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Venezia enigma
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E-book477 pagine6 ore

Venezia enigma

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Info su questo ebook

Un grande thriller storico

Chi riuscirà a smascherare i Lupi di Venezia?

Venezia, XVI secolo.
Dopo un disperato tentativo falli­to di assassinare il suo aguzzino, Marco Gianetti fugge con la sua amante, Tita Boldini. Angosciato dai crimini che pesano sulla sua coscienza, in cerca di redenzione si è rivolto all’enigmatico olan­dese Nathaniel der Witt. Ma der Witt brama vendetta: è giunto a Venezia per indagare su una se­rie di brutali omicidi che hanno sconvolto la città; omicidi legati ai famigerati Lupi di Venezia, ai quali non perdona l’assassinio di sua figlia. Con il suo nuovo allea­to, sotto la minaccia dello spietato Pietro Aretino, der Witt inizia la sua ricerca. Mentre a uno a uno i Lupi cominciano a essere scoperti, Marco Gianetti crede di aver tro­vato finalmente la pace. Ma la vita di qualcuno che gli è molto vicino potrebbe essere in grave pericolo e una spia un tempo fedele ad Are­tino, Adamo Baptista, minaccia di svelare i segreti di Marco: la Sere­nissima è sempre più un luogo si­nistro e la sete di sangue dei Lupi di Venezia non è ancora placata…

Dall’autrice del bestseller Cospirazione Caravaggio

«Alex Connor raggiunge un equilibrio narrativo che si divide tra storia, fiction e caratterizzazione di un elemento spesso tralasciato nei romanzi dedicati agli artisti realmente vissuti: l’interpretazione del loro spirito.»
Marcello Simoni

«Formidabile. Conquista e seduce il lettore. Spettacolare.»
Matteo Strukul

«Il giallo di Alex Connor, ai primi posti della classifica dei libri più venduti, è ambientato nel mondo dell’arte.»
Il Corriere della Sera

«Un thriller bestseller. Un’autrice che possiamo definire, senza ombra di dubbio, la nuova Dan Brown al femminile.»
Libero
Alex Connor
È autrice di thriller e romanzi storici ambientati nel mondo dell’arte. Lei stessa è un’artista e vive in Inghilterra. Cospirazione Caravaggio, uscito per la Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller ai primi po­sti delle classifiche italiane. Con Il dipinto maledetto ha vinto il Premio Roma per la Narrativa Straniera. La Newton Compton ha pubbli­cato la sua trilogia su Caravaggio, composta da Caravaggio enigma, Maledizione Caravaggio ed Eredità Caravaggio; Goya enigma; Tempesta maledetta; I Lupi di Venezia; I cospi­ratori di Venezia e Venezia enigma.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2020
ISBN9788822753632
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    Anteprima del libro

    Venezia enigma - Alex Connor

    2810

    Titolo originale: The Wolves of Venice

    Copyright © 2021 Alex Connor

    The moral right of Alex Connor to be identified

    as the author of this work has been asserted in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act, 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Tessa Bernardi

    Prima edizione ebook: gennaio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5363-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Alex Connor

    Venezia enigma

    Newton Compton editori

    «Coloro che riescono a farti credere delle assurdità,

    possono farti commettere delle atrocità».

    voltaire

    Un uomo come una donna non inganna nessuno

    In quattro a rufolare in un trogolo di frutta marcia:

    avanti Cristo, la coda d’oca del Diavolo,

    dove l’acqua è sangue.

    Indice

    parte prima. il buffone

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    parte seconda. il penitente

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    parte terza. tutti i condannati

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    parte quarta. l’apprendista ebreo

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    parte prima

    Il buffone

    Prologo

    Ogni roditore ha la sua tana.

    E io non sono ancora morto.

    Come l’uomo che avevo pianificato di uccidere.

    La notte che avrebbe dovuto segnare la disfatta di Aretino è stato Sandro, il mio servo, a salvarmi. Il tentato omicidio è fallito e Pietro Aretino è sopravvissuto… Avrei dovuto fiutare il possibile intervento di Adamo Battista, la sua spia, ma credevo che all’epoca il fiorentino non si trovasse a Venezia. Ho scoperto troppo tardi che il corvo nero non aveva mai lasciato la Serenissima.

    Mi aspettavo che nei giorni a seguire Aretino mi smascherasse, che rivelasse a tutta Venezia che non ero il legittimo erede della nobile casata dei Gianetti, ma solo un bastardo che non vantava alcun diritto su tali ricchezze. Ero convinto che aver attentato alla sua vita avrebbe scatenato il desiderio di vendetta del più spietato degli uomini, eppure mi sono ben presto reso conto che il letterato non avrebbe mai smesso di ricattarmi. Quella, d’altronde, era la sua specialità, come tanti sovrani avevano scoperto a loro spese. No, Aretino non avrebbe mai rinunciato al mio denaro, neppure per vendetta, e invece che torturare me ha preferito condannare alle pene dell’inferno Giovanni Spolatti, il mio confidente, per punirlo della sua slealtà.

    Povero Spolatti.

    Immagino che la mia compassione vi stupisca, che vi sorprenda che io possa provare pietà per il castrato che mi ha tradito… Ma la colpa è stata solo ed esclusivamente mia. Sono stato uno stolto ad allearmi con un giovane che poteva lasciarsi distrarre tanto facilmente dalla sua brama di vendetta. Ero troppo ansioso di liberarmi di Aretino, tanto da credere che l’odio di Spolatti nei confronti dello scrittore si sarebbe dimostrato sufficiente.

    Ma mi sbagliavo.

    Malgrado l’orrenda umiliazione inflitta da Aretino, il cantore evirato non poteva tenere testa alle macchinazioni di Adamo Battista. Attenendosi al piano, Spolatti ha permesso agli assassini arrivati dal ghetto di intrufolarsi a palazzo, ma una volta dentro i giudei si sono ritrovati in trappola, circondati come animali. Giovanni Spolatti li ha traditi. Proprio come ha tradito me. Come tanti altri prima di lui, il castrato ha anteposto la propria vita a quella dei suoi alleati.

    E chi ero io per protestare dinanzi a una simile condotta? Per lamentarmi di un uomo che aveva venduto i suoi amici per proteggersi? Forse credevo davvero di poter uccidere Aretino e sbarazzarmi di un nemico, ma gli aspiranti assassini sono stati catturati e torturati, condannandomi alla dannazione eterna. Gli abitanti del ghetto mi odiavano già da tempo, e a ragion veduta, quando sono stati costretti ad assistere in silenzio alle sofferenze di Angelo Fasculo e Samuele Battino, esiliati da Venezia come due uomini a cui non era rimasto più nulla. Non c’era alcuna prova a conferma di un mio coinvolgimento nell’attentato, ma Spolatti era il mio pupillo; avranno capito subito che le sue rimostranze per i maltrattamenti subiti erano solo un inganno per guadagnarsi la loro compassione, che il tentato omicidio di Aretino era stato orchestrato a servizio della mia causa.

    Sapevo che sarebbero venuti a cercarmi.

    Era giusto che i fili tirati dal burattinaio non si fossero strappati; giusto che quel grasso rospo di Aretino continuasse a strattonarmi e manipolarmi a suo piacimento. Sospettava di me, ma si fingeva mio amico. E mentre si intascava il mio denaro, mi implorava di andare a fargli visita a palazzo, ma non ho mai messo piede in un posto dal quale avevo paura di non uscire vivo.

    È stato un lungo inverno, quello dell’attentato andato in fumo. Ci sono state diverse esecuzioni pubbliche in città e io sono andato ad assistervi; ho visto gli uomini ciondolare dai cappi, con le gambe che si contraevano fra gli spasmi della morte, proprio come quelle di mia madre tanti anni prima.

    Quando è iniziata questa storia.

    Ma non è ancora finita.

    Perciò adesso riprenderò il mio racconto. È passato un altro anno, trascinandosi con la stessa pigrizia di una lucertola. E come una lucertola, creatura guardinga e dal sangue freddo, quei giorni se li è divorati a uno a uno.

    Capitolo uno

    Venezia

    Novembre 1555

    All’improvviso avvertì un dolore lancinante che gli dilaniava le carni come se gliele stessero squarciando, la giubba si era strappata e un fiotto incandescente di sangue gli scorreva sulla pelle fredda. Un’altra fitta si estese a tutto il dorso da sotto le scapole, il punto in cui la lama si era conficcata in prossimità di una costola, e Der Witt barcollò in avanti, tendendo le mani verso la murata del ponte.

    Se una figura non fosse emersa dall’arcata del ponte nel preciso istante in cui il suo aggressore aveva affondato il pugnale, sarebbe sicuramente morto, ne era consapevole. Con la scaltrezza di un vecchio randagio, l’olandese ne approfittò: si chinò per schivare il secondo colpo e sferrò un pugno allo stomaco dell’uomo. Gli mozzò il fiato e il respiro gli sfuggì dalle labbra come un rantolo in punto di morte, con un rumore simile a quello di un mantice che si sgonfia.

    Sorpreso dalla reazione dell’olandese e dall’improvvisa comparsa di un testimone, l’aggressore si diede alla fuga, mentre Der Witt si accasciò contro la fredda pietra del ponte e lanciò uno sguardo all’uomo che gli aveva salvato la vita.

    Questi non fece alcunché per aiutarlo e si limitò a restare dov’era, osservandolo con indifferenza.

    «Adamo Battista…», faticò a mormorare lo speziale. La voce era ridotta a un sussurro. «Quindi hai mandato qualcuno a uccidermi. Era uno dei tuoi tirapiedi?»

    «Se fosse stato uno dei miei uomini, avrebbe portato a termine l’incarico. Ciononostante, penso che stanotte volessero davvero ucciderti», replicò Battista, avvicinandosi all’olandese. «Sanguini parecchio. Per un uomo che non è più nel fiore degli anni, persino un graffio così superficiale potrebbe rivelarsi fatale». La sua voce aveva un vago influsso fiorentino, mentre il tono era derisorio. «Non è strano che debba essere proprio io a salvarti? Il diavolo deve avere senso dell’umorismo, dopotutto».

    «Sono gravemente ferito. Non puoi aiutarmi?»

    «Non ti ucciderò», rispose la spia. «È un aiuto più che sufficiente».

    Inespressivo, rimase a guardare Der Witt mentre cercava di rimettersi in piedi, poi si chinò a raccogliere il cappello nero a tesa larga dell’olandese. Un attimo prima di calcarglielo in testa, finse di ripulirlo dalla polvere.

    «Come faremo a riconoscerti senza il tuo segno distintivo?», domandò poi. «Hai la tua personale corona di spine, e ben si adatta al martire che è in te. Dove sei diretto?»

    Der Witt lo ignorò e provò a muovere qualche passo, vacillando e trascinando un piede davanti all’altro, con Battista alle calcagna.

    «E se la signora Zucca non fosse a casa? Non penso che tu abbia un altro posto sicuro dove andare, olandese. Forse dovresti sdraiarti qui e lasciarti morire. Veglierò io su di te, nel caso vengano ad annusarti i cani».

    Il sangue aveva intriso la giubba dello speziale e stava indurendo la lana. Con la mano destra premuta sul fianco, nel punto in cui il coltello si era conficcato nelle viscere, si trascinò sentendo i passi di Battista riecheggiare alle sue spalle, osservando la luce della lanterna del fiorentino proiettare le ombre di entrambi. Poi, nella sua lenta e agonizzante avanzata, provò un’acuta vertigine e vide di fronte a sé la Oude Kerk di Amsterdam…

    No, si disse, quelle non erano le campane della chiesa olandese, ma le campane di San Marco che richiamavano i fedeli all’ultima messa… Era stato un errore non restare a casa sua; Venezia portava soltanto morte. Ma anche Amsterdam gli aveva riservato soltanto lutto, quello per la morte di sua figlia… Il principio e la fine parvero combaciare in una confusa epifania, tanto che per poco non perse l’equilibrio. Si appoggiò di peso a un muro e, mentre ripensava a tutte quelle donne assassinate, avvertì il gelo della pietra, e della nebbia che si sollevava dalla laguna.

    E ripensò ai Lupi di Venezia.

    «Stai morendo, olandese?».

    Der Witt udì la domanda e provò a scuotere la testa, ma Battista rideva.

    «Allora, non sei ancora pronto a tirare le cuoia?», continuò il fiorentino, seguendo l’uomo ferito che era riuscito a rialzarsi e a rimettersi faticosamente in cammino. «Forse è vero quello che dicono di te, che sei un occultista. Ma no», proseguì la spia, «tutti muoiono. Stregoni o soldati, al momento della resa dei conti non fa alcuna differenza».

    Der Witt strinse i denti e continuò ad arrancare, l’altro sempre nella sua scia.

    «Perché scappi dall’inevitabile? Non vincerai. Sei solo un uomo. Un vecchio testardo».

    "Sì, sono un vecchio testardo. Un uomo che ha perso sua moglie, a cui hanno trucidato una figlia. Sono così testardo da voler tornare in questa città maledetta e continuare a mettere a repentaglio la mia vita; così testardo da rivangare il passato e rivoltare il terreno sotto il quale sono seppelliti i suoi putridi segreti. Così testardo, da non voler desistere nella ricerca dell’assassino della mia bambina. Dunque sì, sono testardo, troppo testardo per morire".

    E mentre a ogni passo la vista gli si annebbiava sempre di più, Der Witt pensò: Seguimi, farabutto. Sì, Adamo Battista, seguimi. So che ami vedermi soffrire. Augurami la morte, annusa le mie orme come un cane. Non lo vedi come mi reggo il fianco con la mano? Devi solo sperare che muoia dissanguato. Perché mentre tu ti fai beffe di lui, questo vecchio ti condurrà alle porte dell’inferno.

    Capitolo due

    Ghetto ebraico, Venezia

    Gilda alzò gli occhi e fece un cenno al suo ospite, poi mise da parte il libro mastro su cui stava lavorando e incrociò le braccia. Essendo l’usuraia del ghetto, Gilda Fasculo era rispettata e in parte anche temuta. Vedova, aveva visto il figlio minore tradito, torturato ed esiliato: il povero Angelo era stato cacciato da Venezia, curvo e malinconico a soli ventisette anni. Quando aveva scoperto che l’elaborato piano ordito per uccidere Pietro Aretino era stato sventato e che lei stessa, inconsapevolmente, era stata l’artefice della sciagura di suo figlio, Gilda si era ritirata al ghetto, in quell’intricato dedalo di vicoletti e case.

    Non era più una donna: era diventata uno spettro. La sua esile figura era avvizzita, schiacciata dal peso del senso di colpa, ma più il suo corpo si assottigliava, più le sue capacità intellettive si acuivano. La modesta abitazione in cui aveva vissuto con i due figli maschi dall’esterno non sembrava cambiata, ma all’interno era gremita di ragnatele d’ombre e rimpianti. Ma era raro che Gilda accennasse alle sue sventure, concentrata com’era sul suo ruolo di prestasoldi.

    E sulla vendetta.

    «Hai fame?», chiese, attenta ai movimenti dell’ospite in visita. Claudio Luini, giullare e musicista a palazzo Gianetti, era un uomo senza arte né parte e dai mille talenti. Sempre gioioso e scattante, sui trent’anni, aveva i capelli del colore dei mandarini. Uno sciocco, certo, ma solo per chi lo era così tanto da giudicare dalle apparenze.

    «Ho sempre fame e ho camminato parecchio», rispose lui. «Prima sono andato a trovare la mia ragazza e mi ha sbattuto fuori di casa, ma si è tenuta la mia scimmietta per farmi un dispetto. Povera piccola scimmietta, mi pare di vederla, lì a battere i denti per attirare la mia attenzione. Dopo tornerò a prenderla, ovviamente».

    «Mi sorprende che tu non abbia insegnato a quella bestiola ad aprire una finestra e scappare».

    «Sarebbe talmente semplice», replicò Claudio con un’alzata di spalle, «ma a quel punto non avrei più una scusa per tornare dalla mia amata».

    «Quella donna ti farà impazzire», commentò Gilda con freddezza. «Siediti, ti porto qualcosa da mangiare».

    Gli indicò lo stesso tavolo che si era prestato a tanti pasti e tanti affari, il legno graffiato dai coltelli e dai bordi duri delle monete, la superficie intaccata laddove Gilda appoggiava la cassetta con i soldi, un solco vecchio almeno un decennio nel tavolone di legno grezzo. Con movimenti rapidi e precisi, l’ebrea gli diede una pulita e apparecchiò per due.

    Claudio se ne accorse, ma non disse niente. Anche se l’usuraia aveva due figli, Federico la accusava dell’esilio del fratello e non andava più a farle visita. In effetti, anche se ogni giorno riceveva molti clienti, Claudio era l’unico vero amico della prestasoldi. Se gli altri ne erano intimiditi, lui invece la ammirava, perché era una donna che aveva sofferto tanto ma si era riconquistata la sua dignità.

    E aveva un debito nei suoi confronti che non sarebbe mai riuscito a ripagare. Era stato proprio Claudio Luini, abilmente manipolato da Marco Gianetti, a portare la morte nel ghetto. Era stato lui a presentare a Gilda il complice di Marco e si era fidato della parola di Spolatti, incoraggiandola ad accettare lo sconosciuto in casa sua. E sempre lui aveva dato ingenuamente il via agli eventi che avevano portato all’esilio di un uomo innocente, mentre un farabutto godeva della solita incolumità.

    Dopo aver spezzato in due un tozzo di pane, Gilda ne passò un pezzo a Claudio, poi gli avvicinò una scodella di zuppa. «Stamani sono andata al mercato e ho comprato della carne bianca. Cesare è un mascalzone, ma ha i migliori polli di Venezia». Abbozzò un debole sorriso. «Che non potrei permettermi, se non gli garantissi dei tassi speciali sul prestito che gli ho concesso».

    «Mio zio vendeva i migliori gallinacei di tutta Roma…».

    «Oltre a essere un famoso acrobata?», lo interruppe la donna, come sempre divertita dalle sue bugie ed esagerazioni.

    Per diversi mesi, dopo il tradimento che aveva portato alla rovina di suo figlio, Gilda lo aveva disprezzato, convinta che fosse una pedina di Marco Gianetti. Poi, con il tempo, aveva cominciato a comprendere la profondità del suo odio verso Gianetti, capendo che era stato ingannato a sua volta.

    «Tu sei tradito una volta sola, mentre il ghetto ha perso Ira e Rosella Tabat, e adesso, anche mio figlio a causa di Marco Gianetti», aveva sbottato, furibonda. «Ti ha ferito nell’orgoglio, e allora? Dovrei compatirti?»

    «L’orgoglio conta ben poco per me…».

    «Sei un uomo, e per voi uomini l’orgoglio è tutto! Io non sono una stupida, Claudio. Sei bravo a recitare, ma la tua messinscena non è impeccabile. Non pensare di potermi convincere che non sei uno strumento di Gianetti».

    «Lo ero, proprio come sono ancora il suo giullare», aveva replicato Claudio. «Voi mi accusate di recitare, signora Fasculo, e sì, lo confesso, è vero. Dopotutto, chi in una città di savi dà retta a un pagliaccio? Chi tra tanti nobili presta attenzione al buffone di corte?»

    «Quindi ammetti di essere una spia?»

    «Io rispondo soltanto a me stesso», aveva replicato lui. «E Gianetti non sospetta di essersi fatto un altro nemico».

    «Sei davvero un suo nemico?»

    Il viso fanciullesco di Claudio si era fatto più serio, l’azzurro degli occhi insolitamente gelido. «Ho buone ragioni per trattenermi a Venezia, buone ragioni per lavorare per Gianetti e buone ragioni per essere qui».

    «Perciò sei una spia», aveva ribadito Gilda. «Se non per lui, allora per chi lavori? Per Aretino? O magari per Adamo Battista? O i loro desideri coincidono?»

    «Quel grassone di Aretino si è creduto al sicuro fin troppo a lungo. Ha ricattato molti nobili veneziani e altri poveri diavoli di ceto inferiore». Aveva riportato l’attenzione su di lei. «Ricatta anche voi, non è così?»

    «Mio figlio non avrebbe dovuto dirtelo!».

    «Pensate che volessi tradire vostro figlio? Ci siamo frequentati per mesi. Se avessi voluto, avrei potuto informare Gianetti, fornirgli la garrota da stringergli attorno alla gola. Ma io ho un debole per gli innocenti, proprio come ho un debole per i segreti. Sono così delicati e terrificanti, se usati nel modo giusto».

    Gilda lo aveva studiato con diffidenza, il viso sincero e rotondo, il sorriso gioviale, gli abiti da domestico, e poi gli aveva chiesto: «Ma tu chi sei?».

    E Claudio si era dato un colpetto sul naso, ridendo. «Sono un uomo che può andare ovunque, parlare con chiunque e osservare tutto senza farsi notare. Credetemi, signora Fasculo, vale la pena fidarsi di questo giullare».

    Ma guadagnarsi la fiducia di Gilda Fasculo non era facile, e la donna si era presa il suo tempo per tentare di capire se Claudio Luini stesse facendo il doppio gioco e fosse ancora alle dipendenze di Marco Gianetti, che viveva nella costante paura della vendetta del ghetto. Poi, passato un anno, si era convinta di aver trovato in Claudio un vero alleato. E forse, con il tempo, anche un complice.

    «Perché non mangi?», gli chiese, tornando al presente.

    Lui tentennò, poco interessato alla zuppa. «Quando è stata l’ultima volta che hai visto Adamo Battista?»

    «Il primo del mese, come al solito».

    «Quindi domani dovrebbe farti di nuovo visita?»

    «Sì, in genere quel bastardo viene verso le sette di sera».

    «Dopo il coprifuoco?», indagò Claudio. «Come fa a superare gli uomini di guardia al cancello?»

    «Adamo Battista? Lo temono tutti e nessuno vuole correre il rischio di farsi accoltellare per avergli impedito l’ingresso». Fece una pausa e lo scrutò con attenzione. «A cosa pensi?»

    «Al fatto che Pietro Aretino non è così al sicuro come crede».

    Incuriosita, Gilda si riaccomodò e incrociò le braccia davanti al seno. «Ah, no? E perché? Dovrebbe temere Battista?»

    «È successo qualcosa tra di loro», le confidò Claudio. «Ogni volta che Aretino veniva a palazzo, Battista lo accompagnava sempre, ma adesso non più. E gira voce che il fiorentino abbia un compare».

    «Nikolas Volt».

    Claudio annuì in segno di conferma. «Lo conosci?»

    «Solo di nome. In passato abbiamo provato a scoprire qualcosa su di lui, ma senza successo. Sappiamo soltanto che non è l’amante di Battista. Quel dubbio onore spetta a Tita Boldini, la sgualdrina del tuo padrone». Gilda lanciò uno sguardo alla zuppa, poi riportò gli occhi sul suo ospite. «Non ti piace?».

    Claudio sfoderò un sorriso disarmante. «La zuppa è ottima, ma ho perso l’appetito». Scostò la scodella. «Credo sia giunto il momento di parlarti a cuore aperto, Gilda. Di affidarti la mia vita. Come una volta tu hai affidato a me quella di tuo figlio».

    Lei lo adocchiò con sospetto. «Perché dovresti affidarmi la tua vita?».

    Lui abbassò la voce. «Sono venuto a Venezia per un motivo molto particolare. Mi è stata affidata una missione…».

    «Da chi?», lo interruppe la donna.

    «Questo non posso dirtelo, altrimenti metterei a rischio la tua incolumità», rispose Claudio. «Ti basti sapere che ci sono altre persone di un certo rilievo interessate ai Lupi di Venezia».

    Gilda si sporse sul tavolo. «È un nome che non mi è nuovo. Me ne ha parlato lo speziale, Barent Der Witt. Voleva sapere se li conoscessi, ma non gli ho saputo dire niente. Credeva che gli omicidi di Venezia fossero opera loro e che la morte di sua figlia…».

    «Ad Amsterdam».

    «Ne sei al corrente?», domandò lei, sorpresa.

    Claudio annuì. «Oh, sì, eccome, ma nell’ultimo anno non ci sono stati altri omicidi, non da quando è stata assassinata Velia Mancino».

    «È vero», ammise lei, sospirando. «E perché sei così interessato a queste morti?»

    «Vuoi forse venirmi a dire che tu non lo sei? Marco Gianetti era sospettato dell’omicidio della sua amante, Rosella Tabat, e ha lasciato che suo fratello venisse giustiziato per un crimine che non aveva commesso». Il giullare fece una pausa e le rivolse un sorriso sardonico. «Sì, so tutto dei Tabat».

    «Non ne avevi mai fatto parola. È questa la ragione per cui sei venuto in città?»

    «In parte sì. Sono state sacrificate troppe vite innocenti, e spero di poter evitare altre tragedie simili. D’altronde, non riuscirò a farlo se prima non scoprirò qualcosa di più sui Lupi di Venezia».

    «Se solo Der Witt fosse qui…».

    «È qui. È tornato ieri notte, ed è stato aggredito».

    Gilda si alzò di scatto dalla sua sedia. «È ferito?»

    «Credo di sì, proprio come credo sia andato a rifugiarsi da Caterina Zucca. La sua guardia del corpo, Bakita, impedirà a chiunque di aggredire di nuovo l’olandese». Claudio riavvicinò a sé la scodella, prese il cucchiaio e mescolò la zuppa. «Domani, quando verrà Battista, vorrei sentire cos’ha da dirti».

    «Possiamo trovare un modo».

    «Bene», replicò Claudio, che alla fine si concentrò sul suo pasto. «Spiare il fiorentino è proprio quello che ci vuole».

    Capitolo tre

    Fondamenta Nuove, sestiere nord di Venezia

    Uscito sulla terrazza, di spalle alla laguna, Pietro Aretino si strinse il voluminoso mantello foderato di pelliccia attorno alle spalle corpulente. In estate, quando l’aria era tersa, in lontananza si riuscivano a scorgere le Dolomiti, l’eterea distesa delle Alpi più vicine a Venezia messa in risalto dallo scintillio del sole. In inverno, invece, le vette delle montagne erano coronate di neve, i loro profili simili a becchi capovolti contro un cielo ostile.

    Aretino stava ancora ammirando il panorama quando arrivò Tiziano. «Questo giardino è mio, eppure ci passi più tempo tu di me».

    «Perché non sono il pittore più famoso di Venezia», ribatté il letterato mentre si voltava verso l’amico. «Da quando sei diventato famoso hai smesso di sognare a occhi aperti. Ma dimmi, amico mio carissimo, saresti davvero disposto a sonnecchiare sotto uno dei tuoi alberi di limone mentre l’astro nascente di Veronese o quel tanghero di Tintoretto ti sottraggono scettro e corona?».

    Tiziano lo affiancò e si mise a contemplare le Dolomiti, con espressione nostalgica. «Sono nato laggiù e mi piace godere della vista delle montagne». Inspirò una boccata d’aria fredda, poi osservò il vapore che gli abbandonava le labbra. «Fa freddo oggi».

    «E tu sei malinconico».

    «Un po’», ammise Tiziano.

    «Dovresti convolare di nuovo a nozze. Hai osservato il lutto anche troppo a lungo», commentò Aretino. «Oppure trovati un’amante, una puttana. Anzi, facciamo due puttane».

    Stringendosi nelle spalle, il pittore lanciò un’occhiata al mantello dell’amico.

    «Chi hai ricattato per ricevere un simile dono?», chiese, il tono provocatorio. «Mi sono sempre domandato chi, a Venezia, possa davvero dirsi al sicuro dai tuoi tentacoli. O forse il fondale della laguna è disseminato dei corpi delle tue vittime dalle tasche vuote?».

    Per tutta risposta, Aretino si tolse il mantello e lo posò sulle spalle dell’artista. «Ecco qua. Io ho una notevole quantità di grasso a scaldarmi. Tu ne hai più bisogno di me». Poi lo guardò negli occhi, con la testa leggermente inclinata. «E adesso devo parlarti di una cosa. Non da amico, ma in qualità di tuo agente. Ho ricevuto un altro invito dall’emissario di Carlo v. Non devo certo ricordarti l’amicizia che ti lega alla monarchia spagnola. Il re ha sempre ammirato le tue opere, e anche il principe, Filippo ii, ora vorrebbe un altro tuo dipinto. In tanti a Venezia ti invidiano un simile mecenate».

    «Il principe vuole che gli faccia un ritratto?».

    Aretino girò attorno alla questione. Anche se il principe Filippo aveva espresso ammirazione per il precedente ritratto, a Maria d’Asburgo, regina di Ungheria, aveva poi scritto cosa ne pensava realmente.

    …questa mia lettera che s’accompagna ai ritratti di Tiziano. Nel mio, in armatura, noto una discreta somiglianza, ma è stato realizzato in modo sbrigativo, e se avessi tempo gli chiederei di rifarlo daccapo….

    Era un commento che Aretino aveva tenuto nascosto all’amico, sapendo quanto si risentiva per le critiche.

    «Il re», rispose con cautela, «in quest’occasione non ha richiesto alcun ritratto. Forse ha deciso che due possono bastare, considerati i limiti della sua bellezza fisica. No, credo che il sovrano voglia chiederti una diversa tipologia di dipinto. E, se mi è concesso l’ardire…».

    «L’ardire non t’è mai mancato», replicò Tiziano mentre si stringeva nel mantello con la pelliccia. «So che temi che deluda il mio mecenate, ma sono più che disposto a esaudire i desideri del monarca e a fornirgli qualunque opera richieda. Prima che uno dei miei rivali veneziani cerchi di screditarmi, s’intende».

    «Sei il miglior pittore della Repubblica», gli assicurò Pietro Aretino, prima di seguire l’artista sulla balconata, il passo rallentato dalla stazza, il ventre dilatato coperto dalla seta rossa. «Nessuno può competere con te…».

    «Perché se così fosse, a quest’ora ti saresti già buttato a capofitto su di loro».

    Lo scrittore si posò una mano sul cuore. «Non siamo forse amici?».

    Ridendo, Tiziano lo prese in giro: «Oh, Pietro, certo che siamo amici, e confidenti anche. Tu mi parli dei tuoi bei fanciulli e io ti confesso le mie preoccupazioni. Tu mi racconti delle puttane che spedisci a ricattare le tue vittime, mentre io ceno con il doge e realizzo bozzetti per compiacere sua moglie». Fece una pausa, divertito. «Amici, sì, indubbiamente. Ma siamo anche a conoscenza delle rispettive fissazioni. Tu non sei all’oscuro delle mie, come io non sono all’oscuro delle tue».

    Punto sul vivo, il letterato ignorò il commento, si strinse nelle spalle e osservò il pittore, che passeggiava con fare rilassato. Quella tra il genio dell’arte pittorica e il famoso scrittore era un’amicizia duratura, ma anche complicata. Tiziano, ambizioso, arrogante e calcolatore, viveva all’ombra degli scandali e dei voraci appetiti sessuali di Aretino. Se l’artista ambiva alla fama, Aretino risucchiava la linfa vitale da chi l’aveva raggiunta. Nobili, agiati mercanti, usuraie del ghetto e sgualdrine, ciascuno di loro alimentava la sua passione per il denaro e per gli stratagemmi.

    Dagli umili natali – descritti nelle sue opere in molte versioni differenti – Aretino aveva raggiunto le più alte sfere d’influenza grazie all’arguzia e agli inganni. Il pieno controllo sulle sue vittime era assicurato dall’ineludibile minaccia di delazione; e nessun uomo poteva dirsi immune da segreti dai quali il letterato non potesse trarre profitto.

    Tranne uno: Tiziano. L’artista era ricco, ma questo valeva anche per Aretino. Era famoso, proprio come il letterato, e godeva delle attenzioni e del rispetto del doge e dei membri di maggior spicco della società veneziana, esattamente come lui. Se gli faceva da agente – e non cercava di manipolarlo – era solo per l’affetto che nutriva nei suoi confronti. In tanti credevano che lo scrittore avesse una certa influenza su Tiziano perché aveva qualcosa da nascondere, ma in questo Venezia si sbagliava. Pietro Aretino era legato da un rapporto affettivo al più importante artista della Repubblica.

    E, in qualità di suo agente, si godeva il privilegio di poter stringere accordi a suo nome con principi e sovrani. Aretino amava pavoneggiarsi e, facendosi ambasciatore di Tiziano, poteva frequentare le corti d’Europa e decantare le lodi del miglior pittore della Serenissima mentre mercanteggiava sul prezzo delle commissioni come un pescivendolo.

    Immerso nei suoi pensieri, rabbrividì per il freddo e lanciò uno sguardo dolente al mantello che aveva prestato all’artista. Un mantello che non sembrava affatto intenzionato a restituirgli.

    «Dov’è la tua spia?».

    Aretino inarcò le sopracciglia perfettamente curate. «Quale?»

    «Il tuo fiore all’occhiello, Battista», rispose Tiziano. «Non lo vedo da settimane e in genere ti accompagna ovunque. Ha lasciato Venezia?»

    «Battista sta…».

    «Lavorando per qualcun altro?».

    Lo scrittore scosse la testa. «No!». La menzogna gli scivolò fuori dalle labbra con la massima disinvoltura. «È innamorato, e la puttana che ha catturato la sua curiosità sta assorbendo gran parte del suo tempo e delle sue energie».

    «Adamo Battista innamorato?», ripeté il pittore, incredulo. «È mai possibile? Una volta, se non ricordo male, mi dicesti che quell’uomo non era in grado di provare sentimenti per le donne. Si è forse infatuato di un uomo?»

    «Battista non è interessato agli uomini», lo corresse Aretino, agitando una mano. «Ma sembra che passi moltissimo tempo con questa signora».

    «Non sai chi sia?».

    Quella conversazione cominciava a metterlo a disagio. Per anni aveva creduto che Adamo Battista si fosse consacrato a lui e a lui soltanto, ma il guinzaglio su cui aveva sempre fatto affidamento si stava allentando. Il fiorentino era spesso irreperibile e gli aveva detto in faccia che non si considerava al servizio di nessuno. Averlo salvato da morte certa la notte dell’attentato gli aveva dato un vantaggio e, da consumato giocatore di carte qual era, adesso stava giocando la sua mano.

    «Aretino!». Tiziano richiamò l’attenzione dell’amico. «Ti ho chiesto se conosci la donna che ha folgorato la tua spia».

    «Una puttana. Niente di più, niente di meno. Tita Boldini…».

    «La sgualdrina di Marco Gianetti?», domandò il pittore. «Perciò Gianetti e Battista si dividono la stessa donna?»

    «Non simultaneamente», ironizzò il poeta, ma il semplice accenno alla cortigiana lo aveva turbato.

    Tre anni prima, con l’aiuto di Battista, aveva fatto insediare Tita Boldini a palazzo Gianetti per assicurarsi di avere una spia in grado di riferirgli ogni singolo movimento del nobile, ma adesso si domandava se il suo pupillo non avesse deciso di farla lavorare per un unico padrone, escludendo quindi l’altro… ed era un pensiero che lo inquietava. Tita era sempre stata un’alleata affidabile, a conoscenza della vita di Gianetti sia dentro che fuori dalla camera da letto, eppure non lo aveva avvisato della congiura per assassinarlo. Marco Gianetti non si era confidato con lei? O forse anche Tita aveva le sue ragioni per volerlo morto?

    Poteva anche ridere al pensiero che Battista si fosse innamorato di quella sgualdrina, ma forse il fiorentino aveva una buona ragione per fingere ed era riuscito a ingannare persino lei. Battista stava disputando una partita infinita e, in fin dei conti, Tita non era che una delle tante pedine disposte sulla scacchiera… Rabbrividendo di nuovo, Aretino sentì il freddo penetrargli sotto le vesti e si chiese se fosse dovuto alle temperature in calo o a un turbamento più profondo.

    «Sei pallido, amico mio. Non ricordo di averti mai visto così cereo in volto», commentò Tiziano, che poi si tolse il mantello e lo posò sulle spalle dell’amico. «Questo improvviso gelo novembrino è più pericoloso della lama di un assassino. Tanti veneziani si sono fatti cogliere alla sprovvista dai primi freddi e non vorrei mai che tu facessi la stessa fine».

    Dopo essere rientrato a palazzo da un accesso di servizio, Bakita si fermò ad ascoltare le voci che provenivano dalla cucina al piano di sopra e risuonavano ovattate, indistinte. Fuori, le acque della laguna erano agitate e sciabordavano stizzite contro i muri in pietra dei palazzi, mentre un vento ostile soffiava dall’Adriatico. Arrivato in cima alla stretta scalinata che portava al corpo centrale della casa, Bakita salutò con un cenno del capo i servi al primo piano e imboccò il corridoio.

    Salì un’altra rampa di scale, due gradini alla volta, e si fermò davanti a una porta intagliata a cui bussò con delicatezza. Non appena fu ammesso nella stanza, il moro si avvicinò al capezzale del letto in cui giaceva un uomo insanguinato, con una ferita al ventre. A prendersi cura di lui c’era la padrona di Bakita, la cortigiana Caterina Zucca, con i lunghi capelli biondi gettati su una spalla e la sottoveste sporca di sangue. Lanciandogli un’occhiata, la donna allungò una mano e prese la fiala che le era stata portata dall’africano.

    «Ti ha visto qualcuno?»

    «Nessuno. Sono stato molto attento quando sono andato a casa dell’olandese».

    «C’era qualcosa fuori posto?»

    «Non che io abbia notato», rispose Bakita. «Per entrare ho usato la chiave che mi ha dato lui e in casa c’era parecchia polvere, ma non mi è sembrato che ci fosse niente fuori posto. C’erano diverse lettere sotto la porta».

    «Le hai portate?»

    Lui fece cenno di sì con la testa, infilò una mano nella tasca della casacca e gliele passò. Poi riportò l’attenzione sull’uomo ferito. «E così il signor Der Witt è tornato a Venezia…».

    «Rischiando di nuovo la vita», aggiunse bruscamente Caterina, indicando la figura distesa a letto. «Vedi quanto sanguina? È troppo vecchio per queste assurdità. Speravo che dopo l’ultima volta avrebbe girato al largo dalla Repubblica, ma invece no, Der Witt continua a essere attratto da questo posto come una salamandra è attirata dalle fiamme». Quando sollevò la camicia dell’olandese per pulirgli la ferita, lo speziale si svegliò e aprì gli occhi.

    «Perciò non sono morto?»

    «Se sei morto, vuol dire che siamo tutti nell’Ade», replicò Caterina, agitando la fiala che aveva in mano. «È questa la tintura per cui hai mandato Bakita a casa tua?».

    Der Witt annuì. Aveva le labbra esangui. «Devi applicarla sulla ferita…».

    «Quello che ti serve è un medico, non una cortigiana».

    «E massaggiarla delicatamente sulla pelle, affinché entri in circolo nel sangue».

    «Bisogna mettergli dei punti», asserì Bakita, inclinando la testa. «Perdonatemi, signora, ma ho visto molte ferite come questa e la pelle dev’essere ricucita, altrimenti continuerà a sanguinare e non si rimarginerà mai». Fece una pausa e guardò prima l’olandese, poi Caterina. «Sarebbe ancora meglio se potessimo cauterizzarla».

    Lei trasalì. «Dobbiamo chiamare un

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