitazioni o della paura dell’alto dignitario che erano venuti a uccidere?

    Un soldato avanzò verso il prefetto puntandogli la spada contro, ma un camerata lo bloccò, dicendogli: «Aspetta. Lasciamolo fare al ragazzino». Poi fece segno a Martino di procedere.

    Il giovane sentiva di aver già perso la baldanza che lo aveva spinto a sferrare quasi senza esitare il colpo fatale allo schiavo. Incrociò gli occhi del prefetto e vi vide Cristo. Perché Cristo era in tutti gli uomini, e specialmente in quelli che credevano in Lui. E il prefetto ci credeva, altrimenti il grande Costantino non lo avrebbe collocato al vertice della burocrazia imperiale. Dovette ricordare a se stesso perché era lì e cosa aveva fatto quell’uomo. Doveva recuperare lo spirito di vendetta che lo aveva spinto fino al palazzo del pretorio insieme ai soldati della sua unità. Quella volontà dei militari di farsi giustizia da sé, che li aveva pervasi da quando avevano ricevuto la terribile notizia.

    Fece appello a tutti i sentimenti oscuri che, da buon cristiano, aveva tenuto sotto controllo nel corso della sua breve vita, grazie soprattutto ai preziosi insegnamenti della madre, e attese che armassero di nuovo la sua mano. Finalmente strinse l’impugnatura della spada, levò il braccio e avanzò di qualche passo verso la sua vittima, che arretrò fino alla parete. Martino trasse forza dalla vigliaccheria di Ablabio, capace di compiere un misfatto atroce ma non di affrontare con dignità la punizione per le sue colpe, e sferrò il colpo con decisione. La punta della sua lama raggiunse il collo del prefetto, che si aprì in uno squarcio orizzontale da parte a parte, come la bocca di un animale rabbioso che si spalancava.

    Martino si sentì investire da un fiotto caldo dall’odore acre, e in un istante si ritrovò inzuppato di sangue sul viso e sul petto, tra le risate sguaiate dei commilitoni. Osservò la sua vittima crollare a terra come un pupazzo di stracci e accartocciarsi su se stessa in una posizione ridicola, e avvertì una morsa allo stomaco per l’orrore e il disgusto. Si sentì cattivo, e desiderò andare subito a pregare il Signore per espiare il suo senso di colpa: lo aveva fatto proprio per difendere Cristo e la sua Chiesa, e non c’era nulla di male se un soldato, addestrato a combattere e a uccidere, usasse le sue capacità per una buona e giusta causa; ciononostante, non riusciva a controllare lo sgomento che lo attanagliava per aver messo fine a una vita; e non quella di un barbaro, bensì di un uomo che, fino al giorno prima, era considerato tra i più intoccabili dell’impero.

    I suoi camerati gli si fecero intorno e, mentre si congratulavano con lui dandogli pacche sulle spalle, non tralasciavano di sputare sui resti del prefetto, apostrofandolo come traditore e assassino. Qualcuno lo prese anche a calci. Un soldato si calò i pantaloni e vi urinò sopra.

    «Dividiamoci, adesso», dichiarò il centenario a capo dell’unità. «Voi andate a casa di Flavio Delmazio. E mi raccomando, che nessuno rimanga vivo. Soprattutto il re dei re», aggiunse in tono canzonatorio. «Noi», e indicò anche Martino, «raggiungiamo la casa di Giulio Costanzo, dove faremo la nostra parte».

    «E gli altri? Tutti gli altri? Il patrizio Flavio Optato? E i senatori che hanno tradito?», chiese un soldato tra i più esagitati.

    «Ci stanno pensando, non ti preoccupare», rispose l’ufficiale. «In questo momento, molta gente sta piangendo i propri morti, a Costantinopoli. Ma spetta a noi, come unità di punta della guardia palatina, fare giustizia dei veri responsabili».

    Un coro di acclamazioni accompagnò le sue parole. Martino ruggì il suo assenso e, galvanizzato, seguì deciso i compagni, che si precipitarono fuori dal palazzo del pretorio, per correre decisi verso la Propontide. A ogni passo aumentava la sua sensazione di essere la spada di Dio; così, pensava, doveva essersi sentito l’imperatore Costantino quando, al Ponte Milvio un quarto di secolo prima, lui non era ancora nato, aveva sconfitto il rivale Massenzio e salvato Roma dall’idolatria, facendosi campione della causa cristiana fino ad allora perseguitata.

    Si sentiva molto eccitato. Fremeva dal desiderio, adesso, di completare ciò che aveva iniziato. Grazie ai buoni uffici della madre, stretta amica dell’imperatore appena deceduto, dopo il periodo di addestramento aveva fatto solo un breve apprendistato nelle legioni, poi era entrato nella guardia palatina. Aveva il privilegio non solo di servire direttamente il sovrano e di essere a contatto quasi quotidiano con lui, ma anche di essere uno dei pochi cittadini dell’impero a far parte di quelle prestigiose unità, che l’imperatore aveva voluto in massima parte costituite da barbari. Era noto che Costantino aveva puntato soprattutto sulle virtù belliche delle genti straniere, che tanto spesso aveva sconfitto nelle sue innumerevoli campagne; ed essere considerato alla loro altezza era motivo di vanto, per il giovane. Aveva l’occasione di formarsi accanto ai più valenti guerrieri dell’impero e di diventare a sua volta un soldato celebrato da tutti, al pari di suo padre, esecrato nella memoria di quasi tutti i civili, ma ancora apprezzato, senza troppo clamore, tra le file della truppa.

    Spesso bastava la presenza in una unità di un reduce delle guerre cui aveva partecipato Sesto Martiniano, perché la voce delle sue gesta si diffondesse a macchia d’olio, rinnovando il mito di quell’uomo invincibile e mai domo, che aveva contrastato Costantino con incredibile tenacia e in ogni frangente. Martino lo odiava, ma al tempo stesso desiderava conquistare i suoi stessi allori, sebbene per una causa più pura. Aveva sperato di forgiarsi e distinguersi nella campagna contro la Persia, che l’imperatore stava preparando prima di morire improvvisamente; sarebbe stato un esordio prestigioso, per la carriera di un soldato in erba. Invece, ora era costretto a saggiare per la prima volta la sua determinazione non contro altri soldati, bensì contro civili inermi, nella più grande purga che la storia di Roma ricordasse. E il suo animo era combattuto tra il disagio per ciò che stava facendo e l’esaltazione per essere al centro di eventi che avrebbero cambiato la storia del mondo.

    Qualcuno indicò l’abitazione del fratellastro dell’imperatore. Era un prestigioso edificio multipiano che affacciava sulla Propontide. Costantino era stato assai generoso a permettergli di vivere al suo fianco, e lui lo aveva ripagato in quel modo atroce… Meritava la morte, si disse ancora una volta, sebbene il giudizio spettasse soltanto a Dio. Ma non erano forse loro, i soldati, strumenti del Signore? Non erano stati loro a favorire l’ascesa e il consolidamento del potere di Costantino, aiutandolo a sconfiggere i suoi avversari, da Massenzio a Licinio, che avevano perseguitato Cristo e i suoi seguaci? Non era stato Dio a muovere i loro passi e a proteggerli, consentendo loro di vincere ogni guerra? Sì, spettava a loro fare giustizia.

    «Mi raccomando. Dentro casa troveremo anche i figli di Giulio Costanzo. Non fatevi commuovere dalla giovane età. Anche loro devono morire!», gridò il centenario, sfondando la porta d’ingresso con un violento calcio.

    Martino rallentò il passo, perplesso. Era giusto che il fratellastro di Costantino morisse. Ma i figli? Come potevano essere colpevoli anche loro, se Gallo aveva solo undici anni e il più piccolo, Giuliano, appena sei? Con la loro morte, il sangue del grande Costantino si sarebbe estinto, e ciò lo faceva sentire profondamente a disagio.

    E poi, se per quei barbari idolatri dei suoi compagni uccidere dei bambini non era certo un problema, per lui, un cristiano sincero e devoto, lo era eccome.

    Sua madre avrebbe di sicuro disapprovato, si disse. Irruppe nell’abitazione con la mente confusa e l’animo grave, chiedendosi cosa fare.

    «Valente, porta subito via i ragazzi. Esci dalla porta sul retro», intimò Giulio Costanzo al prete che faceva da tutore ai suoi figli, non appena si sentirono colpi violenti contro l’uscio di casa, e un fitto vociare all’esterno.

    Giuliano guardò il padre. Lo aveva visto preoccupato fin dalla morte dello zio, l’imperatore, ma adesso era davvero terrorizzato. Osservò il fratello maggiore Gallo, disteso sul triclinio, e capì che non era in grado di muoversi: non sarebbe andato da nessuna parte, pertanto non aveva intenzione di uscire neppure lui.

    Il sacerdote provò dolcemente a far alzare il ragazzino malato, ma Gallo era in uno stato di torpore e non lo assecondò. Valente guardò sconsolato Giulio Costanzo, scosse la testa in segno di diniego e fece una smorfia. Il principe chiuse gli occhi e sospirò. «Allora vai con Giuliano. Ma sbrigati!», gli ordinò.

    Ma il bambino puntò i piedi. «Io non vado via. Non senza Gallo», dichiarò solennemente, mentre i colpi alla porta si facevano più forti. Poi si udì un boato. Il portone aveva ceduto, e un inconfondibile rumore di scarpe chiodate risuonò sul pavimento del vestibolo.

    Soldati. Dei soldati stavano irrompendo in casa.

    «Cosa c’è padre? Tu… Lo sapevi?», azzardò Giuliano, mentre il prete cercava di trascinarlo via.

    «Avrei dovuto mandarvi via prima… Sapevo che non ci avrebbero lasciato in pace», mormorò Costanzo, mettendosi le mani tra i capelli. «Sapevo che qui sarebbe stato pericoloso. Non potrò mai perdonarmelo…».

    «Vieni via, Giuliano. Vuoi contraddire tuo padre?», insisté Valente, ma il bambino non si mosse. Voleva capire. Anche a costo della vita. Pensavano che non fosse in grado di capire nulla, solo perché aveva sei anni. Invece la sapeva lunga, lui; aveva capito da tempo che c’era qualcosa che preoccupava il padre, fin dalla morte dell’imperatore. Da allora, si era instaurata in città un’atmosfera di tensione e di attesa: il mondo romano era rimasto senza una guida, dopo oltre trent’anni di governo di Costantino, e pareva che nessuno sapesse più cosa poteva accadere il giorno dopo. Allo sgomento per la sua dipartita era subentrato nella gente un senso di disorientamento, che dava l’impressione di poter generare mostri da un momento all’altro.

    E i mostri si materializzarono improvvisamente sulla soglia del triclinio dove si trovava la famiglia, sotto le sembianze di un gruppo di militari della guardia palatina. Le loro espressioni, Giuliano lo capì subito, non erano quelle consuete delle guardie del corpo imperiali, nelle quali potevi trovare conforto e sicurezza; erano, piuttosto, quelle di razziatori assetati di bottino e di sangue. Il bambino pensò che dovessero essere proprio così i barbari che premevano lungo le frontiere dell’impero.

    «Eccolo, è lui, è Giulio Costanzo, lo riconosco!», gridò uno dei soldati, additando il padre. «Facciamolo fuori come merita, quel verme!».

    Un altro soldato avanzò verso il fratellastro dell’imperatore, sguainando la spada. Giuliano, atterrito, notò che la lama era già sporca di sangue. Il prete che era con lui lo abbracciò e gli mise le mani davanti al viso, ma il bambino si divincolò e cercò di osservare la scena. Costanzo arretrò di qualche passo, ma poi trovò il muro alle sue spalle e dovette bloccarsi. Si curvò su se stesso, vedendo il soldato brandire la propria arma, e tese istintivamente le braccia avanti. Giuliano lanciò un urlo di disperazione, che attirò l’attenzione del padre. Giulio Costanzo lo guardò, e il bambino vide cambiare la sua espressione da un momento all’altro: un attimo prima era di terrore, adesso di orgoglio. Il principe raddrizzò le spalle, assunse un portamento fiero, restituì per un istante lo sguardo al figlio, socchiuse gli occhi, poi li riaprì guardando in faccia il suo persecutore.

    Il braccio del soldato esitò appena, prima di affondare la spada sul cranio di Giulio Costanzo. Giuliano vide la testa dell’uomo che lo aveva cresciuto spaccarsi in due come un’anguria, dalla sommità fino al naso. La materia cerebrale schizzò fuori imbrattando il pavimento, per sparire subito dopo sotto il cadavere, crollato a terra ai piedi del suo uccisore.

    Il bambino si sottrasse alla stretta di Valente e si precipitò verso ciò che rimaneva del padre. D’improvviso, tutto si era fatto velato, e si rese conto solo dopo qualche passo, rischiando di incespicare, che i suoi occhi erano colmi di lacrime. Si inginocchiò accanto al genitore, poi notò che la spada del militare danzava a un palmo dal suo mento.

    «Forza, elimina anche quel moccioso. Devono essere spazzati via dalla faccia della terra, tutti quanti!», gridò un altro soldato.

    Giuliano guardò in alto, verso il carnefice, che lo osservò facendo una smorfia. «Non posso mica fare tutto io. Sotto un altro!», rispose, apparentemente imbarazzato.

    Ci fu un istante di silenzio. «Facciamo fuori questo qui, intanto», dichiarò un altro, indicando Gallo, che giaceva ancora stordito sul divanetto. La malattia che lo stava consumando da qualche tempo aveva spinto il medico, andato via da poco, a imbottirlo di infusi di erbe calmanti, per evitargli di sentire dolore.

    «Sta molto male. Non infierite, se avete un minimo di carità cristiana», intervenne Valente. «Nonostante le nostre preghiere non è migliorato».

    «Sì, è conciato male, si vede», commentò un uomo che sembrava un ufficiale. «Potremmo anche risparmiarci la fatica. Dubito che campi ancora a lungo».

    «Va bene. Ma questo qui? Che ne facciamo?», chiese un altro, facendo riferimento a Giuliano.

    «I bambini non sono roba per i soldati veri. Spettano alle reclute. Martiniano, pensaci tu. Tanto, ormai hai rotto il ghiaccio…», dichiarò il graduato.

    Tutti sembrarono sollevati di non doversi macchiare di un crimine ancor più vergognoso di quello di aver ucciso un principe di sangue imperiale. Gli sguardi si concentrarono sul giovane di cui era stato appena fatto il nome: un soldato i cui capelli lunghi non riuscivano a nascondere la mancanza di un orecchio. Ma ciò che più colpì Giuliano fu proprio il nome.

    Lo conosceva bene.

    Martino Martiniano si guardò intorno, spaesato. Poi fissò il bambino, con un’espressione di scoramento. Giuliano capì che neppure lui voleva farlo.

    «Ti tocca, ragazzo», commentò un commilitone, per esortarlo.

    «Forza, datti una mossa», aggiunse un altro.

    Martiniano sospirò. «Lo farò a modo mio, allora. Non solleverò una spada su un bambino. Lasciatemi solo», disse.

    Dopo qualche istante di silenzio, qualcuno dichiarò: «Ma sì, lasciamolo fare». Le sue parole sembrarono costituire un segnale di smobilitazione. I soldati, sollevati di non dover assistere alla morte di un bambino di sangue reale, si affrettarono a uscire. Poco dopo, nella stanza c’erano soltanto Giuliano, Valente, Martiniano, il cadavere di Giulio Costanzo e l’agonizzante Gallo.

    Il soldato sospirò ancora, guardando intensamente negli occhi Giuliano, che si sollevò in piedi. Il prete si frappose tra i due.

    «Non puoi farlo. Tu sei un romano, un cittadino dell’impero», disse Valente. «Quelli erano barbari, in gran parte, e forse non erano neppure cristiani. Ma tu lo sei, vero?».

    Martiniano annuì, ma rimase in silenzio, guardando ora il sacerdote, ora il bambino.

    «E come può un cristiano prendersela con un bambino senza colpe? Con un innocente? Come vivresti, con un tale peso sulla coscienza per tutta la vita?», lo incalzò. «Il Signore diceva: Lasciate che i bambini vengano a me. Amava la loro purezza, la loro innocenza. Sapeva che sono il nostro futuro. Tu vuoi toglierci il futuro?»

    «Non hai bisogno di convincermi, prete. Queste cose le so quanto te», rispose secco il soldato.

    «Io conosco tuo padre, Martiniano. È un uomo buono e fiero», sentì il bisogno di dire Giuliano. Non per salvarsi la vita, né per convincerlo a risparmiarlo. Voleva solo fargli sapere quanto lo apprezzava.

    Il giovane lo guardò stupito e turbato al tempo stesso. Sul suo volto si dipinsero emozioni diverse e, all’apparenza, contrastanti. Giuliano si chiese come fosse possibile: lui adorava il padre, provava un amore incondizionato, e non pensava che potesse esserci spazio per altri sentimenti nei confronti di un genitore. Ma forse, pensò, era così perché lui non aveva mai conosciuto la madre, morta dandolo alla luce; aveva avuto solo il padre cui affezionarsi, e poiché Giulio Costanzo non aveva mai rivestito incarichi di rilievo, né condotto vita pubblica, o svolto missioni lontano, era stato sempre con i figli. Adesso si sentiva perso, senza di lui.

    «Non ci credo. Mio padre… è morto», replicò Martiniano.

    «Era vivo, quando ci ho parlato. Non è stato molto tempo fa», precisò il bambino.

    «Scusatemi», intervenne il sacerdote. «Ma il principe è in pericolo, qui. Dobbiamo trovare una soluzione per salvarlo, soldato. So di poter contare su di te».

    Martiniano sospirò e annuì. «Hai ragione», disse. Poi si guardò intorno, si spostò verso la tavola ancora imbandita, afferrò un contenitore di coccio ancora ricolmo di frutta, lo svuotò e lo diede a Valente.

    «Colpiscimi alla nuca, poi scappa dal retro col bambino», suggerì al prete.

    Valente lo guardò esitante, e il soldato gli fece un cenno deciso con la mano perché agisse subito.

    Il prete guardò Giuliano, che fissò Martiniano e poi annuì. Solo allora Valente sferrò il colpo. Lo fece con sufficiente violenza da far crollare a terra stordito il soldato.

    Fu Giuliano ad afferrargli la mano e a trascinarlo via, verso la parte posteriore dell’edificio.

    Ma trovò il tempo di voltarsi un istante per lanciare un ultimo sguardo all’uomo cui doveva la vita.

    I

    Costantinopoli, dieci giorni prima

    Minervina strinse la mano di Costantino e, finalmente, lo vide sorridere e rilassarsi. La fronte dell’imperatore agonizzante, sdraiato sul letto con le coperte fin quasi al mento, era imperlata non più solo del sudore della sofferenza, ma anche, e finalmente, dall’acqua benedetta con cui lo aveva segnato il sacerdote.

    Minervina ringraziò con un cenno del capo Valente. Il sacerdote stava riponendo nella propria borsa gli strumenti con cui aveva appena finito di battezzare il sovrano che tanto aveva fatto per la Chiesa cristiana.

    «Sono io che devo ringraziarti, Minervina», le sussurrò il prete. «Mi hai onorato della tua amicizia, in questi anni, e del privilegio di essere il tuo confessore. E grazie a te, alla tua costanza e alla tua fede, adesso ho avuto anche l’immenso privilegio di dare il battesimo al nostro amato sovrano, che ci ha concesso di gridare il nome di Cristo senza timore di essere perseguitati o discriminati. È stato merito tuo, e tuo soltanto, non dei tanti sacerdoti che gli sono stati intorno in questi anni, se Costantino ha finalmente raccolto la mano che il Signore gli ha teso da quando lo ha scelto come strumento per sconfiggere l’idolatria. È stato il Signore che ti ha messo sulla sua strada e ti ha permesso di vivere al suo fianco in questi ultimi dodici anni, da quando è diventato il padrone assoluto dell’impero».

    «Sono felice di essere stata utile al Signore», ammise Minervina, orgogliosa del risultato che avevano raggiunto quel giorno, almeno quanto era triste per la imminente dipartita del sovrano. «Quando mi sono presentata a corte, dodici anni fa, neppure pensavo che mi avrebbe accettata. Mi aveva già rifiutato due volte, in precedenza. Sapevo che aveva scelto il cristianesimo soprattutto per conseguire vantaggi politici. Ma in lui c’era una fioca luce che mi sono data da fare per alimentare, finché non si è reso conto che, al di là di ciò che lui apprezzava in noi cristiani, dall’organizzazione alla determinazione, c’era anche un messaggio di amore e di pace che valeva la pena di fare proprio».

    «Sei stata quasi un apostolo, oserei dire, per ciò che hai fatto per la nostra fede. Se penso anche all’influenza che hai avuto sui suoi figli, che saranno i suoi successori…», commentò Valente.

    «Costantino, Costante e Costanzo sono cristiani sinceri e devoti, è vero, e questo mi conforta: siamo in buone mani», constatò lei. «L’impero è in buone mani. E sono contenta che l’imperatore si sia riconciliato con il Signore, prima che la sua vita si concludesse. Aveva così tante cose da farsi perdonare da Lui, a cominciare dall’assassinio di nostro figlio Crispo. Si sentiva in colpa per ciò che aveva fatto, per i delitti che aveva commesso e per le scelte spesso discutibili che aveva dovuto compiere, e cercava davvero la pace. Questo ha facilitato il mio compito. L’ho convinto che il Signore perdona chiunque e qualunque peccato, così lo ha accettato nel suo cuore. Non mi sarei data pace, se non l’avesse fatto…».

    Valente annuì e si spostò verso gli altri presenti nella stanza, cui Minervina si limitò a dare una rapida occhiata, prima di tornare a rivolgere la propria attenzione a Costantino: durante il battesimo, infatti, il cubicolo si era andato affollando. Da una parte c’era il consigliere più stretto dell’imperatore, il suo ex marito Osio, vescovo di Cordova, e accanto a lui l’eunuco Eusebio, tra i responsabili del cerimoniale di corte. Dall’altra, i parenti più stretti del sovrano, tra quanti erano presenti a Costantinopoli: i fratellastri Giulio Costanzo e Flavio Delmazio, poi i nipoti Giulio Delmazio e Annibaliano, insigniti dall’imperatore morente delle più alte cariche. Minervina non mancò di notare l’assenza della moglie di Annibaliano, Costantina, figlia del sovrano, e immaginò dove potesse essere. Scosse la testa e fece una smorfia di rassegnazione, consolandosi con la presenza dell’altra figlia dell’imperatore, la ben più docile Elena.

    Erano arrivati anche il prefetto Ablabio, il patrizio Flavio Optato e alcuni senatori, rendendo la stanza sempre più affollata. Provò un senso di frustrazione. Avrebbe desiderato rimanere sola per un po’ con Costantino, cui aveva bisogno di fare un’ultima richiesta. E non voleva che gli altri sentissero. Soprattutto Osio che, nonostante l’età vetusta, era sempre attento a ogni dettaglio e vigile. Si vedeva che fremeva perché non poteva essere il più vicino all’imperatore morente; ma Costantino era stato chiaro, esprimendo la volontà che a occuparsi di lui nei suoi ultimi momenti fosse solo Minervina.

    L’imperatore attirò la sua attenzione con un lento gesto della mano, indicandole di scoprirlo. La donna gli abbassò la coperta fino alla vita, contemplando la sua veste di un candido bianco, come si conveniva a un battezzando.

    «Ora sappiamo di essere beati nel vero senso della parola, di essere degni della vita eterna, di aver ricevuto la luce divina…», disse l’imperatore con un filo di voce. «È davvero infelice, e ben misero… colui che è privo di tali doni», trovò la forza di dire.

    Minervina annuì. «Lo vedi? Lo senti già dentro di te, il Signore: ti ha accolto prima ancora che tu giunga al suo cospetto, donandoti la pace che cercavi», commentò felice.

    Costantino annuì a sua volta. «I nostri figli… Dove sono?», mormorò ancora, guardando la sua interlocutrice con gli occhi socchiusi.

    Minervina gli sorrise dolcemente, osservando il suo viso raggrinzito e stanco. L’imperatore non aveva neppure sessant’anni, come lei, ma la sua vita intensa aveva segnato e ridimensionato il colosso che era stato.

    «Sono stati avvertiti, lo sai», cercò di rassicurarlo. «Ma solo Costanzo ha sede in Asia e può raggiungerti presto: lo aspettiamo da un momento all’altro. D’altra parte, sono dei cesari, e hanno le loro responsabilità nelle zone di pertinenza».

    «Noi… vogliamo assicurarci… che vadano d’accordo coi loro cugini», biascicò ancora l’imperatore. «Nel nome di Cristo, vogliamo che ci sia concordia tra loro».

    «Sarà senza dubbio così», rispose Minervina, lanciando una fugace occhiata a Delmazio e Annibaliano, che secondo le disposizioni testamentarie di Costantino si sarebbero spartiti il potere con i suoi figli. «Sono stati allevati nella fede nel Signore, e quindi nel rispetto reciproco. Non ti deluderanno».

    In realtà, non ne era così sicura. C’era stato un tempo in cui non era stata capace di scorgere malizia negli esseri umani, ed era stata propensa a giudicarli tutti buoni e disinteressati. Ma tanti anni a corte con Costantino, e l’età, l’avevano resa più saggia e acuta, e adesso si riteneva in grado di giudicare gli uomini per quello che erano e valevano. Era stata a lungo a contatto con i figli di Costantino, finché avevano vissuto a Costantinopoli; aveva perfino avuto la possibilità, come responsabile della servitù di palazzo, di influire sulla loro crescita, arrivando quasi a sostituirsi alla loro madre, uccisa da Costantino tanti anni prima, e alla loro nonna, Elena, venuta a mancare da sette anni; e, almeno in un caso, era riuscita a plasmarne carattere e convinzioni. Costanzo, infatti, avrebbe potuto essere suo figlio quasi quanto Martino.

    Il figlio di mezzo dell’imperatore era un giovane molto devoto, responsabile e coscienzioso, e aveva simpatia per le credenze ariane che lei gli aveva trasmesso: anche lui era portato a credere che il Figlio fosse subordinato al Padre, e che come essere generato e non ingenerato, non potesse avere una natura del tutto divina. Lei lo aveva appreso da quell’uomo illuminato che era stato Ario, accanto al quale aveva predicato tanti anni prima, ed era lieta che adesso una delle principali figure dell’impero avesse accolto le sue convinzioni.

    Meno soddisfatta poteva dirsi degli altri due eredi maschi, Costantino e Costante. Pigro e dissoluto l’uno, ottuso e talvolta crudele l’altro. Aveva cercato di attenuare i loro difetti e di crescerli nell’amore e nella carità cristiane, ma erano ormai anni che si erano sottratti alla sua influenza e all’autorità del padre, e non avrebbe saputo dire come si sarebbero comportati da imperatori. Poteva solo sperare che avessero messo la testa a posto, col crescere delle responsabilità e dell’età. In ogni caso, c’era ancora Osio a soprintendere la delicata transizione del potere, e Minervina era certa che il vescovo avrebbe continuato a prendersi cura dell’impero finché avesse avuto un alito di vita.

    C’era solo un aspetto che bisognava sottrarre alla sua influenza, prima che fosse troppo tardi. Uno solo, in cui poteva dirsi sicura che non avrebbe adottato una soluzione a lei gradita.

    «Devi dire… a Costanzo… se non ce la facciamo noi… che porti a termine la spedizione… contro i persiani… che stavamo preparando», si sforzò di dire Costantino, interrompendo i suoi pensieri.

    «Lo sa, lo sa, e sono certa che saprà prendere le decisioni più assennate. Ma ricorda che sono in pochi ad avere le tue qualità militari: e una campagna contro l’impero persiano, lo sappiamo tutti, non è uno scherzo», tornò a rassicurarlo.

    «È per questo… che abbiamo voluto associare al potere Delmazio», spiegò Costantino. «È il solo che ci somigli… tra i nostri eredi… come soldato. Anche se il comando nominale della guerra… sarà di Costanzo… il vero comandante sul campo sarà Delmazio… Lui sa dare coraggio agli uomini, col suo esempio… Come noi… e come Sesto Martiniano».

    Minervina ebbe un sussulto. L’accenno a Sesto le permetteva finalmente di introdurre la richiesta che si era preparata. «Già, Sesto Martiniano… Ricordi la tua promessa?», rilanciò subito.

    Costantino la guardò senza capire.

    «Mi hai vietato di scendere nelle prigioni e vederlo, in tutti questi anni», gli rammentò. «Ma mi hai anche promesso che, se ti fosse sopravvissuto, lo avresti liberato».

    «E chi ti dice… che sia ancora vivo? Dodici anni nelle segrete metterebbero a dura prova… chiunque», obiettò Costantino, tornato improvvisamente determinato. «A maggior ragione, un uomo perfino più vecchio di noi».

    «Lo so che è ancora vivo», replicò lei decisa. «Come so che, finché hai potuto, l’ultima volta un mese fa, sei sceso a chiacchierare con lui. So bene che lo hai fatto sempre, ogni volta che ti sei trovato a Costantinopoli. E che hai vietato espressamente a Osio di farlo giustiziare, per non farne un martire, sperando che la gente si dimenticasse di lui. Ma sono sicura che col tempo hai sviluppato un grande rispetto per Sesto e forse, a vostro modo, siete diventati perfino amici. Lo vedo anche adesso: da quando ne parliamo, sembri avere più energia. Lui ti ha dato sempre forza, e sono certa che, al ritorno da ogni campagna, ti sei precipitato nelle prigioni a raccontargli le tue conquiste: un po’ per farlo soffrire, come si farebbe soffrire un leone in gabbia parlandogli di prede; ma un po’ anche per condividere la tua passione con l’uomo che più di ogni altro al mondo è in grado di comprendere le sensazioni che genera. Come hai detto tu, siete della stessa pasta, voi due, anche se avete lottato in campi avversi. Non avresti mai potuto liberarlo senza dare l’impressione di debolezza, e lo capisco; ma adesso puoi; anzi, devi, perché hai preso un impegno con me e perché Osio e i tuoi figli lo farebbero uccidere».

    Costantino trovò la forza per uno stentato sorriso. «Ci conosci bene, tu».

    «Certo. E conosco bene anche lui. Ho amato entrambi», ammise. «Quindi, permettimi di liberarlo e di vivere con lui gli anni che ci restano da vivere, ora che stai rendendo l’anima a Dio. Io non ho più niente da fare qui a corte. Concedigli almeno questo; è un premio modesto, quello che ti chiedo, per esserti stata vicina e averti restituito al Signore di nuovo puro. E a Sesto, prima che partisse per l’ultima guerra tra te e Licinio, promisi che un giorno mi sarei finalmente dedicata a lui, dopo tanti anni rivolti prima a te, poi a Cristo. Mantieni la tua promessa e permettimi di mantenere la mia».

    L’imperatore parve riflettere. Minervina gli mise vicino al viso la lettera di autorizzazione per la liberazione di Sesto, che aveva preparato. Mancava solo il sigillo imperiale, che Costantino teneva sul comodino al suo fianco per sottoscrivere i documenti più urgenti.

    Dopo un lungo silenzio, che l’imperatore trascorse leggendo la lettera, Costantino lanciò uno sguardo al sigillo, facendole segno di prenderlo. Poi annuì, e Minervina lo appose in calce al documento, tirando un sospiro di sollievo. Piegò la lettera e se la infilò alla cintola, poi accarezzò il moribondo, sorridendogli felice.

    Si voltò un istante a osservare Osio; incrociò il suo sguardo e, dalla sua espressione, non ebbe dubbi che avesse capito quel che era successo.

    Per fortuna, il vescovo aveva faccende più urgenti cui pensare, adesso. Ma doveva comunque fare presto, prima che l’ex marito trovasse il tempo di vendicarsi del suo antico rivale.

    «Mmmmmh… Ma tuo marito non ti obbliga a stare con lui al capezzale dell’imperatore?», disse Martina, accarezzando dolcemente la folta peluria in mezzo alle gambe di Costantina, nuda accanto a lei sul letto. «Anzi, forse sarebbe più corretto dire: non ti senti in obbligo di essere al capezzale di tuo padre?».

    La principessa, la cui bocca era impegnata a giocare col grosso membro di uno schiavo nubiano in piedi accanto al talamo, dovette staccarsi dal suo gingillo per risponderle. «Nessuno mi obbliga a far niente, tanto meno quello smidollato di mio marito», replicò. «Quanto a mio padre, dubito che gli farebbe piacere la mia presenza. Anzi, rischierebbe di affrettare la sua fine: vedendomi potrebbe prendergli un colpo… Mi ha sempre detto che sono la sua Giulia, facendo riferimento a tutti i grattacapi che Giulia, la figlia di Augusto, dava al padre… E mi ha data in sposa a mio cugino Annibaliano per farmi dispetto: sapeva che puntavo a Delmazio, che è sempre stato il suo preferito».

    «Sei pur sempre la moglie del re dei re, no? Una delle donne più potenti dell’impero, adesso…», commentò Martina, passando ad accarezzare la liscia pelle della coscia dell’amica. Alle sue spalle, aveva anche lei a disposizione uno schiavo come oggetto di piacere, ma non aveva occhi che per la figlia dell’imperatore. Gli uomini non le dispiacevano, ma quando c’era lei, era Costantina a riempire la scena.

    La principessa proruppe in una sonora e sprezzante risata. «Re dei re… Mai titolo fu più vuoto e ridicolo. Dei cinque eredi designati da mio padre, Annibaliano è il solo che non abbia ricevuto davvero nulla», dichiarò. «In teoria, se l’imperatore avesse condotto la campagna contro l’impero persiano e avesse vinto, avrebbe consegnato la sua conquista a mio marito, e io sarei stata la suprema regina del creato. Ma solo in teoria, e con un mucchio di se di mezzo. Nessuno ha mai conquistato l’impero persiano. E in ogni caso, mio padre non farà mai quella guerra e figurati se la faranno i figli».

    «È comunque uno degli eredi… Tuo zio Giulio Costanzo, per esempio, non ha ricevuto niente…».

    «Ma no… Non è erede di nulla», si lamentò Costantina. «Mio padre gli ha dato una specie di titolo onorifico per non creare troppe differenze con suo fratello Delmazio, che ha ricevuto Macedonia e Tracia. Quella sì che è un’eredità concreta! Se avesse potuto, l’imperatore gli avrebbe dato territori anche più vasti, ma non poteva scavalcare i suoi stessi figli… Se avessi sposato lui, adesso mi appresterei a essere augusta! Invece io, la figlia maggiore del grande Costantino, sarò una patrizia qualunque, sposata a un idiota che si farà prendere in giro da tutti!», concluse stizzita.

    «Hai solo vent’anni. Chissà quante opportunità ti offrirà il tuo rango…», cercò di rassicurarla Martina. «Hai già una posizione ben precisa nella società. Io, che di anni ne ho già quattro più di te, non ho niente e non so cosa farò della mia esistenza. Sono figlia di un uomo condannato e di una donna che è solo la responsabile della servitù del palazzo imperiale; non mi interessa sposarmi ma solo stare con te. Mio padre neppure me lo ricordo e mia madre si vergogna di me. Ogni volta che mi vede, non nasconde né il suo biasimo nei miei confronti, né il suo compiacimento per mio fratello Martino, e non manca mai di fare paragoni tra noi. Dice sempre che siamo gemelli ma che non potremmo essere più diversi. La detesto, quella stupida bigotta!».

    «Non quanto io detesto mio padre!», le fece eco Costantina. «Che muoia pure, e ci liberi dalla sua ingombrante presenza!».

    «Io invece sono sicura che avrei amato mio padre, se l’avessi conosciuto», proseguì Martina. «Di sicuro, più di mia madre: a quanto ho sentito dire e da come me ne ha parlato, era tutto il contrario di lei. Sì, sono certa che mi sarebbe piaciuto. Ma l’imperatore non ci ha mai permesso di fargli visita, in questi anni in cui è stato prigioniero nelle segrete del palazzo. Non so neppure se sia ancora vivo…».

    «Be’, verifichiamolo, no?», propose Costantina, alzandosi a sedere e guardandola negli occhi.

    Martina si sentì fremere, come le capitava ogni volta che poteva godere di tutta l’attenzione di quello sguardo penetrante, le nere pupille incastonate in due occhi ampi e intelligenti, su un volto non bello, dai tratti duri come quelli del padre, ma sensuale e autorevole. E a lei piacevano le persone autorevoli: sapeva di averne bisogno, per non andare del tutto alla deriva, come la sua natura l’avrebbe spinta a fare.

    «Cosa vuoi dire? Lo sai che tuo padre ha vietato che mia madre e i suoi figli avessero contatti con l’esecrato Sesto Martiniano, il suo nemico più acerrimo…».

    «Ma non mi pare che l’imperatore sia molto presente ultimamente. Direi che possiamo provarci, no? Ti ci porterò io…», asserì decisa Costantina.

    E Martina sentì di amarla più che mai.

    «Ave, piccolino!», esclamò Costantina quando vide un bambino che Martina identificò in Giuliano, il nipote della principessa. Era in compagnia di uno schiavo, che gli stava mostrando i corridoi del palazzo imperiale di Costantinopoli. «Cosa ci fai qui?».

    Giuliano le corse incontro e la abbracciò. Sembrava molto affettuoso nei confronti della zia. «Mio padre ha voluto che lo accompagnassi a far visita all’imperatore, che sta tanto male», spiegò il principino. «Ma me lo hanno fatto vedere solo per poco. Hanno detto che non poteva affaticarsi, così mio padre è rimasto, e io devo attenderlo fuori. Ma mi stavo annoiando, quindi ho chiesto al mio schiavo di accompagnarmi a fare un giro dell’edificio».

    Costantina si rivolse a Martina. «È sempre stato un bambino curioso…».

    «E tu, cosa ci fai qui?», le chiese a sua volta Giuliano.

    «Mmmmmh». Costantina guardò ancora Martina, che si strinse nelle spalle. «Stiamo andando dall’uomo cattivo che l’imperatore ha proibito a tutti di vedere. Lei è sua figlia», specificò la principessa con una punta di malizia.

    Martina si rese conto subito che non potevano esserci parole più adatte per suscitare la curiosità di un bambino, e le diede fastidio. Suo padre non era un fenomeno da baraccone.

    «E chi sarebbe?», chiese infatti Giuliano con un lampo di interesse negli occhi.

    «Sesto Martiniano, no? Chi altri?», gli rispose la zia.

    «Sesto Martiniano? L’ultimo pretoriano? Il cesare di Licinio?», esclamò meravigliato il bambino.

    «Proprio lui. Vedo che lo conosci».

    «E chi non lo conosce?», replicò Giuliano. «Quando si parla delle vittorie dell’imperatore, c’è sempre di mezzo lui. Lo sanno tutti che è stato il suo avversario più accanito e che lo tiene confinato da anni nelle segrete costruite apposta per lui nei sotterranei del palazzo. Si dice che lo torturi e lo tormenti per vendicarsi e per il suo piacere. E per punirlo di aver difeso gli dèi tradizionali, rifiutando il cristianesimo».

    Martina ebbe un brivido di terrore al pensiero.

    «Dubito che sia proprio così, ad ogni modo lo verificheremo e ti faremo sapere», gli spiegò Costantina.

    «No, no. Voglio venire anch’io», si impuntò Giuliano.

    Costantina parve perplessa, e Martina le fece cenno di no.

    «Non credo sia il caso», finì per dire la zia, ma con scarsa convinzione.

    Le sue perplessità spinsero il bambino a insistere. «Voglio vederlo, assolutamente. Non mi perderei quest’occasione per nulla al mondo, quindi rassegnati a portarmi con te», disse.

    Costantina allargò le braccia, alzò gli occhi al cielo e annuì. Martina fu certa che le facesse piacere, in realtà; anzi, che gli avesse accennato la faccenda proprio per coinvolgerlo. Talvolta si divertiva a essere perversa, quasi sadica; ma a lei piaceva anche per la sua spregiudicatezza, e anzi la invidiava e la prendeva a modello con gli uomini con cui intendeva solo divertirsi, con la madre che voleva ferire per punire la sua disapprovazione, col fratello che desiderava sempre umiliare per la sua ossessiva devozione religiosa.

    Lo schiavo di Giuliano dovette adeguarsi alle decisioni della principessa, che si fece indicare la strada per le segrete. Tutti insieme discesero le scale verso i sotterranei, che Costantino aveva fatto costruire un decennio prima insieme al palazzo e a tutta la città. Martina si chiese quali morbose considerazioni avessero spinto l’imperatore a crearvi una prigione per suo padre, e perché Costantino avesse voluto vivere con il suo nemico più acerrimo proprio sotto il letto. Se era vero quel che diceva Giuliano, e che anche lei aveva sentito, allora in quella dinastia c’era realmente una vena di perversione e di pazzia, da cui avrebbe fatto bene a tenersi alla larga.

    Ma non credeva potesse essere davvero così. Se Costantino fosse stato tanto malvagio, se avesse torturato il padre, sua madre non sarebbe rimasta accanto all’imperatore per tutti quegli anni. Martina era certa che la donna provasse ancora un forte sentimento per entrambi gli uomini con cui aveva trascorso parte della sua vita, e non avrebbe potuto sopportare che l’uno facesse del male all’altro.

    Quando giunsero davanti alla porta d’ingresso alle segrete, una guardia barbarica sbarrò loro la strada. «Qui non si entra», disse con il suo rozzo accento.

    «Sono la principessa Costantina, figlia dell’imperatore e moglie del re dei re Annibaliano. E voglio entrare a visitare il prigioniero», dichiarò con decisione. Adesso, notò ironicamente Martina, usava l’altisonante titolo del marito per intimidire il soldato.

    «Qui non si entra. Ordine dell’imperatore», ribadì la sentinella.

    «L’imperatore ha le ore contate», replicò la donna in tono intimidatorio. «Forse in questo momento se n’è già andato. Mentre io e mio marito rimaniamo, vivi e potenti. E anche il padre di questo bambino, che è il fratello dell’imperatore. Vuoi che ci rimanga impresso un tuo sgarbo?».

    La guardia la guardò disorientata e a disagio. Rimase in silenzio.

    «Dammi il tuo nome, soldato. Me lo segno. Per un premio o una punizione in futuro, spetta a te deciderlo», intervenne con sorprendente piglio autoritario Giuliano.

    A quel punto, la guardia si arrese. Aprì la porta e li fece passare, poi prese la torcia appesa alla parete e si mise a capo della colonna, conducendoli attraverso locali maleodoranti e cupi, corridoi e vani dove erano accatastate sotto una coltre di polvere pile di documenti, attrezzi da manutenzione edile, servizi da portata per i banchetti, casse semiaperte con libri all’interno, tessuti; e poi vasellame, mezzi di locomozione, panoplie, spoglie di nemici barbari sconfitti, a suo tempo esibite nei trionfi, bottini non spartiti e tanto altro materiale che Martina non seppe riconoscere. Gli occhi le lacrimavano per la fuliggine, quando giunsero davanti a una porta con uno spioncino, di cui la guardia sbloccò la serratura con un massiccio chiavistello. Il soldato dovette far forza per aprire fino al punto di consentire il passaggio di almeno una persona alla volta.

    «Costantino?». Una voce fioca e rauca affiorò nell’oscurità.

    Martina si sentì gelare. Ma notò anche l’espressione di stupore della sua amica, che non esitò a chiedere: «Cosa significa? Mio padre viene qui?».

    La guardia si mostrò ancora una volta imbarazzata.

    La principessa lo fissò dritto negli occhi. Ed erano occhi crudeli, i suoi. Il soldato se ne accorse e rispose: «Una volta al mese, di solito, e da anni».

    Martina ebbe un brivido lungo la schiena. Allora era vero: lo torturava, addirittura personalmente. Eppure, quell’uomo era ancora vivo; e aveva chiamato l’imperatore per nome, come se fossero amici. Non ci capiva più niente.

    «È meglio se non glielo dici, che sei sua figlia», osservò Giuliano sottovoce, rivolgendosi a lei. «Potrebbe prendergli un colpo, se non vi vedete da anni. E in ogni caso, si sentirebbe umiliato».

    Martina fu colpita dalla sensibilità del bambino, che pareva molto più maturo della sua età. Ma non aveva voglia di dargli retta: era suo padre, maledizione, e forse era l’unico della sua famiglia da cui si sentisse attratta.

    «Mi sembra una buona idea. Non vogliamo giocarcelo proprio adesso, no?», concordò Costantina.

    «Ma…», cercò di obiettare Martina. Lo sguardo della sua amica era però eloquente, e rinunciò a insistere.

    Entrò per prima la guardia, per fare luce. Seguì la principessa, poi Giuliano, e infine Martina, il cui olfatto fu assalito da un odore fetido nel quale riconobbe ogni sorta di effluvio umano: nelle orge cui aveva partecipato con Costantina aveva avuto modo di respirare tutti gli umori che un corpo poteva produrre. Lo schiavo del principino rimase fuori. Martina scrutò nell’oscurità appena rischiarata dalla torcia, abituando lentamente i suoi occhi, già velati dalle lacrime per la fuliggine nei corridoi. All’inizio distinse solo una sagoma scura accovacciata per terra nel pagliericcio, poi ne notò barba e capelli lunghi e grigi. Infine, poté osservarne i tratti. L’aveva visto l’ultima volta quando aveva poco più dell’età di Giuliano, almeno tredici anni prima. Non aveva dubbi che lui non potesse riconoscerla; ma nei suoi ricordi aveva bene impresso il suo volto, ed era certa che lei, invece, lo avrebbe riconosciuto.

    Invece nulla, in quel viso scavato dalla sofferenza e dalla solitudine, dai patimenti e dalla sconfitta, rugoso e tormentato, le ricordava l’uomo aitante e determinato che aveva conosciuto.

    II

    Non appena vide Minervina uscire dal cubicolo di Costantino, Osio capì dalla sua espressione che era finita. La donna aveva le lacrime agli occhi e l’espressione afflitta. Lo guardò e scosse la testa, socchiudendoli. E lo capirono anche il personale di corte e alcuni personaggi di rango che stazionavano in anticamera da tempo. Tutti proruppero in esclamazioni di sconcerto, lamentazioni e pianti accorati. Qualcuno si mise a pregare, altri abbracciarono le persone al loro fianco, nella consapevolezza che si fosse conclusa un’epoca e che il futuro non sarebbe stato più così certo e stabile come era stato in grado di assicurarlo l’imperatore.

    Il vescovo si era allontanato dal capezzale del sovrano per il disbrigo degli affari più impellenti: l’amministrazione doveva pur andare avanti. E si era perso l’istante in cui Costantino i il Grande, imperatore di Roma per grazia di Dio, conquistatore di sarmati, franchi, alemanni e solo il Signore sapeva quanti altri popoli, vincitore di Massenzio e Licinio, era spirato. Si biasimò per essere stato tanto intempestivo: chissà cosa aveva rivelato a Minervina in punto di morte, ammesso che fosse stato cosciente, e chissà quali deleghe avrebbe potuto strappargli, approfittando del fatto che era in fin di vita e non del tutto lucido. Ma forse proprio per questo l’imperatore aveva voluto accanto a sé, nel suo estremo saluto alla vita, la sola persona della cui buona fede poteva essere certo: Minervina non avrebbe mai approfittato di lui, e Osio, tutto sommato, tanti e tanti anni prima l’aveva amata anche per il suo candore. Un candore che l’aveva indotta a considerare perfino lui, unica al mondo, una persona buona.

    «L’imperatore mi ha firmato questo documento con cui autorizza la liberazione di Sesto Martiniano», gli disse Minervina dopo essersi avvicinata, mostrandogli un foglio di papiro. «Non pensare neppure di toccarlo, quindi. Andrò a prenderlo subito».

    Osio abbozzò un sorriso. In fin dei conti, non era più così candida come un tempo. L’età l’aveva resa più scaltra, finalmente; ed era consapevole che solo le disposizioni di Costantino gli avevano impedito di prendersi su quel pretoriano la giusta vendetta per avergli rubato la moglie, ormai quasi quarant’anni prima.

    Ma aveva ben altro cui badare, al momento. A Martiniano avrebbe pensato in seguito. Adesso c’era da assicurarsi che l’impero rimanesse in piedi, e che i tanti eredi che Costantino aveva designato a succedergli non combinassero troppi guai. E stava a lui impedirlo, assicurando una transizione che non destabilizzasse lo stato e non provocasse nuove guerre civili.

    Quando si congedò da Minervina chiamò subito l’eunuco Eusebio, e lo invitò a seguirlo nel proprio studio. Si accomodò dietro il suo scrittoio e lo fece sedere davanti a sé. Dopo qualche istante di riflessione, trascorso a chiedersi se potesse davvero fidarsi dell’eunuco, disse: «Eusebio, abbiamo un problema. Un grosso problema. E ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a risolverlo. Qualcuno di cui mi possa fidare e che non si faccia troppi scrupoli di coscienza: la coscienza è un lusso che chi amministra un impero non può permettersi di avere. Sei d’accordo?».

    L’eunuco, un uomo minuto a dispetto della sua menomazione, ma calvo e imbellettato, dai modi affettati ed effemminati come gli altri suoi colleghi, annuì con decisione. «Certo, vescovo. So bene chi ha davvero tenuto in mano le redini del governo in questi anni. Chi ha gestito l’amministrazione, la burocrazia, le faccende religiose e le dispute che hanno vessato l’impero, il ridimensionamento dei beni e dell’influenza degli idolatri a favore dei cristiani, i flussi economici e gli approvvigionamenti. So bene che l’imperatore si dedicava soprattutto alle conquiste, ma delegava a te tutte le altre questioni. E mi chiedevo appunto come fare adesso che lui non c’è più, e come hanno intenzione di comportarsi gli eredi».

    Risposta molto soddisfacente, pensò Osio. C’era il riconoscimento del suo ruolo di governo, un pizzico di sana ambizione e una giusta dose di piaggeria, che gli dimostrava come Eusebio fosse ansioso di conquistarsi la sua considerazione. Sì, forse aveva individuato l’uomo giusto. Poteva andare avanti e rivelargli i suoi piani.

    «Costantino non mi ha dato retta, quando gli ho suggerito di limitare al minimo il numero degli eredi», esordì. «L’impero ha funzionato meglio da quando è rimasto un solo imperatore: i tempi della tetrarchia sono finiti, e il sistema ideato da Diocleziano si è dimostrato del tutto fallimentare. Più imperatori servono solo a causare guerre civili, a provocare l’adozione di politiche diverse da un territorio a un altro; insomma, servono solo a smembrare l’impero, e a consegnarlo lentamente nelle mani dei nemici: soprattutto i persiani di Shapur, che premono alle frontiere orientali. Fosse stato per me, già i tre figli di Costantino sarebbero stati in troppi, anche perché non tutti sono uomini di valore…».

    «E lui ci ha aggiunto anche i nipoti…», commentò Eusebio.

    «Già. Ha sempre detto che Delmazio era il suo parente più simile a lui, e ha voluto per forza non solo fargli sposare sua figlia Elena, ma soprattutto lasciargli Tracia e Macedonia, due prefetture chiave, per giunta, che costituiscono un ponte tra Asia ed Europa…», ammise Osio.

    «E poi, per non scontentare il padre di Delmazio, ha dato un titolo anche ad Annibaliano, oltre che la figlia Costantina…», aggiunse l’eunuco.

    «Proprio così. E per quanto possa apparire vacuo, il titolo di re dei re spingerà quel ragazzo a montarsi la testa, e a fare pressioni sul fratello perché lo aiuti a conquistarsi dei territori effettivi», gli fece eco Osio.

    «I due potrebbero allearsi per soffiare prefetture ai cugini. La guerra civile è praticamente assicurata. Anche perché è noto che il prefetto del pretorio Ablabio è più legato a loro che ai figli di Costantino. Ed è ipotizzabile che anche Giulio Costanzo, rimasto fuori dalla spartizione, voglia qualcosa per sé: sarà disposto a offrire il proprio sostegno a chi vorrà premiarlo», proseguì l’eunuco.

    A quanto pareva, Eusebio aveva compreso alla perfezione la situazione. E condivideva le sue preoccupazioni; o faceva finta di farlo, per rastrellare un po’ di potere.

    «Ebbene», continuò il vescovo. «I cesari sono ragazzi ancora inesperti nell’arte di governo, che io svolgo da moltissimo tempo. Per assicurare continuità all’impero a dispetto delle sciagurate soluzioni adottate da Costantino, dobbiamo anche assicurarci che la gestione dello stato rimanga nelle mie mani: anche se ho settantasei anni, mi sento bene e non ho alcuna intenzione di abdicare al mio ruolo. Ma non posso avere a che fare con cinque cesari che, presto, si trasformeranno in cinque augusti. Non posso farli ragionare tutti, né controllare le loro ambizioni».

    «Certo, me ne rendo conto», si affrettò a dire Eusebio. «Ciascuno di loro ha le sue clientele, peraltro; riterrà di non essere stato gratificato abbastanza, e cercherà di ampliare la propria eredità a scapito degli altri, per accontentare i propri sostenitori…».

    «Inoltre, conosciamo tutti il carattere dei figli di Costantino», proseguì Osio. «Il figlio omonimo è un debosciato, ed è un bastardo, oltretutto: il figlio di una schiava, come sappiamo io, te e pochi altri, che Costantino fu costretto a procreare perché l’imperatrice Fausta non gli dava figli». Omise di dire a Eusebio che però era anche il solo figlio certo dell’imperatore; gli altri, aveva scoperto, erano stati partoriti dall’imperatrice Fausta con il seme del figliastro Crispo, che Costantino aveva avuto da Minervina. Per questo Fausta e Crispo erano morti; la donna, per giunta, sotto gli occhi dei figli e per mano dello stesso padre, che si era così guadagnato un odio imperituro da parte dei suoi stessi eredi. «E Costante non è da meno. Solo Costanzo sembra un uomo responsabile, ma è debole e influenzabile», aggiunse.

    «È facile prevedere cosa accadrà», convenne Eusebio.

    «Cosa?», volle mettere alla prova l’acutezza dell’eunuco.

    «Dunque… Costantino e Costante si ritrovano con metà Occidente per uno: al primo Gallie, Spagna e Britannia, al secondo Italia, Africa e Pannonia», spiegò Eusebio. «C’è da essere certi che presto si faranno la guerra, come fecero a suo tempo il vecchio Costantino e Massenzio. Si tratta solo di vedere chi agirà per primo. Costanzo ha tutto l’Oriente, tranne le prefetture assegnate a Delmazio. E se conquisterà territori nel Ponto e in Armenia, dovrà darli ad Annibaliano. Perché mai dovrebbe farlo? E perché dovrebbe lasciare alle proprie spalle una potenziale minaccia come Delmazio?».

    Osio non celò la propria soddisfazione. «Sei un politico nato, Eusebio: hai fatto la mia stessa analisi», si complimentò, approfittandone per blandirlo un po’. «Ci sarà un posto molto importante per te nella futura amministrazione: responsabile del personale di corte è davvero troppo poco, per un uomo della tua levatura».

    All’eunuco brillarono gli occhi. «Sono disposto a fare qualunque cosa, vescovo. So che hai a cuore il bene dell’impero, e ti seguirò in ogni tuo progetto. Conta pure su di me. Cosa vuoi che faccia?», dichiarò solennemente.

    Osio sorrise. «Ebbene, caro Eusebio», rispose. «Io sono certo di avere ancora una buona influenza sui figli di Costantino. Vorrei poterli convincere della mia visione unitaria dell’impero, ma non sono sicuro che tutti capirebbero. Meglio metterli di fronte al fatto compiuto. Il primo ad arrivare qui sarà certamente Costanzo, che risiede ad Antiochia. Per Costante, che si trova a Milano, e Costantino, che ha base a Treviri, ci vorrà un po’ più di tempo. Ma a quel punto dovremo avere già agito, prima che si consolidino le fazioni e che Delmazio, Annibaliano e la loro cricca acquisiscano potere».

    «Cosa proponi dunque?».

    Osio sospirò. «Hai visto che Minervina è uscita dal cubicolo dell’imperatore con un foglio in mano. Era un documento che non ci interessa, al momento. Ma visto che tu sai imitare molto bene la grafia dell’imperatore che ci ha appena lasciato, dobbiamo prepararne uno che serva al nostro scopo, e far circolare la voce che è quello che Costantino ha dettato e sottoscritto in punto di morte…».

    Sesto Martiniano fece fatica ad abituare gli occhi alla fioca luce della torcia, che di solito illuminava l’angusto ambiente in cui giaceva da tredici anni solo in corrispondenza dei pasti, o le rare volte in cui veniva a trovarlo Costantino. Talvolta, i carcerieri si intrattenevano a parlare con lui, mostrando sempre interesse e curiosità per le sue gesta, soprattutto per capire come separare il mito dalla realtà; ma nel complesso, gran parte della sua esistenza trascorreva nella più totale oscurità, che produceva spettri e incubi affioranti dal suo passato.

    Chi diavolo era questa gente? La guardia gli aveva portato due ragazze e un bambino, e proprio quando ormai si aspettava di ricevere la visita dell’imperatore, assente da più tempo del solito. Li scrutò e si rese conto che si trattava di gente di alto lignaggio: nella donna vestita più sontuosamente, che lo osservava con due occhi scuri e profondi, gli parve di ravvisare i tratti di Costantino, e sospettò che si trattasse di un membro della sua larga famiglia.

    Ne ebbe conferma subito dopo. «Sono Costantina, la figlia dell’imperatore, Sesto Martiniano», disse la donna. «Costei è la mia ancella», aggiunse, indicando l’altra ragazza, mentre questo bambino è Giuliano, nipote dell’imperatore. A quanto pare, non siamo i primi personaggi di rango a esserti venuti a trovare; ho scoperto che mio padre ti veniva a trovare con frequenza…».

    «Mi dispiace essermi lasciato sfuggire il suo nome. Adesso più d’uno ne subirà le conseguenze», rispose. «Io, per aver rivelato il nostro segreto. Tu, per aver violato le sue disposizioni venendo qui. Lo so che non voleva che nessun altro mi vedesse…».

    «Nessuno subirà niente. A meno che non voglia subire qualche punizione tu, per la tua impertinenza, traditore», replicò piccata Costantina. «Mio padre non è più in grado di farci nulla».

    Sesto si meravigliò. «Cosa vuoi dire? Gli è successo qualcosa?», chiese.

    «È arrivata la sua ora», rispose con noncuranza sua figlia, manifestando un disinteresse che lo stupì. «Sta crepando».

    Sesto avvertì improvvisamente un senso di solitudine. Le visite di Costantino erano state i soli momenti in cui si era sentito vivo, in quegli anni, e gli unici in cui aveva potuto affrontare i suoi incubi. L’imperatore ne incarnava la maggior parte: era stato l’uomo che aveva impersonato tutto ciò che aveva avversato, detestato e combattuto con tutte le forze: il sostenitore degli immigrati barbari e del cristianesimo, il frantumatore della tradizione, il carnefice dei suoi commilitoni pretoriani e del suo imperatore, Massenzio, l’amministratore che aveva relegato Roma, la sua Roma, a un ruolo di secondo piano nell’impero; ma soprattutto, l’uomo che gli aveva soffiato Minervina, il grande amore della sua vita, demolendo il loro legame e minandolo al punto da rendere impossibile che tornasse quello di un tempo, anche dopo averla ripresa con sé.

    Per Costantino, Minervina si era lasciata andare fino a sfiorare il suicidio; l’imperatore l’aveva brutalmente scaricata, le aveva sottratto il figlio e poi, a quanto aveva saputo dai carcerieri, lo aveva anche ucciso. L’aveva fatta soffrire in tutti i modi, e questo era perfino più imperdonabile dei misfatti che aveva compiuto in nome della sua ambizione, cancellando tutto ciò con cui Sesto era cresciuto e trasformando l’impero romano in un’entità che nulla aveva più a che fare con ciò che aveva reso grande Roma. Un impero in cui l’esercito era composto e guidato in massima parte da barbari, e dove il potere era nelle mani di una cricca di esaltati che credeva in un dio assoluto, la cui esistenza pretendevano escludesse quella delle altre divinità; un dio dei reietti, che aveva reso pusillanimi i romani, privi di coraggio al punto da rinunciare al servizio militare e cedere le armi ai barbari, che presto o tardi ne avrebbero approfittato per impadronirsi anche del potere effettivo.

    «Non mi pare il modo di parlare di un padre. Per giunta di un imperatore», replicò infine a Costantina.

    «Si direbbe che tu lo apprezzi», ribatté lei. «Eppure ti ha sconfitto e tenuto qui a marcire. Magari ti ha anche torturato. Almeno così si dice in giro».

    «Ha fatto quello che forse avrei fatto anch’io, al posto suo. E di certo non mi ha torturato. Per finire, durante questi anni abbiamo imparato a rispettarci, pur mantenendo le nostre rispettive posizioni».

    «Insomma, siete diventati due amiconi…», commentò Costantina in tono sarcastico. Non gli piaceva proprio quella ragazza.

    «Posso chiederti come è possibile che vi rispettiate, se siete stati tanto nemici?», intervenne il bambino. Una luce di profonda e acuta intelligenza brillava nel suo sguardo, tradendo una maturità ben superiore alla sua età.

    Sesto sorrise, intenerito. Ecco un esponente della famiglia che si stava dimostrando migliore della donna che gli era davanti. E forse anche dei figli dell’imperatore morente: nei loro incontri, Costantino non si era mai mostrato molto orgoglioso della propria prole, tradendo, talvolta, una certa delusione per lo scarso valore dei figli.

    «Nelle lunghe conversazioni che abbiamo avuto», spiegò, «ho imparato, se non a condividere, almeno ad apprezzare la visione di Costantino. L’imperatore è stato un uomo che ha avuto una visione d’insieme, non un avventuriero in cerca di gloria, come tanti altri che si sono susseguiti nel corso dell’ultimo secolo. Costantino aveva una sua ricetta per salvare l’impero dalla decadenza, che tuttavia presupponeva una sua trasformazione radicale; ne ha affrettato il declino, ne ha promosso la distruzione, per riedificarlo secondo criteri nuovi. Invece di lasciarlo abbattere dai barbari, gliel’ha consegnato in modo indolore. Invece di tollerare la scarsa fede che i romani nutrivano ormai verso gli dèi tradizionali, ha favorito la loro ricerca di un essere supremo, che da tempo aveva spinto molti a rivolgersi al Sole Invitto, a Mitra, a Cibele o ad altri, imponendo una religione assolutista, un credo intollerante verso qualunque altro che non sia la fede in un uomo giustiziato tre secoli fa, un campione degli oppressi e dei diseredati. Non approvo nulla di tutto ciò. Nulla. Ma è un disegno di ampia portata, che richiedeva fegato e determinazione. Solo un grande uomo avrebbe avuto la

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