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Roma Caput Mundi. L'ultimo Cesare
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E-book621 pagine9 ore

Roma Caput Mundi. L'ultimo Cesare

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Info su questo ebook

Il romanzo del nuovo impero

Un autore da oltre 1 milione di copie

«Frediani è un grande narratore di battaglie.»
Corrado Augias

L’impero è ormai diviso tra due soli imperatori: Costantino in Occidente, suo cognato Licinio in Oriente.
Il loro accordo, però, è molto precario, la diffidenza e l’odio reciproco fortissimi. L’inevitabile rottura tra loro non potrà che condurre a una nuova sanguinosa guerra civile, che consacrerà Costantino padrone assoluto dell’impero. Ma in seno alla sua stessa famiglia si consumano tragedie e intrighi che gettano una luce sinistra sulla sua figura, mentre cresce la fama del suo più tenace avversario, l’ex pretoriano Sesto Martiniano, che non si rassegna ad ammainare la bandiera della tradizione di fronte all’avanzata del Cristianesimo e dei barbari. Battaglie cruente, inganni continui e tradimenti: la storia di Roma s’intreccia ancora una volta con le vite di personaggi coraggiosi, passionali, umani.

Un autore da oltre 1 milione di copie

Hanno scritto dei suoi libri:

«Grande conoscitore del quotidiano annidato nella storia, Frediani usa il particolare come un fregio arricchendo le vicende con precisione, dalle descrizioni degli abiti imperiali fino alle regole dei cerimoniali.»
Sette del Corriere della Sera

«Ascesa, regno e decadenza dell’imperatore Costantino. Una saga narrativa dello storico e romanziere Andrea Frediani, che ha venduto un milione di copie dei suoi libri.»
La Lettura del Corriere della sera

«In questo romanzo di Andrea Frediani la vicenda storica di Costantino si accompagna a un’intensa storia d’amore.»
la Repubblica
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; L’ultima battaglia dell’impero romano e Le grandi battaglie tra Greci e Romani) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma; 300 guerrieri, 300. Nascita di un impero e I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potere, La battaglia della vendetta, Guerra sui mari, Sfida per l’impero). L'ultimo pretoriano e L'ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2016
ISBN9788854192294
Roma Caput Mundi. L'ultimo Cesare

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    Anteprima del libro

    Roma Caput Mundi. L'ultimo Cesare - Andrea Frediani

    en

    1190

    Prima edizione ebook: maggio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9229-4

    www.newtoncompton.com

    www.andreafrediani.it

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Andrea Frediani

    Roma Caput Mundi

    L'ultimo cesare

    omino
    Newton Compton editori

    Dio, Signore dell’universo, mostrando ai nostri occhi tutti questi fatti nella sola persona di Costantino che, unico tra tutti, si dichiarò apertamente cristiano, mise in chiaro quale differenza passasse tra coloro che si erano resi degni di venerare la sua persona e Cristo suo figlio, e coloro che invece avevano scelto la causa opposta, costoro, che avevano preso a combattere la sua Chiesa, se lo resero ostile e nemico e la fine di ciascuno di essi fornì la prova inoppugnabile dell’inimicizia divina, mentre, al contrario, la morte di Costantino rese evidente a tutti il pegno della benevolenza divina. Egli soltanto, tra tutti gli imperatori romani onorò il Dio dell’universo con immenso fervore religioso, lui solo tra tutti annunciò la parola di Cristo in assoluta libertà, egli soltanto celebrò la sua Chiesa come mai nessuno in ogni tempo, lui solo eliminò tutti gli errori del politeismo, confutando ogni espressione dell’idolatria, ed egli soltanto tra tutti gli imperatori ricevette, in questa vita e anche dopo la morte, onori tali che nessuno sarebbe in grado di indicare qualcuno che ne abbia ricevuti altrettanti, né tra i greci, né tra i barbari, né tra i più antichi romani, al punto che non si ricorda nessuno capace di tanto, dall’inizio dei tempi fino a oggi.

    Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino

    I

    Bisanzio, primavera 313 d.C.

    Il frastuono di un masso di catapulta che si schiantava su un edificio, fin troppo familiare per un militare di carriera, ricordò a Sesto Martiniano che era sotto assedio. Lanciò uno sguardo sconsolato alla sua amata Minervina, che fissò su di lui l’azzurro oceano dei suoi occhi, sempre splendenti nonostante il dolore provocato dalle doglie, e uscì di casa per accorrere sugli spalti. Mai avrebbe voluto lasciare la donna proprio in quel momento, che entrambi non pensavano sarebbe mai arrivato; ma sapeva bene di poter assicurare un futuro alla propria famiglia più in prima linea che accanto a lei.

    Non era sicuro di voler combattere. Se solo fosse stato più rapido a raggiungere l’Oriente, molto probabilmente si sarebbe trovato tra le schiere assedianti, e non rintanato tra le mura di Bisanzio. Ma non poteva neppure lasciar distruggere il posto nel quale si era rifugiato, senza rischiare di finire coinvolto nella rovina della città. Era arrivato da appena un mese, con una compagna in avanzato stato interessante, e l’intenzione di raggiungere i domini del solo imperatore ancora legato ai valori e agli dèi tradizionali, in un mondo che sembrava aver perso il proprio baricentro. Non si riconosceva, Sesto Martiniano, rampollo di un’illustre famiglia senatoria di Roma, nella politica di favoritismo verso cristiani e barbari degli altri due sovrani, Costantino e Licinio. Aveva combattuto strenuamente per difendere il suo mondo, a fianco di Massenzio, il signore di Roma cui aveva concesso piena fiducia; ma sul Ponte Milvio i suoi sogni si erano infranti di fronte alle schiere galliche e barbariche di Costantino, e si era salvato solo grazie all’aiuto di Minervina. Da allora, non aveva fatto altro che peregrinare sempre più verso Oriente, nel tentativo di sottrarsi alle rappresaglie cui il vincitore della battaglia aveva sottoposto chiunque appartenesse al corpo dei pretoriani, che lo aveva avversato fino all’ultimo respiro. Il suo solo cruccio era di non essere morto a fianco dei commilitoni, per la gran parte caduti lungo il Tevere con la fronte rivolta al nemico, trafitti da mille lance.

    Giunse ai piedi delle mura e risalì di corsa la rampa che portava agli spalti, mentre altri proietti piovevano oltre le merlature. Un masso incendiario rotolò sul selciato e andò a colpire la colonna d’angolo di un portico, facendo crollare parte della copertura, che prese subito fuoco. Una squadra di serventi si precipitò con un carro di barili d’acqua a spegnere il principio di incendio. Sesto raggiunse l’ufficiale al comando del settore, cui si era presentato solo pochi giorni prima come un soldato che aveva terminato il servizio attivo, mettendosi a sua disposizione senza rivelare di essere stato un tribuno pretoriano. Ad assedio già iniziato, i comandanti non andavano tanto per il sottile nel reclutare uomini, e il graduato non gli aveva fatto troppe domande, accontentandosi di avere a disposizione un altro combattente robusto e apparentemente esperto; i quasi trent’anni di vita militare di Martiniano trasparivano chiaramente dal suo atteggiamento sicuro e dal suo fisico forgiato da tante campagne.

    «Il nemico ha impiegato dieci giorni ad assemblare le macchine da lancio. E presto saranno pronte anche le torri mobili. Siamo spacciati, se Licinio non arriva in tempo», commentò l’ufficiale indicandogli lo schieramento delle forze assedianti.

    La sterminata armata di Massimino Daia era disposta a semicerchio lungo la valle del Lico, presidiando per intero il lato di terra della città. L’imperatore assediante non disponeva di una flotta, e le comunicazioni con il mare erano ancora libere; il blocco, pertanto, non era ancora totale, e il nemico non era in grado di ridurre alla fame la città; se non fosse stato per quelle dannate macchine, pensò Sesto, Massimino sarebbe rimasto ancorato a Bisanzio senza poter evitare l’arrivo di Licinio. Ma adesso, dopo soli dieci giorni di assedio, l’ufficiale aveva ragione: la città sembrava spacciata.

    E bisognava prendere una decisione.

    Sesto aveva il massimo rispetto per Massimino Daia. Quell’imperatore non aveva mai approvato le decisioni degli altri regnanti di porre fine alle persecuzioni ai danni dei cristiani inaugurate da Diocleziano. Aveva rispettato con scarso zelo l’editto di Galerio, che solo due anni prima aveva restituito ai cristiani la libertà di culto, dichiarando lecita la loro religione, e si era adeguato solo per necessità alla conferma che ne avevano dato Costantino e Licinio all’indomani della sconfitta di Massenzio. Ma non aveva rinunciato ai suoi sforzi per imporre a quell’insopportabile setta il rispetto per gli dèi tradizionali, forzando alla conversione gli armeni, e approfittando della permanenza di Licinio in Occidente per impossessarsi dei suoi territori più orientali. Erano cadute in sua mano Eraclea e Perinto, e adesso anche Bisanzio si accingeva a fare la stessa fine. Massimino stava prevalendo, ma solo perché Licinio non aveva ancora reagito. E Licinio aveva dietro di sé Costantino, suo cognato, e il più potente dei tre imperatori. Quali speranze avrebbe avuto Massimino di spuntarla, alla fine?

    Non era più solo, Martiniano. Si accingeva ad avere una famiglia, adesso, e doveva pensare anche a loro. Se fosse stato da solo, non avrebbe avuto esitazioni: avrebbe fatto di tutto per favorire la caduta della città e consegnarla a Massimino Daia, per poi combattere al suo fianco, a dispetto della superiorità nemica; proprio come aveva fatto quando aveva scelto di combattere fino all’ultimo per Massenzio contro Costantino. Era disposto a immolarsi per difendere il sistema in cui aveva sempre creduto, ciò che aveva portato Roma e l’impero a ergersi sopra qualunque altra civiltà, grazie al sostegno di dèi che, ora, molti cittadini stavano tradendo e abbandonando. Nonostante tutto, al Ponte Milvio non era morto, e ora gli dèi gli stavano dando una seconda possibilità di difenderli dall’aggressione del Dio dei cristiani. Cosa doveva fare? Udì un possente schianto, poi sentì la pietra degli spalti vibrare sotto di sé. Un macigno aveva colpito le mura. Traballò per un istante appoggiandosi al parapetto. Subito dopo, un sibilo, quindi un urlo strozzato; si voltò e vide che un dardo aveva centrato in pieno volto l’ufficiale, trapassandogli un occhio. L’uomo crollò ai suoi piedi e Martiniano si acquattò dietro ai merli. Guardò oltre la protezione: alcuni gruppi di arcieri nemici si erano spinti a ridosso del fossato, tirando da dietro o da dentro casematte mobili che i serventi spingevano verso le mura. Alle loro spalle le macchine, schierate davanti a un fitto campo di tende, continuavano a scagliare implacabili i loro proietti.

    Sugli spalti, qualche soldato cercava di azionare le macchine di cui disponevano i difensori; ma il fitto tiro di sbarramento degli assalitori, che facevano valere la loro netta superiorità numerica, impediva qualsiasi risposta che non fosse solo episodica, togliendo efficacia all’azione della guarnigione.

    A quanto pareva, non c’era bisogno di far cadere la città dall’interno. Presto sarebbe finita nelle mani di Massimino. A quel punto si trattava solo di decidere se attendere di finire prigioniero e offrirsi come zelante combattente per la restaurazione degli dèi tradizionali, oppure fuggire e mettersi al servizio di Licinio, nella speranza che un giorno arrivasse alla rottura con Costantino: il vero, principale responsabile del radicale rovesciamento dei valori e della trasformazione dell’impero. Sesto vide intorno a sé i soldati abbandonare gli spalti, per evitare la pioggia di proietti cui non riuscivano più a opporre alcuna difesa. Presto gli uomini di Massimino avrebbero superato il fossato e appoggiato le scale alle mura, o accostato gli arieti davanti alle porte per sfondarle.

    Non gli rimase che imitare i commilitoni. Si gettò nell’assembramento lungo la rampa, la ridiscese a spinte e gomitate, poi si mise a correre verso l’abitazione in affitto sicuro dove aveva lasciato Minervina. Se i nemici lo avessero trovato in abiti borghesi e accanto a donne, forse non lo avrebbero passato subito per le armi; se invece avesse deciso di fuggire, avrebbe guadagnato tempo. Ma non sapeva decidersi: il suo impulso naturale lo spingeva verso Massimino; ma il senso di responsabilità nei confronti di Minervina, che si era affidata a lui e aveva accettato di accompagnarlo verso Oriente nonostante fosse cristiana, lo faceva propendere per Licinio, e quindi per la fuga.

    Arrivato davanti all’uscio, bussò furiosamente alla porta. Un uomo della servitù che gli aveva messo a disposizione il proprietario gli venne ad aprire. Martiniano lo spinse da parte e riprese a correre lungo il vestibolo, puntando al cubicolo della sua compagna. Prima ancora di raggiungerlo, sentì dei vagiti.

    Il cuore prese a battergli; gli parve di non riuscire a contenerlo nel petto. Irruppe nella stanza e vide due neonati in braccio a una stremata Minervina, i lunghi capelli biondi sudati e appiccicati alla fronte e sulle tempie. La donna sollevò lo sguardo, e lui ebbe occhi solo per il suo sorriso, incredibilmente e imprevedibilmente radioso.

    E non ebbe più dubbi sulla decisione da prendere.

    Un miracolo. Non si poteva definire altrimenti: alle soglie dei quarant’anni, quando non pensava di poter più avere figli, ne aveva avuti addirittura due. Due gemelli. Dentro di sé, Minervina non smetteva di ringraziare il Signore per quella benedizione: era distrutta, dolorante ovunque, il bassoventre le pulsava infuocato, lacerato dallo sforzo. L’improvvisa comparsa di Sesto Martiniano le distese i muscoli contratti dal dolore: lui la proteggeva e la amava, si prendeva cura di lei, e con Sesto nei paraggi si sentiva sempre più sicura. Riuscì a trovare la forza di sorridergli, quindi si sentì incoraggiata a parlare, per la prima volta da quando aveva partorito.

    «Cristo veglia su di me, caro Sesto. E su di te: ci ha fatto una grazia immensa», biascicò, indicando con lo sguardo i due pargoli. «Questi due bambini sono il frutto del nostro e del Suo amore».

    Non le parve che il suo uomo fosse altrettanto entusiasta. Martiniano non cambiò espressione, che le era parsa di disorientamento fin dal momento della sua irruzione nella stanza. «Dubito che il tuo dio sia capace di evitarci di finire coinvolti nella rovina che attende da un momento all’altro la città», rispose, ancora ansimante per la corsa che aveva compiuto dagli spalti. «Dobbiamo andarcene, subito, e raggiungere la sponda europea per incontrare Licinio, prima che Bisanzio cada. Preparala per il viaggio», intimò all’ancella di Minervina.

    Quest’ultima lo guardò senza capire. «Ma… avevi scelto il partito di Massimino Daia… E io ti ho assecondato, sebbene quel demonio non mi piaccia affatto. Perché mai ora dovremmo fuggire di fronte a lui? E nelle mie condizioni… con due bambini appena nati…», si lamentò.

    «Perché rischiamo di più rimanendo qui durante le razzie che certamente seguiranno la caduta della città, che non cercando di scappare», rispose deciso Sesto. «E perché ho concluso che sebbene abbia vinto qui, Massimino non abbia speranza contro le forze coalizzate di Licinio e del tuo amico».

    Il sarcastico riferimento a Costantino, col quale Minervina aveva avuto una lunga relazione e un figlio, anni prima, le fecero male. L’imperatore l’aveva vista e se l’era presa, sottraendola nello stesso tempo al marito Osio e all’amante, Sesto. E lei lo aveva seguito con una totale dedizione, convinta di amarlo senza riserve. Poi l’imperatore l’aveva scaricata. Se per la ragione di Stato o perché si fosse stufato, Minervina se lo stava ancora chiedendo, e allora si era riunita a Sesto, che l’aveva accolta con entusiasmo. Ma qualche ferita era rimasta aperta, e talvolta l’uomo lasciava trasparire l’amarezza, e un pizzico di astio, per essere stato brutalmente abbandonato.

    Non sarebbero mai più tornati come prima che lei conoscesse Costantino, ne era certa. C’era ancora tanta passione, tra loro, ma l’amore aveva perso quei toni esaltanti e incondizionati che aveva avuto in precedenza.

    E poi c’era l’amore per Cristo che, Minervina lo percepiva, con la nascita di quei due gioielli sarebbe solo potuto aumentare. Aveva deciso di assecondare Sesto nella sua scelta di unirsi all’imperatore anticristiano non solo perché sentiva di doversi far perdonare qualcosa da lui, ma anche perché si proponeva di predicare presso i territori orientali, dove la parola di Cristo era soffocata dal pugno di ferro adottato ancora da Massimino, nonostante le disposizioni di tolleranza degli altri imperatori.

    «Vado a predisporre la nostra fuga. Per quando torno, vi voglio pronte», disse Sesto, e si voltò per andarsene. Ma poi si fermò, si avvicinò al letto dove si trovava Minervina, le accarezzò dolcemente la testa, come Costantino non aveva mai saputo fare, la baciò sulla fronte madida di sudore, poi sorrise ai neonati, lisciando loro le guance bagnate dalle lacrime e dal liquido amniotico, e contemplandoli estasiato per un istante.

    Si dileguò subito dopo, e Minervina si lasciò docilmente raccogliere i capelli dall’ancella, che poi la lavò, l’asciugò e la vestì, mentre l’ostetrica si prendeva cura dei bambini. Ma lei era impaziente di nutrirli: le loro grida stridule le laceravano l’animo, moltiplicando la sua ansia di tornare a essere madre. Lo era stata fino a cinque anni prima, quando Costantino l’aveva allontanata dalla corte di Treviri con un pretesto, costringendola ad abbandonare Crispo, allora di due anni, per non rivederlo mai più. Pensava a lui con struggente nostalgia, talvolta con disperazione, chiedendosi di continuo se fosse cresciuto robusto e aitante quanto il padre, e altrettanto determinato e volitivo.

    Adesso il Signore le aveva offerto una nuova, doppia possibilità, dandole non solo una nuova figlia, ma anche un figlio per compensare la perdita di quello che aveva dovuto abbandonare. E nulla al mondo, stavolta, l’avrebbe indotta a rinunciare ancora al ruolo di madre; e neppure a quello che, adesso, riteneva più che mai un suo preciso dovere: essere pia e devota, una perfetta serva di Cristo, accantonando gli impulsi che, in passato, l’avevano indotta a seguire gli istinti più bassi.

    Con buona pace di Sesto, che l’aveva sempre amata carnalmente ancor più che spiritualmente. Ma lui l’amava ancora tanto, e avrebbe compreso.

    Scostò la tunica liberando i seni. Li aveva sempre avuti piccoli, seppur ben modellati, e quasi non si riconosceva, nel vederli così gonfi. Si fece sistemare dalla balia i neonati a ridosso di ciascun seno, sostenendoli con le braccia, e cercò di accostarli ai capezzoli. Desiderò chiamarli ed esortarli per nome, ma si rese conto che ancora non ne avevano uno; era un compito del padre, e non avevano neppure avuto il tempo di parlarne.

    Era strano, si disse: avrebbe dovuto preoccuparsi di quello che le aveva detto Sesto, della drammatica situazione in cui rischiavano di trovarsi, ma non riusciva a pensare ad altro che al nome da dare a quelle due creature di Dio. Ma sapeva di essere così: la realtà, per lei, rivestiva uno scarso interesse, al confronto delle sue fantasie.

    Finalmente la bambina, che sembrava più volitiva, arpionò il suo seno, tentando di capire cosa fare del capezzolo che danzava sulle sue labbra. Minervina si fece tenere per qualche istante il bambino dalla balia, quindi con l’altra mano si strizzò il capezzolo, facendo uscire uno schizzo di latte. Poi lo offrì alla bimba, che iniziò subito a succhiare famelica, stringendo la bocca con una forza insospettabile per una creatura tanto piccola. La donna sentì brividi di dolore, fitte penetranti che dal seno si irradiavano per tutto il corpo, ma ne fu felice: la sua bambina aveva già imparato come tirarle fuori il latte.

    Fin da quando li aveva visti uscire da sé, Minervina si era cullata nell’immagine dei bambini che attingevano latte contemporaneamente ai suoi seni. Pertanto, decise di non lasciarli più. Invece di far sostenere la femmina alla balia e usare la mano per strizzare il proprio capezzolo destinato al maschio, ordinò alla donna di provvedere lei stessa a spremere, mentre Minervina accostava il volto del bambino al seno. La balia obbedì ma, nel frattempo, il bambino si era distratto e tendeva ad allontanare la testa da Minervina.

    La madre ingaggiò una tenera lotta per riportarlo sulla fonte di cibo, e presto il latte giunse a macchiare il volto del maschietto. Le due donne impiegarono ancora qualche istante a fare in modo che il liquido centrasse la bocca del neonato, più lento ad adattarsi rispetto alla sorella. La creatura sbavava, soffiava, tutto faceva tranne succhiare. La donna lo guardò con tenerezza, si commosse e sorrise, infine decise di limitarsi ad attendere: la natura avrebbe fatto il suo corso e l’istinto primordiale avrebbe prevalso.

    Fu ciò che accadde poco dopo. Finalmente il maschietto prese a imitare la sorella, e Minervina fu ben contenta di provare anche sul seno destinato al figlio lo stesso dolore subito ad opera della figlia. Si sistemò come aveva immaginato, sostenendo i propri figli per ciascun braccio e lasciandoli suggere, poi ordinò all’ancella di portarle uno specchio: voleva ammirarsi, adesso, e veder realizzato il quadro che aveva più volte dipinto nella mente; e desiderava ardentemente che quella nuova immagine cancellasse definitivamente quelle, sordide e meschine, che aveva visto riflettersi negli specchi dei lupanari in cui aveva lavorato in un breve periodo della sua vita, per punirsi di non essere stata all’altezza di farsi amare da Costantino.

    L’ancella uscì dalla stanza, ma si trovò la strada sbarrata dall’ombra di un soldato. Minervina ebbe l’impulso di accogliere Martiniano mostrandogli con orgoglio l’immagine che aveva appena composto, quando si rese conto che non era lui.

    Alle spalle di quell’individuo spuntarono subito altri uomini, tutti con elmi. Avanzarono spingendo via l’ancella, e irruppero nel cubicolo con sguardi feroci e rapaci. La fissarono a lungo in silenzio, sorridendo maliziosi.

    E Minervina conosceva fin troppo bene quel tipo di sguardo: ne aveva visti fin troppi, nei bordelli dove era stata. Non c’era nulla, nelle loro espressioni, che lasciasse pensare che l’avrebbero considerata solo una madre impegnata ad allattare i propri figli.

    «Arresi? Come sarebbe?», domandò incredulo Sesto Martiniano alla staffetta che aveva raggiunto trafelata il settore del porto.

    «Proprio così, signore», replicò il soldato. «All’angolo meridionale delle mura. Un masso tirato da una ballista ha sgretolato una torre, e questo è stato sufficiente a convincere i difensori che tutto era perduto. Hanno aperto le porte».

    Sesto guardò il manipolo di soldati che era riuscito a radunare per la fuga in Tracia, dall’altra parte dello stretto. Molti avevano già con sé le famiglie, ma altri dovevano ancora andarle a prendere. Lui compreso. Se i soldati di Massimino Daia scorrazzavano già per le vie della città, nessuno era più al sicuro. Soprattutto Minervina, che si trovava proprio nella zona meridionale dell’abitato, e proprio a ridosso delle mura. Fu immediatamente assalito dall’ansia di andarla a prendere.

    «Voi presidiate le due navi con cui dobbiamo salpare», ordinò agli uomini che sapeva non dover riprendere la famiglia. «Tutti gli altri corrano a prendere i propri cari. Ci vedremo entro un’ora al molo e allora le navi partiranno. Chiunque non farà in tempo rimarrà a terra», specificò. Notò qualche espressione di sgomento sui volti dei soldati: alcuni avevano le famiglie dalla parte opposta della città, e non avrebbero sicuramente fatto in tempo; ma concedere margini più ampi avrebbe decretato il fallimento dell’impresa.

    Si sparpagliarono tutti in diverse direzioni, e Sesto si precipitò verso casa, sperando che Minervina fosse già pronta e in grado di muoversi. Più tempo trascorreva, e più alte sarebbero state le probabilità di doverla difendere, da solo, contro colonne di razziatori: Bisanzio non aveva subito aperto le porte all’imperatore, costringendolo così all’assedio; secondo le regole non scritte della guerra, questo dava al conquistatore il diritto di concedere il saccheggio ai propri soldati.

    Raggiunse l’uscio di casa senza aver incontrato alcun assediante; ma in compenso molta gente confluiva verso il porto: sarebbe stato anche problematico farsi largo nella calca e mantenere le due navi a disposizione dei soldati. Si meravigliò nel vedere la porta aperta: era buio, ormai, ed era una pessima idea, soprattutto con quello che stava accadendo in città. Affrettò il passo ed entrò nel vestibolo, trovandosi subito tra i piedi un cadavere con uno squarcio nella schiena. Lo voltò e riconobbe il custode. Estrasse la spada, mentre il cuore prendeva a battergli all’impazzata; nonostante l’esperienza militare accumulata in decenni di carriera, non era una circostanza, quella, in cui era sicuro di riuscire a mantenere il sangue freddo.

    Udì delle risate sguaiate, e dei pianti di donna. Percepì perfino i vagiti strazianti dei due neonati. Provenivano dal cubicolo di Minervina. Le tempie presero a pulsargli per il furore; fu assalito dalla smania di irrompere nella stanza e fare a pezzi chiunque avesse fatto del male o stesse solo minacciando la sua famiglia. Ma si impose di agire con cautela. Doveva capire, prima, con chi aveva a che fare. Si avvicinò con estrema attenzione alla porta socchiusa del cubicolo, vi si appoggiò e sbirciò dentro. Notò due soldati intorno al letto della sua compagna, mentre udiva la voce di un terzo al di fuori della sua visuale; stava rivolgendo apprezzamenti ad altre donne, evidentemente la balia e l’ancella. Si concentrò sui due soldati accanto a Minervina: non vedeva la donna, coperta dai due uomini, ma notò i suoi vestiti strappati a terra e udì i suoi singhiozzi. Si rese conto che uno di essi le stava addosso e la stava palpando, mentre l’altro teneva uno dei bambini per le caviglie, facendolo dondolare a testa in giù.

    Non era tempo di fare calcoli. Irruppe nella stanza come una furia. Trafisse l’uomo con il bambino al fianco e afferrò con l’altro braccio il figlio prima che cadesse a terra. Quindi estrasse la lama, che compì un ampio ventaglio vermiglio sgocciolando sangue ovunque, prima di penetrare la nuca dell’altro aggressore. Quando questi si accasciò sul letto, crollò su Minervina, che istintivamente si rannicchiò per proteggere la figlia che aveva in braccio. Sesto scansò via il cadavere e le offrì l’altro bambino. Lei guardò alle sue spalle e gli gridò di stare attento, ma non ve n’era bisogno: Sesto sapeva di doversi aspettare la reazione del terzo soldato. Sferrò un fendente orizzontale alla cieca, sentendo l’impatto del ferro contro la carne, poi compì una giravolta su se stesso e si trovò di fronte all’avversario, ormai barcollante per lo squarcio che gli aveva aperto all’altezza dello stomaco. Non esitò a finirlo con un altro fendente tra spalla e collo, sentendo l’osso della clavicola che si frantumava, mentre la sua vittima si accasciava in avanti.

    «Non c’è tempo da perdere! Ne arriveranno altri!», gridò, provocando involontariamente un aumento delle grida dei due neonati. «Voi due», si rivolse alla balia e all’ancella, «guardate se gli schiavi sono ancora in casa e finite di preparare il carro. Portate il minimo indispensabile. Partiamo subito».

    Le due donne si dileguarono, terrorizzate da lui quanto dalla situazione. Si rese conto di essere ricoperto del sangue delle sue vittime, e lo era anche il bambino che aveva salvato. Perfino Minervina, mezza nuda, aveva il petto e il viso pieni di schizzi. Era troppo turbata per parlare: lo guardava impietrita, ma le sue braccia stringevano i due bambini con forza; Sesto temette che non fosse in sé e rischiasse di soffocarli.

    «Minervina, è tutto finito, ma ora dobbiamo scappare!», cercò di scuoterla. La afferrò per le spalle, e lei strinse ancor più i bambini. Allora le prese il mento, la trasse a sé e la baciò, sperando che la loro straordinaria unione carnale le risvegliasse i sensi e le permettesse di tornare in sé.

    Funzionò. I suoi magnifici occhi azzurri tornarono ad acquisire consapevolezza. Sesto le sorrise rassicurante, la lasciò per un istante, prese dalla madia vicino al letto una tunica e gliela fece indossare. Poi la aiutò a scendere dal letto, ma dovette sostenerla. Proprio allora ricomparve l’ancella. «Il carro è pronto. I due schiavi si erano chiusi nelle loro stanze non appena hanno visto entrare i soldati. Ora ci attendono fuori sull’uscio», disse la ragazza. Poi si precipitò ad aiutare la coppia, prendendo i due bambini e permettendo così a Sesto di reggere con più agio Minervina.

    Lentamente, giunsero al carro. Sesto lanciò un’occhiataccia agli schiavi, che abbassarono la testa per la vergogna, quindi fece salire tutti sul carro e si mise a cassetta, dando uno strattone alle redini per far partire i due cavalli. Presero la direzione della gran parte dei civili, che in alcuni punti arrivavano perfino a intasare le strade. Si vedevano anche alcuni drappelli di soldati assedianti, ma il loro obiettivo erano, in quella fase, le case lasciate incustodite e il bottino che potevano reperirvi: Sesto lo sapeva per esperienza personale, e per il momento non temette aggressioni. Tuttavia era uno dei pochi a disporre di un carro, e i razziatori avrebbero potuto immaginare che vi trasportasse delle ricchezze; cercò quindi di spostarsi all’interno del flusso di profughi, ma in tal modo fu costretto a rallentare l’andatura. E il tempo stringeva: l’ora di margine che aveva dato a se stesso e ai suoi uomini stava per scadere.

    In breve, si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta. Il porto non era lontano, ma a quel ritmo era come se fosse dall’altra parte della città. Dovette tornare ai lati della strada, spronare i cavalli e minacciare di travolgere la gente, per raggiungere un’andatura più spedita. Riuscì ad avvicinarsi alla meta più in fretta, e quando giunse nei pressi del molo vide uno sbarramento di persone che si assembravano in cerca di un imbarco. Si chiese come fare a superarlo senza nuocere a quella gente. Appena oltre c’erano le due navi su cui poteva portare in salvo la propria famiglia: le vedeva distintamente, a portata di mano. Gli sembrava quasi di poterle toccare. Ma doveva sfondare, come aveva dovuto fare tante volte in combattimento, affrontando una falange avversaria.

    Poi sentì il carro cigolare, e l’ancella gridare. Si voltò subito.

    E al di là della folla che lo separava da Minervina e dai suoi figli, vide quattro soldati nemici afferrare il parapetto e cercare di salire sul mezzo.

    Minervina se lo vide spuntare accanto all’improvviso: un soldato spiccò un balzo e scavalcò il bordo del carro, irrompendo al suo interno. E alle sue spalle ve n’erano altri. La donna si buttò istintivamente verso la parte anteriore del carro, accostandovi la cesta che conteneva i bambini, e lo stesso fece l’ancella, che ebbe la prontezza di scalciare i bagagli verso la parte posteriore, con la speranza che il razziatore si disinteressasse di loro e si avventasse sul bottino. La balia non ebbe riflessi altrettanto rapidi e rimase vicino all’entrata, trovandosi alla mercé del soldato, che la afferrò per un braccio e la scaraventò fuori dal carro. Il mezzo era quasi fermo, e un altro militare riuscì a entrare. Guardarono entrambi, indecisi, i bagagli e le due donne, senza far caso ai bambini; nel tumulto della folla che circondava il carro, probabilmente non ne avevano neppure sentito i gemiti.

    Il più vicino si avventò infine sulle casse e iniziò ad aprirle. Quando vide che si trattava di vestiti, ruggì di rabbia e scagliò una cintura addosso a Minervina. L’ancella si frappose ed evitò che l’oggetto finisse addosso ai neonati, ma il soldato dovette pensare che la ragazza gli stava saltando addosso; reagì subito, dandole un manrovescio che la fece ruzzolare di lato.

    Minervina urlò, mentre il secondo soldato apriva un’altra cassa. Era quella con i suoi gioielli e il denaro, con cui lei e Sesto contavano di andare avanti finché le acque non si fossero calmate e non avessero potuto recuperare le loro rendite.

    «Questo carro è requisito!», esclamò il legionario, e il compagno annuì compiaciuto. Altri si accalcavano lungo il retro del mezzo chiedendo a gran voce cosa avessero trovato. «Niente: solo queste due donne. Le volete?», gridò uno degli occupanti. Quelli all’esterno proruppero in fragorose risate e fecero cenno di mandarle da loro. Allora uno dei due afferrò il braccio dell’ancella, ancora tramortita dallo schiaffo di poco prima, e la trascinò verso il bordo, spingendola fuori. Minervina la vide mentre gli altri le strappavano i vestiti, poi però la visuale le fu ostruita dai due soldati all’interno del carro, che si avvicinarono a lei. Si accostò ancor più alla parete di cuoio che la separava dalla postazione di guida. Proprio quando il militare la afferrò per un polso, una lama di coltello spuntò dal cuoio, lacerandolo. Lo strappo si allargò in un istante, e dalla fenditura emerse Sesto, che si gettò con un ruggito sull’aggressore. Il pugnale si insinuò nel costato del soldato, che si accasciò sul fondo del carro, ma l’altro fu subito addosso a Martiniano, cingendolo alla gola con l’avambraccio. L’ex pretoriano divenne paonazzo in volto. Brandì a vuoto il pugnale insanguinato, mentre Minervina non sapeva più se rimanere a proteggere i bambini o provare a colpire l’aggressore. Intanto, i soldati appena fuori avevano visto cosa stava accadendo e qualcuno faceva mostra di voler salire a dare manforte al commilitone.

    Sesto sembrava sul punto di soffocare. Doveva fare qualcosa, si disse Minervina. Lui l’aveva appena salvata, per ben due volte, e adesso toccava a lei. Afferrò dalla cassa dei preziosi uno dei sacchetti e, mettendo nel braccio tutta la forza che aveva, lo sbatté sul fianco del soldato. Quello si scostò un istante, sufficiente a permettere a Sesto di menare col pugnale un fendente all’indietro, che fece finire la lama direttamente nell’occhio dell’aggressore. Questi si accasciò urlando, ma intanto altri soldati stavano salendo. Minervina aprì allora il sacchetto e tirò loro addosso una manciata di monete, quindi prese un altro sacchetto e lo scagliò fuori.

    Sesto la guardò, capì, e la imitò con un paio di altri sacchetti. I soldati erano disorientati, e dopo qualche istante in cui si mostrarono indecisi sul da farsi, finirono per dedicarsi ai soldi, che iniziarono a disputarsi con accanimento. Minervina avrebbe voluto approfittarne per riprendersi l’ancella, ma ormai non la vedeva più: qualche soldato doveva essersela portata via. Sesto riempì una borsa con qualche sacchetto, poi la esortò a prendere i bambini e a passare attraverso la fenditura. Minervina raggiunse il posto di guida, dove trovò i due schiavi da cui si erano fatti accompagnare. Sesto la seguì subito, riprese le redini e spronò i cavalli. Ma ormai la calca si era fatta più fitta e non c’era più modo di avanzare.

    Sesto decise di scendere dal carro, poi aiutò lei a fare altrettanto. Minervina avrebbe voluto tenersi stretta la cesta con i bambini, ma non appena fu in piedi si sentì quasi mancare; le forze non le erano ancora tornate. Sesto le strappò la cesta e la assegnò al più robusto dei due schiavi, ordinando all’altro di sostenere la donna. «State tutti in fila dietro di me!», esclamò, poi estrasse la spada dal fodero e iniziò a rotearla intorno a sé.

    La gente dovette ritenerlo uno degli assedianti e si affrettò a scansarsi: era tutto sporco di sangue e sembrava invasato, e tutti quelli intorno a lui erano terrorizzati. Il piccolo gruppo poté pertanto avanzare di qualche passo verso il molo. L’uomo parve puntare verso due liburne che traboccavano di soldati sui ponti. «Forza! Dobbiamo raggiungerle prima che salpino!», le confermò Sesto continuando a farsi largo tra la gente: tutti cercavano un passaggio sui dromoni da trasporto, i cui capitani erano sul molo a trattare il prezzo della salvezza con i profughi giunti a contatto con loro. Nessuno, invece, si avvicinava alle liburne, forse per la soggezione che emanava la presenza dei militari a bordo.

    Minervina vide una delle due navi staccarsi dal molo. Contemporaneamente, Sesto lanciò un grido di frustrazione; era quella verso cui si stava dirigendo. Cambiò direzione e puntò deciso l’altra. La donna notò che stavano mollando gli ormeggi e si sentì perduta. Nonostante lo schiavo la stesse sorreggendo, temeva di svenire da un momento all’altro; si voltava in continuazione per controllare che l’altro servo fosse sempre al loro fianco, con i bambini in braccio, ma la testa le girava vorticosamente, il respiro le mancava, la vista le si era appannata. Fu presa da un senso di disperazione e fu vinta dal panico, scoppiando a piangere a dirotto.

    «No!», urlò Sesto, cercando di richiamare l’attenzione dei soldati e dei marinai a bordo. Quelli si accorsero di lui, forse lo riconobbero, perché si sbracciarono a loro volta, ma a quanto pareva era ormai troppo tardi: la nave aveva iniziato a staccarsi dal molo. Minervina sentì accentuarsi la ressa alle sue spalle; si voltò, e vide che soldati dell’imperatore cercavano di farsi largo tra la folla a suon di fendenti; molte persone si diedero precipitosamente alla fuga, travolgendo i loro stessi concittadini.

    Guardò disperata i propri figli. Il Signore, a quanto pareva, le aveva fatto la grazia di donarglieli, ma solo per toglierglieli subito dopo. Evidentemente, i tanti peccati di lussuria commessi in precedenza non la rendevano degna di un tale dono.

    Si sforzò di convincersi ad accettare con serenità il proprio destino, e pregò Cristo perché salvasse almeno quegli innocenti: che pagasse solo lei, per le sue manchevolezze. Le parve di sentire Sesto gridare di gettare due corde. Guardò senza speranza il suo uomo, al tempo stesso ammirandolo per il suo coraggio e compatendolo per i suoi inutili sforzi. Le due cime arrivarono sul molo. Sesto le raccolse e disse ai due schiavi di avvicinarsi. Minervina lo osservò legarla sotto le ascelle e fare la stessa cosa con se stesso. Poi il soldato si fece dare la cesta coi bambini. «Cerca di rimanere sveglia, Minervina. Sarà dura, ma possiamo farcela».

    La donna lo guardò senza capire. Lo vide alzare il braccio verso la nave, e subito si sentì tirare in acqua. Intravide Sesto finire a sua volta nel mare, ma con maggiore cautela, cercando di controllare gli scossoni. L’impatto con l’acqua la rivitalizzò; la corda la trascinava verso la nave, ma lei cercava in continuazione con lo sguardo il suo compagno e i figli. Vide Sesto tenere la cesta sollevata sulla superficie dell’acqua e assecondare col nuoto lo sforzo degli uomini a bordo di tirarlo su.

    La distanza tra la nave e il molo era breve. Sesto urlò che facessero salire prima lui, e quando fu a ridosso della chiglia lo issarono lungo la fiancata, aiutandolo a superare l’impavesata. Poi fu il turno di Minervina; la donna smaniava per sapere se i suoi figli erano sopravvissuti a quell’immane strapazzo, e non badò al dolore che provava mentre la tiravano su, con la corda che comprimeva muscoli e ossa da poco sottoposti allo sforzo del parto. Una volta superato il parapetto, si gettò verso Sesto e i figli, ma i soldati che l’avevano issata la sostennero per evitare che perdesse l’equilibrio. Fu il compagno ad avvicinarsi a lei, e il suo sorriso le fece capire, ancor prima di vederli, che erano incolumi.

    Ringraziò il Signore: forse l’aveva davvero perdonata.

    II

    «Ti ricordi di tua madre, Crispo?». Il figlio di Costantino sollevò lo sguardo dall’edizione del De bello gallico che il suo precettore gli stava facendo leggere, e fissò la donna che gli aveva fatto la domanda. Fausta, la sua matrigna, era entrata nel tablino del palazzo imperiale di Treviri con passo talmente felpato da non essersi neppure accorto della sua presenza. Guardò il suo precettore, il vescovo di Cordova Osio, che considerava più autorevole di quella ragazza, e attese il suo permesso per risponderle.

    Osio guardò Fausta in un modo che Crispo giudicò strano, tra l’infastidito e l’incuriosito, poi annuì. «Ricordo molto poco di lei», rispose infine il bambino, sospettoso. In qualche modo, si sentiva sempre piuttosto turbato dall’imperatrice, di cui non riusciva mai a interpretare l’atteggiamento. Gli pareva di suscitare in lei un misto di antipatia e simpatia, ma non capiva mai quale dei due sentimenti prevalesse in un determinato momento. E il suo turbamento era accentuato dalla bellezza della ragazza, che non riusciva proprio a ignorare e che gli provocava delle scosse allo stomaco ogni volta che la vedeva apparire. Come in quel momento.

    Fausta gli sorrise senza allegria, poi guardò il suo precettore. «Tu puoi uscire, mio buon Osio», gli disse, assumendo un tono più aspro.

    «Ma… Non abbiamo finito la lezione», obiettò il vescovo.

    «Riprenderete dopo. Avrò pure il diritto di parlare con il mio figliastro», ribadì Fausta. «Quando non è con te è a esercitarsi con le armi, e sottrarlo ai soldati è ancora più difficile che sottrarlo a te».

    Osio si alzò, chinò il capo in segno di deferenza e uscì. Per qualche motivo che non sapeva spiegare, Crispo avrebbe preferito che fosse rimasto. Di Fausta, in un certo senso, aveva paura. Ma l’unico che poteva permettersi di non ubbidire all’imperatrice era l’imperatore, ovvero suo padre Costantino.

    Quando il vescovo chiuse la porta alle sue spalle, Fausta si avvicinò a Crispo, arrivando a sfiorargli il braccio mentre si sedeva sul tavolo, accanto al libro aperto, accavallando le gambe. Il bambino si sentì investito dal suo intenso profumo di rose e olive, il metopium; la scrutò per un istante, rendendosi conto di desiderare di essere cullato nel suo grembo, ma subito se ne vergognò e distolse lo sguardo. Osio gli aveva insegnato che per seguire la via di Cristo era necessario soffocare ogni desiderio, soprattutto quelli impuri. E quel che stava accadendo, sebbene non gli fosse chiaro il perché, gli dava la sensazione di essere impuro.

    «Dimmi una cosa di lei che ti ricordi», lo incalzò Fausta chinando il capo e accarezzandogli la nuca. Crispo sentì la fragranza del suo alito delicato, e represse il desiderio che quelle labbra carnose lo baciassero.

    Iniziò a sudare, e abbassò ancor più la testa sul libro di Cesare. «Ricordo… i suoi occhi», balbettò. «Sì, i suoi occhi erano molto belli: sembravano acqua marina in un giorno di sole. Ma anche i suoi capelli… splendevano sempre, erano biondissimi, come il grano maturo nei campi. Ah, e poi sorrideva: sorrideva sempre e mi faceva divertire molto…».

    «Era molto bella, dunque?». Fausta arrivò quasi a sussurrargli le parole all’orecchio. Crispo fu preso dal panico; avrebbe voluto scappare via. Soprattutto quando Fausta aggiunse: «Forse è così: anche tu lo sei, e sei anche molto robusto e sviluppato, per la tua età. Ma non mi stupisce: tuo padre è un colosso…». E gli strinse la spalla, facendolo fremere.

    «S-sì… credo di sì. Anche se ricordo che era molto magra», biascicò. Da quel poco che ricordava, era decisamente il contrario di Fausta: l’imperatrice aveva forme generose, era bruna e con gli occhi scuri, e soprattutto, rideva poco. Era molto bella anche lei, ma in un modo diverso. In un modo… inquietante.

    «Più bella di me?», lo tormentò. No, non le era mai parsa una persona buona.

    Crispo si sentì terribilmente a disagio. Non sapeva cosa rispondere e non voleva indisporla. Aveva paura di Fausta. «Siete… siete tutte e due molto belle», finì per dire tenendo basso lo sguardo, sperando che si accontentasse.

    Lei non rispose, e il bambino osò sollevare la testa e fissarla. Incontrò due occhi di ghiaccio, e dovette soffocare l’impulso di piangere.

    «Tutte e due molto belle… Suppongo di dovermi accontentare, visto che lei era tua madre e tu, per lei, hai un occhio di riguardo», commentò infine l’imperatrice, stringendosi nelle spalle e ostentando noncuranza. «Però…», aggiunse con un tono più deciso, facendo una pausa che pesò come un macigno sull’animo agitato di Crispo. «…Però, io sono l’imperatrice, e lei era una concubina», dichiarò solennemente.

    «Cosa è una concubina?», chiese Crispo, che ignorava il significato del termine.

    «Una puttana», rispose senza esitazione Fausta.

    Quella era una definizione che aveva sentito usare, talvolta, tra i soldati con cui si esercitava. Ma il significato non gli era comunque chiaro. Tuttavia non osò chiedere spiegazioni: aveva l’impressione che si trattasse di qualcosa di assai poco lusinghiero.

    Fausta colse le sue perplessità. «Non sai che significa? è una donna che si concede facilmente agli uomini, il più delle volte per denaro».

    «E… è una cosa brutta?», chiese ingenuamente Crispo, che proprio non capiva dove volesse andare a parare l’imperatrice.

    «Direi. L’amore non è qualcosa che si compra», gli spiegò Fausta. «Puttane e concubine si fanno comprare: stanno con altri uomini per convenienza, al di fuori del sacro vincolo del matrimonio. Ci guadagnano, insomma, a stare con gli uomini: vestiti, gioielli, potere, soldi…».

    Crispo si chiese che differenza ci fosse tra il ruolo di sua madre e quello della ragazza che gli stava di fronte, ma non si azzardò ad approfondire il concetto.

    «Insomma, non amava tuo padre, e giustamente lui si è stufato e l’ha allontanata».

    «E tu… lo ami?»

    «Certo che lo amo! E lui ama me», si affrettò a specificare Fausta. «E sono certa che la nostra unione sarà benedetta dagli dèi con tanti figli, quando sarà il momento», aggiunse, con quella che a Crispo parve una punta di rammarico.

    «Ma voi… siete sposati da anni. Perché non li avete già fatti, i figli?», chiese, incuriosito.

    Fausta emise un profondo sospiro. «Gli dèi hanno deciso che è ancora troppo presto, a quanto pare», rispose l’imperatrice, accentuando la confusione del ragazzino. Il suo precettore lo stava educando al culto di un unico vero dio, quello venerato dai cristiani, ma l’imperatrice dava importanza solo a quelli che venivano definiti gli dèi tradizionali, e molti a corte la pensavano come lei. Costantino gli aveva spiegato che Cristo era il più forte di tutti, perché gli aveva permesso di acquisire il potere e avrebbe tenuto unito l’impero; ma Crispo trovava incomprensibile che i seguaci del dio cristiano lo considerassero il solo esistente, mentre tutti gli altri sostenevano che si trattasse di un dio minore, senza però negarne l’esistenza.

    «Io sono perfettamente in grado di procreare… E ci stiamo provando, quando è possibile», proseguì Fausta. «Ma tuo padre è sempre così impegnato… Spesso, come adesso, è lungo i confini a combattere i barbari, e quando è più tranquillo deve viaggiare attraverso le principali città del suo impero; oppure, se è qui, rimane fino a tardi a lavorare sulle sue scartoffie. Per amarsi bisogna trovare il modo e il tempo di stare insieme. E con lui bisogna trovare sempre il momento opportuno…», sbuffò con aria annoiata.

    Crispo pensò che forse il padre si era stufato pure di lei. Quindi forse considerava anche Fausta una concubina, una puttana. Ma ritenne opportuno tenere per sé quel suo pensiero…

    Osio uscì innervosito dal tablino dove studiava con Crispo. Il riferimento di Fausta a Minervina lo aveva indisposto. Sebbene la donna appartenesse alla sua vita precedente, quando era un generale e un senatore romano, e non un vescovo, consigliere personale dell’imperatore e precettore del suo unico figlio – ovvero la seconda persona più importante dell’impero occidentale – le era ancora molto legato. L’aveva sposata, dapprima per lenire il senso di colpa seguito all’assassinio di suo padre, avvenuto quasi trent’anni prima; ma poi era stato conquistato dalla sua purezza, dalla sua ingenuità, che non era mai stata intaccata dai numerosi tradimenti di cui era stato vittima: Minervina era l’unica persona al mondo ancora disposta a considerarlo un uomo per bene, e solo la sua fragilità l’aveva indotta a cedere alle lusinghe di uomini più aitanti e giovani di lui, come Sesto Martiniano e lo stesso Costantino, o a concedersi per disperazione ai sordidi clienti dei più malfamati bordelli di Roma.

    Nel suo spirito infantile, nella sua bontà di fondo che la spingeva a non concepire il male negli altri, Minervina non aveva mai neppure percepito la sua brama di potere, la sua mancanza di scrupoli, che fin da piccolo lo avevano reso odioso anche agli occhi dei coetanei; ancora adesso, ne era certo, la donna pensava che Costantino l’avesse scaricata per la ragion di Stato, e non perché ne aveva abbastanza di lei. Era sempre disposta a giustificare tutti, e gli aveva fatto bene essere stato suo marito: si era sentito migliore. Per questo le sarebbe stato sempre grato, e sperava sinceramente che si trovasse bene con Sesto Martiniano, cui aveva procurato un lasciapassare all’indomani della battaglia di Ponte Milvio, salvandolo dalla vendetta di Costantino contro tutti i pretoriani.

    Ma adesso si era proiettato in un’altra dimensione. Aveva la responsabilità di un impero, ovvero, ciò che aveva sempre desiderato e a cui aveva sempre puntato. Costantino faceva affidamento su di lui perché le cose funzionassero a dovere e perché il loro potere si consolidasse. C’era tanto, tantissimo da fare, ancora, per rendere stabile e duratura la sua corona, barbari da respingere, rivali da combattere, e un sistema religioso e politico da affermare. Ed era lui a dover mantenere un complesso equilibrio, mentre l’imperatore giocava a fare quello che gli riusciva meglio: il soldato. Era di certo più facile menare le mani su un campo di battaglia che costruire e consolidare un impero, amministrarlo e gestire la sua trasformazione da compagine precaria, ancora legata a vecchi e logori schemi, a una realtà più solida e coesa, dove tutti gli abitanti fossero partecipi di un comune destino, di una missione divina che li responsabilizzava inducendoli all’ordine, al rispetto delle regole e del sovrano.

    Era per questo che aveva puntato tutto sul cristianesimo. Era per questo che si era fatto vescovo. Era per questo che aveva scelto Costantino, tra i tanti sovrani che, nell’ultimo trentennio, si erano disputati il predominio di Roma.

    Solo il cristianesimo, capace di riemergere più potente che mai dalle atroci persecuzioni subite anche in tempi recenti, aveva la forza trainante per unire aristocratici e plebe in un comune obiettivo, per imporsi come l’unica religione spazzando via tutte le altre e dando coesione all’impero.

    Solo come insigne esponente di quella religione Osio avrebbe potuto orientare le masse verso scelte politiche formalmente giustificate dalla necessità di consolidare il loro credo, e gestire l’enorme flusso di denaro e sovvenzioni che i ricchi cristiani, per salvare la loro anima, erano disposti a investire perché Cristo, morto e risorto in Palestina tre secoli prima, ricevesse l’adorazione che meritava.

    Solo Costantino, tra gli imperatori, si era dimostrato convinto che il cristianesimo fosse il più efficace degli strumenti di potere, e disposto a lasciargli carta bianca per provvedere alla sua affermazione. Solo lui aveva la determinazione e la sfrenata ambizione per prevalere nelle feroci lotte per la supremazia che dilaniavano l’impero da quasi un secolo. E quanto era accaduto fino ad allora, con la sua irruzione nella tetrarchia a dispetto della sua iniziale esclusione, e il consolidamento del suo trono a scapito degli altri, fino a diventare il più potente tra gli imperatori rimasti, dimostrava a Osio che aveva puntato sul cavallo vincente.

    Ma non bastava a nessuno dei due che Costantino fosse il più potente degli imperatori superstiti; Augusto, per compiere la sua rivoluzione e portare a compimento le sue riforme, non si era accontentato di dividere l’impero con Marco Antonio. Doveva essere l’unico. E c’era ancora molto da fare, per conseguire l’obiettivo. Anche per questo, Osio aveva scelto la vita ascetica di un uomo di Chiesa; nulla doveva distrarlo dalla sua missione: fare in modo che il dio dei cristiani diventasse l’unico dio dell’impero, perché anche Costantino fosse l’unico imperatore. Il sovrano era persuaso di dover affermare il credo cristiano, ma era ancora legato alla concezione di tolleranza che aveva sempre caratterizzato la tradizione romana, dove tutti gli dèi erano ben accetti, a patto che non interferissero con i doveri sociali e politici dei cittadini, come talvolta era accaduto per i cristiani, che si erano rifiutati di servire nell’esercito, e di sacrificare in favore dei sovrani. Ma Costantino aveva intenzione di fare sempre più affidamento sui barbari mercenari per i suoi eserciti, e non gli

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