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Costantino XI Paleologo. Basileus
Costantino XI Paleologo. Basileus
Costantino XI Paleologo. Basileus
E-book394 pagine4 ore

Costantino XI Paleologo. Basileus

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Info su questo ebook

1453 d.C. - Costantinopoli è sotto assedio, in procinto di cadere sotto i terribili
attacchi delle armate Ottomane del sultano Maometto, in quello che sarà uno dei fatti di guerra
più sanguinosi e memorabili del Medioevo e della storia intera.
Costantino Paleologo, l'ultimo imperatore d'Oriente, cerca disperatamente di opporsi
con tutte le forze a quella che è la fine preannunciata di un impero millenario.
Ma presto, rimasto isolato e senza aiuti, realizza che tutto è perduto e decide di sparire
assieme al suo mondo, lanciandosi come un martire tra i nemici ormai entrati in città.
Ma il destino sembra avere altri piani per lui.
Il suo tempo non è ancora giunto. Ci sarà forse ancora modo per lui, e per il suo impero,
di tornare a esistere. Che sia a Costantinopoli, o agli estremi confini del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2019
ISBN9780244186845
Costantino XI Paleologo. Basileus

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    Anteprima del libro

    Costantino XI Paleologo. Basileus - Patrizio Corda

    riservati.

    Costantino

    XI Paleologo

    Basileus

    Patrizio Corda

    A Giulia

    I

    La colpa

    Varna, 10 Novembre 1444 d.C.

    Il fumo iniziò a dissolversi dopo ore passate a coprire il cielo, che solo allora iniziava a tingersi del rossore del tramonto imminente.

    La piana aveva perso le sue fattezze originarie. Era ora una distesa dai rilievi incerti, deturpata da sommità sorte improvvisamente in una giornata che era parsa durare in eterno.

    Ma non vi era nulla di naturale in quelle sagome che si confondevano nella penombra della sera.

    Erano corpi.

    Migliaia di corpi disseminati, ammassati gli uni sugli altri fino a formare cumuli alti quanto e più di un uomo. Le armature erano ammaccate, le vesti lacerate e le maglie di ferro ridotte a pezzi.

    Il sangue aveva annerito il terreno, rendendolo umido e fetido.

    Neanche i cavalli erano scampati all’eccidio. Alcuni di loro giacevano a terra esanimi, agonizzanti con le zampe spezzate, in supplice attesa di qualcuno che ponesse fine alle loro sofferenze.

    E sotto i loro possenti corpi che si contraevano per gli spasmi, altri uomini, ormai già consegnatisi alla pietà del Signore, morti schiacciati dai loro stessi compagni anziché dai nemici.

    Nemici dell’umanità e della Fede.

    Avevano riempito di colpo l’orizzonte, mostrando la vera dimensione della loro sterminata e invincibile armata.

    E avevano travolto l’esercito di Cristo, spazzandolo via con una forza che mai si era vista su un campo di battaglia.

    Il silenzio che permeava l’aria sembrava ancora portare le grida, i richiami, le preghiere e le urla di dolore dei Crociati, mentre le forze dell’Anticristo si abbattevano su di loro.

    Solo un leggero crepitio, appena udibile, sussurrava nella quiete.

    Un vessillo con una croce rossa su fondo bianco, come per magia ancora piantato al suolo, ardeva. Sembrava vegliare sulle migliaia di morti, su tutte quelle anime che erano salite al cielo nel disperato tentativo di impedire l’inevitabile, di arginare un potere oscuro che la follia di un solo uomo aveva deciso di scatenare.

    E quell’uomo, incredibilmente, era il capo della Chiesa.

    Nonostante le vittorie iniziali dei Crociati sull’esercito degli Ottomani, Papa Eugenio IV aveva ritenuto che ciò non potesse essere sufficiente. Era necessario schiacciare definitivamente la minaccia degli infedeli.

    Il Cristianesimo doveva prevalere.

    E non solo religiosamente, ma anche politicamente e militarmente. Di fatti, aveva deciso di imbarcarsi in quella spedizione, offrendo il suo appoggio e i suoi uomini, solo in cambio dell’unione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Con ovvio giovamento da parte sua. Ma quando aveva intravisto la possibilità di estendere la sua influenza anche sui Balcani, non aveva resistito.

    I Crociati erano realmente parsi in grado di poter respingere gli Ottomani.

    A quel punto, Eugenio era stato come colto da una smania indegna eppure irresistibile anche per un uomo di Chiesa.

    La smania di avere sempre di più. Di dominare tutto e tutti.

    E così aveva unito in nome di Cristo una sequela incredibile di popoli, tra Ungheresi, Polacchi, Boemi, Serbi e Bizantini, che per primi erano minacciati dai nemici. Proprio l’impero d’Oriente gli aveva chiesto aiuto e uomini, coinvolgendolo in quella spedizione che era diventata l’ultima Crociata. Quella lega aveva marciato unita contro gli Ottomani, seppur in palese inferiorità numerica.

    E aveva vinto.

    Almeno all’inizio.

    Quando il comandante supremo di quell’esercito eterogeneo, l’ungherese Giovanni Hunyadi, gli aveva comunicato l’intenzione di arrestarsi per non compiere avventatezze, Eugenio s’era sentito andare a fuoco. Proprio sul più bello, quando era così vicino ad accarezzare quel potere terreno mai realmente raggiunto, gli veniva ordinato di fermarsi, di rinunciare a terre, possedimenti e onori per la timidezza in guerra di uomini meno nobili di lui.

    Il sultano degli Ottomani, Murad, scoraggiato dalle sconfitte patite aveva addirittura sottoscritto un trattato con cui s’impegnava a desistere da qualsiasi offensiva per dieci anni.

    Ma ad Eugenio non era bastato.

    Aveva perentoriamente comandato che si procedesse, per liberare i Balcani tutti dalla minaccia eretica, che architettava senz’altro un nuovo assalto dietro quel trattato firmato solo per prender tempo.

    Attonito, Hunyadi si era visto costretto ad accettare per evitare di perdere tutte le forze fornitegli dallo Stato Pontificio e dai suoi alleati, senza i quali gli sarebbero rimasti ben pochi effettivi.

    Quello scoramento si era propagato a macchia d’olio tra i soldati, che avevano perso così di coesione e fiducia.

    Dando il là al preludio di una catastrofe senza precedenti.

    Le forze Ottomane, davanti al rifiuto del Papa di continuare la tregua, si erano ricostituite e rinforzate. Quando si erano mostrate ai Crociati, erano apparse come una marea umana.

    Sessantamila uomini, contro appena i ventimila di Hunyadi.

    Era stata una carneficina.

    La rotta degli Ungheresi comandati dal re Sladislao, morto nello scontro, aveva avviato un massacro in cui i giannizzeri, i feroci soldati scelti di Murad, avevano mietuto migliaia di vittime. E ora le forze di Cristo, gli uomini che Eugenio aveva mandato a morire in nome di Dio, giacevano riversi in una piana, condannati ad esser dimenticati da tutti, i loro resti nient’altro che un lauto pasto per avvoltoi e animali selvatici di passaggio.

    Anime pie che avevano abbandonato i loro corpi già putrescenti.

    Lo stendardo crociato smise di ardere, ormai ridotto a uno straccio incenerito. Cadde a terra senza far rumore.

    Un lungo, sinistro soffio di vento spiazzò la piana.

    Non era più rimasto un solo soldato Cristiano in vita.

    La furia di Murad era stata incontenibile, e presto le sue mire si sarebbero spostate verso altri, più grandi obiettivi.

    Questo, mentre il solo colpevole di quel disastro che sarebbe passato alla storia officiava la santa messa a Roma.

    II

    L‘eletto

    Mistra, Marzo 1445 d.C.

    Al mio adorato figlio Costantino,

    saluti.

    Mio caro, ti scrivo questa lettera mentre le mie lacrime bagnano l’inchiostro. Piango, Costantino, perché mi vedo costretta a darti una triste notizia che mai avrei voluto portarti.

    Tuo fratello Giovanni, il nostro amato basileus, il nostro imperatore, è caduto vittima di un male sconosciuto che neppure i più eminenti medici che abbiamo potuto reclutare a corte riescono a comprendere. Egli è sempre più debole, e ciò che è peggio il suo stesso animo pare affievolirsi e perdere energie ogni istante che passa. Indubbiamente, grava sul suo ancora giovane spirito la frustrazione per non essere riuscito a risollevare le sorti di questo nostro mondo, come aveva auspicato agli albori del suo regno.

    Avrei tanto voluto che tu potessi prepararti, figlio mio.

    Ma le circostanze sono calamitose, e mi vedo spinta a cercare di avvisarti per tempo, pur sapendo bene che di tempo non ve ne è.

    Ho sempre sostenuto che tu, tra tutti i miei figli, fossi quello più portato per il buon governo dopo il caro Giovanni.

    Egli ha fatto un buon lavoro, ed è amato e rispettato per la sua autorevolezza anche al di fuori di Costantinopoli.

    Ma sembra che il Signore abbia deciso che sia giunta l’ora di riaverlo con sé. Guardo i suoi occhi affranti, che hanno perso forza e vitalità, e non riesco a reggerli per più di pochi attimi.

    Mi si vela la vista per le lacrime a sapere che presto, dovrò dire addio a un altro dei miei amati figli. E sai bene, Costantino, quanti della prole mia e di vostro padre se ne siano andati prematuramente, come se la nostra nobile casata fosse caduta vittima di una maledizione irrevocabile.

    So che in Grecia, dove risiedi ora come despota di Morea, sei ben voluto e riverito in virtù della tua clemenza e del tuo carattere che ricordo affabile, moderato e vocato alla giustizia.

    Proprio per questo sono ad annunciarti che io, l’imperatrice dei Romei, Elena Dragases tua madre, ho intenzione di far sì che Giovanni ti designi come suo successore. Il basileus sa bene che la sua dipartita è vicina, e non avendo eredi sarà costretto ad eleggere a suo successore uno tra voi suoi fratelli.

    Non voglio che ciò che sto per dirti ti suoni malvagio e improprio di una madre, figlio mio, ma non posso nascondertelo.

    Guardati da coloro che condividono il tuo stesso sangue.

    Tuo fratello maggiore, Teodoro, benché si sia da tempo ritirato a vita privata non ha mai approvato il fatto che la Morea, uno degli ultimi possedimenti di questo nostro impero morente, sia andato in mano ai più giovani della famiglia.

    Non escludere la possibilità che, il giorno in cui Giovanni salirà al cielo, Teodoro possa tornare dal suo esilio autoinflitto reclamando ciò che gli spetta per diritto dinastico, ma non per capacità.

    So che il tuo cuore è ricolmo di bontà e innocenza, ma non può esservi spazio per queste quando le dinamiche del potere entrano in gioco. Accetta questo mio consiglio, che viene da decenni di esperienza maturata a corte.

    Anche l’altro tuo fratello Tommaso, con cui dividi il governo della Morea, che avete faticosamente riconquistato dando a Costantinopoli rinnovata potestà sulla Grecia, potrebbe rivelarsi un nemico una volta spirato Giovanni.

    Quanto più una persona ci è vicina, Costantino, tanto più viene a conoscere i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre virtù e le nostre debolezze. Sii abile nel nascondere queste ultime, e nel renderti invulnerabile a qualsiasi trama e a qualsiasi maldicenza.

    La modestia che alberga in te senz’altro ti farà credere di non essere sufficientemente degno di salire sul trono di Costantinopoli, regnando così sull’Oriente. Non dubitare di te stesso.

    Avrei tanto desiderato per te un governo in tempi migliori.

    Ma come sai bene anche tu, viviamo in anni di disgrazia.

    Dopo la catastrofica Crociata in cui quasi tutte le forze Cristiane sono state distrutte, siamo circondati dalle orde degli Ottomani.

    Speravamo di risollevarci, grazie alla coalizione di eserciti che avevamo radunato in cambio dell’unificazione delle Chiese.

    Ma così non è stato.

    Non ti nego che spesso, alla notte, mi chiedo se ciò non sia una punizione per qualche atteggiamento di superbia che abbiamo tenuto in passato. Eppure, non riesco a darmi risposta.

    So solo che questo mondo in cui viviamo, figlio mio, è un continuo divenire, un fluire inarrestabile di eventi che si susseguono, e in cui noi, per quanti onori possiamo ottenere in terra, non siamo che insignificanti figure di passaggio.

    Tutto si muove, e tutto cambia.

    Anche ciò che sembra immutabile ed eterno.

    I popoli che un tempo vagavano raminghi per le terre più remote del mondo ora schiacciano noi, che un tempo dominavamo ovunque risplendesse il sole.

    Tutto può essere, e tutto può cambiare.

    Sia su grande scala, che su piccola scala, nelle nostre vite private.

    Per questo ti chiedo, figlio mio amato, di prepararti a ciò che sarà deciso per te. E a dimenticare il significato del legame di sangue.

    Una volta vestita la porpora, non avrai che nemici.

    E tutto l’onore del mondo.

    Spero di ricevere presto una tua lettera, e di poter leggere quelle parole illudendomi di udire la tua voce, che ricordo sempre dolce e gentile. Sappi che ti tengo sempre nei miei pensieri.

    Possa il Signore mantenerti in buona salute,

    Elena Dragases, Basilissa dei Romei

    III

    L’eredità di Teodosio

    Istmo di Corinto, 11 Dicembre 1446 d.C.

    «Sfranze…»

    Giorgio Sfranze rimase a osservare Costantino, il rampollo della casata dei Paleologi, mentre questi era seduto a terra, lo sguardo vuoto fisso su ciò che rimaneva delle imponenti mura di Hexamilion.

    Scosse il capo, celando il dispiacere dietro la folta barba ingiallita e il reticolo di rughe che gli solcavano il viso cereo e tirato, dandogli l’aspetto di un vecchio e non di un uomo di quarantacinque anni.

    Costantino XI, figlio di Manuele ed Elena Dragases e fratello del basileus Giovanni, gli parve un bambino alle prese con la prima, reale delusione della propria esistenza.

    Tanto gentile e mansueto nell’animo era quell’uomo poco più giovane di lui da sembrargli quasi incapace di comprendere la situazione stessa, che pareva veramente tragica.

    Il despota di Morea, l’ultimo reale possedimento dell’impero d’Oriente, sembrava non capacitarsi di come quelle mura monumentali, che si snodavano per sei miglia lungo tutto l’istmo di Corinto, potessero essere crollate.

    Erano state erette oltre mille anni prima dall’augusto Teodosio II, in un periodo in cui le minacce barbariche avevano reso necessaria la costruzione di una barriera che proteggesse l’intero Peloponneso. Erano sempre stato uno spettacolo unico da rimirare, così forti, ricche di storia e impenetrabili.

    Apparentemente, immortali.

    Ma poi, erano arrivati gli Ottomani. Come una punizione divina.

    Sfranze si passò una mano sulla barba senza dir nulla, posando l’altra sulla spalla di Costantino. Avrebbe avuto tutto per poter essere in futuro un grande imperatore: il fisico aitante, il bel volto dai tratti fini incorniciati da una barba castana curata e fluenti capelli tirati all’indietro, un’eleganza naturale e una mente brillante, coadiuvata da uno spirito puro e tendente in maniera innata alla giustizia e ai buoni sentimenti.

    Forse troppo.

    Ecco qual era il difetto del povero Costantino. Era troppo buono, troppo onesto, quasi cieco e incapace di razionalizzare la malvagità umana e le disgrazie che ne erano l’amaro frutto.

    Ecco perché giaceva a quel modo, dimentico della sua regalità e del suo ruolo, senza energie, capace solamente di fissare le macerie fumanti, quei blocchi un tempo insuperabili e ora distrutti, ridotti in migliaia di pezzi, e i corpi carbonizzati per effetto delle terribili cannonate degli Ottomani.

    Già ai tempi di suo padre Manuele i Turchi avevano violato quelle mura protettive, costringendo il reggente di Costantinopoli a vuotare le casse imperiali già allo stremo per ricostruirle. Costantino aveva deciso di dedicarsi anima e corpo nel continuare l’impresa del padre, riuscendo a trovare grazie al suo buon governo i fondi per riparare una volta ancora quello schermo che avrebbe protetto la Morea da qualsiasi insidia esterna.

    Ma non era valso a niente.

    Doveva essere anche quello, pensò Sfranze, a straziare l’animo di Costantino. La convinzione crescente che, per quanto si sforzasse, l’intera sua casata fosse destinata a soccombere, a vedere le proprie speranze costantemente ridotte in brandelli, sempre per mano delle armate del sultano Murad.

    Non dubitava che Costantino avesse un qualcosa nel suo carattere che lo rendesse ancora troppo fragile per regnare con pieni poteri.

    Ma non poteva neppure negare che la sequela di disastri e delusioni che aveva dovuto sopportare sino ad allora il suo buon amico avrebbe incrinato la fiducia e l’ottimismo di qualsiasi uomo.

    «Amico mio» disse a quel punto cingendolo paternamente.

    Costantino chinò il capo. Sul viso aveva un’espressione indefinita eppure inquietante, di chi è nel pieno di un vortice di pensieri tendenti all’autolesionismo e alla voglia di arrendersi.

    A Sfranze si strinse il cuore.

    Doveva tanto ai Paleologi e all’affetto di Costantino, che aveva sensibilmente favorito la sua ascesa arrivando a chiamarlo a sé in Morea, facendolo governatore. E in virtù del nobile sentimento che li legava, non avrebbe permesso che l’oblio, la depressione e l’apparente ineluttabilità dello sfacelo cui andava incontro il loro mondo avessero la meglio su di lui.

    Non poteva rassegnarsi all’idea che il suo amico e benefattore fosse un debole, un uomo incapace di rialzarsi e combattere.

    Troppe erano state le occasioni in cui aveva dimostrato di essere un uomo di un’intelligenza folgorante, capace anche di ardue decisioni e grandi sacrifici per il bene della collettività.

    Non poteva essersi sbagliato sul suo conto. E ciò non aveva nulla a che vedere col suo orgoglio personale.

    Si trattava di tener vivo l’ultimo, vero sovrano che avrebbe potuto risollevare le sorti di un impero un tempo vastissimo e florido, che si era nei secoli ridotto a poche terre, una delle quali appunto la Morea, illuminata dalla luce di Costantino.

    «Supereremo anche questa» gli sussurrò alle orecchie, rialzandolo di peso.

    Costantino tenne lo sguardo a terra, annuendo poco convinto.

    «Queste macerie non contano nulla. La materia si estingue. Ma la storia rimane. Un augusto ha eretto questa barriera. E a te spetta il compito, che questa esista ancora o meno, di portare avanti la sua opera. Per il bene di tutti noi».

    Gli splendidi occhi verdi di Costantino brillarono per un istante, facendo capire a Sfranze che quelle sue poche parole avevano avuto in minima parte l’effetto sperato.

    Gli parve quasi di percepire l’energia e il calore che questi riusciva ad emanare nei momenti di pieno entusiasmo. Sì, era riuscito a far tornare ad ardere il suo fuoco interiore.

    «Ancora una volta, non posso che arrendermi al tuo eloquio, Sfranze» sorrise mestamente. «Andiamo».

    E abbracciati in maniera quasi cameratesca, continuarono a camminare mentre il tramonto si spandeva nel cielo, occultando misericordioso quello spettacolo di morte e devastazione.

    IV

    Virtù

    Mistra, Marzo 1447 d.C.

    Pur essendo la primavera alle porte, era ancora pungente il freddo alle pendici del monte Taigeto. Si potevano ammirare le sue vette ancora bianche, la neve a gravare sui rami degli alberi che ne cingevano i fianchi. Costantino rimase per un po' a scrutarne le altezze poi si voltò, camminando blandamente sotto i porticati della sua residenza. Da questi, era possibile perdersi nell’immensità dell’orizzonte, col mar Mediterraneo che appariva come un’interminabile tavola piatta, di un azzurro profondo.

    Giunse fino al termine del camminamento, e restò in silenzio a contemplare il mare, adagiato contro una colonna.

    Sfranze gli si avvicinò, stringendosi nel mantello.

    «Sai che ti dico, Sfranze?» disse Costantino rompendo il silenzio. «Che tutto ciò fa parte di un disegno più grande di noi».

    «Non ti capisco» fece questi aggrottando le sopracciglia.

    Costantino sorrise senza malizia, ma con una punta di soddisfazione per aver realizzato qualcosa che sfuggisse al suo argutissimo amico e consigliere.

    «Pensaci bene. Da che gli Ottomani sono diventati una minaccia concreta, molto è cambiato attorno a noi. Non solo politicamente, ma anche spiritualmente. Non ti rendi conto che addirittura il Papa si è fatto corrompere dalla smania di potere?»

    Poi si voltò, vedendo che Sfranze non rispondeva.

    «Non c’è bisogno di essere diplomatici anche adesso, andiamo. Siamo solo noi due, ora. So che lo pensi. Abbiamo offerto anni or sono allo Stato Pontificio la possibilità di regnare sulle due Chiese unite, eliminando ogni disputa religiosa in cambio di un supporto militare. Eppure, pur avendo la pace a portata di mano, è stata l’avidità del Papa, il suo voler conquistare nuove terre che ha compromesso la Crociata. E se addirittura il capo della Chiesa ha uno spirito corrotto, significa che in definitiva la razza umana nella sua interezza è irrecuperabile».

    Sfranze si grattò il capo su cui rimanevano pochi, radi e lunghi capelli color paglia, e lo affiancò. Rimasero in silenzio per un poco, ad ammirare il mare calmo e placido, indifferente ai loro patemi.

    «Dev’esser questo. Gli Ottomani devono essere i messaggeri della fine dei tempi. Non c’è altra spiegazione. Guarda come hanno raso al suolo le mura di Hexamilion, riprendendosi tutta la Morea che avevamo conquistato al prezzo di vite umane e immani sacrifici!»

    «Non tutto è perduto…»

    Costantino si voltò di scatto, ma senza la forza di fulminare Sfranze con uno sguardo di rimprovero. Fu più come se lo implorasse tacitamente di argomentare quella sua frase così vacua.

    «Se ritieni sia così, perché allora io, Costantino Paleologo, figlio e fratello di imperatori, sono ora costretto a pagare un tributo a questi barbari incivili?» gli chiese, soffocando la rabbia.

    «Era la cosa migliore da fare, al momento».

    «Sono stanco di vivere attimo per attimo, Sfranze! Non posso sopportare una simile umiliazione, che getta nella vergogna anche il basileus mio fratello. Sono ormai convinto che regnare non sia cosa per me. Guardalo, il mio regno!» esclamò invitandolo a osservare le cittadine che erano sparpagliate al di sotto di quella loro terrazza naturale.

    «Solo sulla carta regno su questi luoghi! E il popolo lo sa! I Paleologi, i signori di Costantinopoli, ridotti a miseri tributari del sultano Murad! Costretti a pagare , a pagare per poter prolungare questa farsa di regno, e non essere scacciati!»

    Sfranze sospirò. Come tutti i talentuosi e gli illuminati, Costantino era vittima di un’atavica incostanza. Altalenava esaltazioni improvvise e coinvolgenti a lunghi, logoranti periodi di frustrazione, pericolosamente vicini all’autolesionismo.

    La pace in Morea aveva solo momentaneamente placato questa sua natura ondivaga, sintomo di una fragilità interiore che, come la storia insegnava, aveva spesso contraddistinto i giovani membri delle più grandi dinastie detentrici del potere assoluto.

    E in quel momento, il povero Costantino era pienamente vittima del lato peggiore di sé. Incapace di far altro se non attribuirsi le colpe di un qualcosa ben più grande di lui, senza razionalizzare gli eventi. Quasi felice di crogiolarsi nel disprezzo per sé stesso, per la sua inesperienza e la sua inadeguatezza.

    Come se da solo avesse potuto contrastare l’invincibile Murad, che aveva messo in ginocchio l’intero mondo Cristiano oltre ad avergli strappato la Morea, sulla quale aveva regnato.

    «Io ti conosco, Costantino. E lo sai. Non fosse vero, mai mi avresti concesso l’onore di esercitare sotto di te. Quindi ti dico, amico mio, che devi concederti non tanto il perdono, quanto il riposo. Intendo il riposo da questi pensieri che non corrispondono al vero, e certo non ti giovano. Per te parlano i fatti, e la vita che i cittadini di Morea han condotto sino a oggi».

    «Tu mi aduli» sorrise amaramente Costantino.

    «Non azzardarti mai a più dire una cosa simile» lo rimproverò senza cattiveria Sfranze. «Io ti sto accanto per i miei meriti, e non certo per piaggeria. Lasciami finire, ora. L’amore di cui i sudditi ti hanno omaggiato è lo stesso che ha onorato altri grandi del passato, che son passati alla storia per il loro buon cuore prima ancora che per la loro autorità. Non serve che ti faccia nomi. Ebbene, proprio questa innata bontà che possiedi non ti farà mai perdere l’appoggio del popolo, quale che sia la tua condizione. E se non ti riesce di aver fede nel Verbo viste le ignominie compiute dai ministri di Dio, abbi almeno fiducia in te. Perché solo così, credendo nel tuo operato e nell’affetto e nella lealtà che ti han tributato i tuoi sudditi potrai trovare la forza per risollevarti».

    Costantino lo guardò rinfrancato, un sorriso appena abbozzato a rilucere entro i contorni della folta barba.

    «Vorrei vedere in me le virtù che tanto vanti».

    «Ad ogni cosa il suo tempo» rispose pacato Sfranze, mettendosi a sedere.

    Rimasero nuovamente in silenzio, ciascuno immerso nelle proprie riflessioni, impegnati a scrutare oltre il mare come se aldilà di esso potessero esservi tracce di quel futuro che non riuscivano a scorgere.

    Un vento gelido prese a soffiare, ululando per i porticati.

    E a Costantino parve che quel mare che iniziava ad gonfiarsi e ribollire, minacciando burrasca, fosse in tutto e per tutto identico al tormento che non sembrava voler smettere di agitare la sua fragile anima.

    V

    Fato immortale

    Costantinopoli, Ottobre 1447 d.C.

    Elena rimase immobile sull’uscio, gli occhi color acquamarina che brillavano di felicità e sorpresa. Giovanni, suo figlio e basileus del popolo d’Oriente, era in piedi sulle proprie gambe.

    Le dava la schiena, adagiato con fatica sul davanzale della finestra dal quale si potevano ammirare i giardini reali e le corti interne.

    Vestito solo di una tunica leggera, l’imperatore appariva dimesso, pallido, ben lontano dalla figura regale che aveva ammaliato, per intelligenza e gusto, tutti i popoli che l’avevano conosciuto.

    La luce del mattino lo avvolgeva di un’aura biancastra, lattiginosa eppure abbagliante, mentre continuava a indugiare con lo sguardo sulla sua capitale, ignaro della presenza della madre.

    Solo il tocco leggero delle sue dita diafane lo riscosse.

    «Madre» le sorrise. La sua barba sempre curata era ormai lunghissima, un groviglio di spessi crini castani. I capelli altrettanto lunghi, sporchi e inselvatichiti.

    Elena lo accolse tra le sue braccia, celando dietro al muro del suo silenzio lo sgomento per aver sentito le sue costole sporgenti.

    Lo aiutò con dolcezza a sedersi sul margine del letto.

    «Che gioia rivederti nuovamente in forze, figlio mio».

    Giovanni sorrise, annuendo quasi ironicamente.

    «Non mi sentivo così bene da tempo. Soprattutto, sono lucido e cosciente. Chissà quanto avrete penato per me».

    Senza dargli tempo di continuare, Elena lo baciò sulla fronte, abbracciandolo ancora e sedendogli accanto, accarezzandogli le mani. Gelide, ossute, a tratti tremanti.

    «Devi mangiare. È fondamentale perché ti riprenda».

    «In tutta onestà, non so quanto durerà questo momento lieto» la sorprese Giovanni con un sorriso malinconico. «Sono oggettivamente l’ombra dell’uomo che ero. Guarda» le disse indicandosi i piedi nudi, «il basileus dei Romei che cammina scalzo come un misero». Disse ciò con un tono ilare, ma anche amaro.

    «Anche se son parso a lungo in fin di vita» continuò rialzandosi a stento, e tornando alla finestra «ho pensato molto. Ho cercato risposte che purtroppo non ho trovato. Non mi è possibile, per quanto mi sforzi, capire dove io abbia sbagliato. E più il tempo che mi resta va esaurendosi, più cresce il rimpianto».

    Elena scosse il capo, sconsolata.

    Era proprio vero quel che le avevano detto. Il mal di vivere stava uccidendo

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