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Il libro segreto dell'ultimo cabalista
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E-book617 pagine8 ore

Il libro segreto dell'ultimo cabalista

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Info su questo ebook

Un esordio potente
Una perfetta alchimia

Un grande thriller

Risolvere l'enigma sarà solo l'inizio

Primavera 1491. Il quartiere ebraico di una città del nord della Spagna è in pericolo. I re cattolici, su indicazione del Grande Inquisitore Torquemada, stanno per firmare l’editto di espulsione per tutti gli ebrei. Quando Benavides, capo del consiglio degli anziani, riceve la notizia, prende in mano la situazione e suggerisce alla comunità di abbandonare la città, temendo una persecuzione. Insieme al suo amico esperto di cabala, Abravanel, comincia così a pianificare la fuga, coinvolgendo i rispettivi figli, Aviraz e Isaac. Dopo un lungo addestramento, i due giovani saranno gli unici a conoscere tutti i dettagli dell’operazione e a poter svelare i messaggi contenuti nei libri sacri, che conducono sul Cammino di Santiago…

Un grande successo in Spagna

Un enigma sepolto da secoli
Chi sarà in grado di risolverlo?

«Leggere e giocare è la proposta edonistica e provocatoria di questo libro.»
El Mundo

«Il romanzo ripercorre parte di un mondo speciale, in cui abbondano i misteri e le leggende. Si tratta del Cammino di Santiago.»
El Español
A. L. Martín
Si è laureata in Ingegneria industriale presso l’Università di Saint Louis, negli Stati Uniti. Dopo aver lavorato a Washington DC e a Lisbona, ha portato a termine un Master in Business Administration a Madrid. Nel corso degli ultimi otto anni si è occupata del marketing della EMI Music in Spagna e Portogallo, contribuendo al lancio e al successo di molti artisti. Il libro segreto dell’ultimo cabalista è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2016
ISBN9788822703347
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    Anteprima del libro

    Il libro segreto dell'ultimo cabalista - A. L. Martín

    PRIMA PARTE

    Ogni epoca è salvata da un piccolo pugno di uomini

    che hanno il coraggio di andare controcorrente.

    Gilbert Keith Chesterton

    Non puoi controllare il vento,

    ma puoi cambiare la direzione delle tue vele.

    Proverbio cinese

    In pieno Quattrocento l’antisemitismo del popolo cristiano cresceva sempre di più. Le ricchezze in mano agli ebrei e la loro influenza nelle corti cristiane avevano fatto risorgere l’invidia e l’odio delle gerarchie cattoliche. Pur di assicurare al Paese un’unica fede, considerata una garanzia per la coesione sociale, venne fondato in Spagna il temibile Tribunale del Sant’Uffizio, meglio conosciuto come l’Inquisizione.

    1

    Isaac ben Yehuda arrivò alla scalinata esterna del palazzo di Medina e attese. In quanto consigliere personale di Ferdinando il Cattolico, era solito frequentare le Cortes di Castiglia. Tuttavia, ora osservava inquieto tutto ciò che gli succedeva attorno come se fosse proprio lui il nemico del trono. Alcuni cani abbaiarono in una stradina in fondo, e sussultò. Dietro di loro comparve Abraham e, non appena lo vide, ben Yehuda sospirò sollevato. Per fortuna poteva contare sul suo appoggio. Abraham Seneor era un esattore delle imposte e avrebbe quindi riportato ai re e alla corte le cifre delle ingenti quantità di denaro cui avevano accesso gli ebrei. Nella sua esposizione quel dettaglio non sarebbe certo dovuto mancare. Alcuni informatori gli avevano parlato di una cospirazione in atto contro il suo popolo, che presto sarebbe stato espulso dopo la promulgazione di un editto. Torquemada ne era l’istigatore, assicuravano. Chi, altrimenti? Quel demone dall’ambizione sfrenata, l’Inquisitore generale!

    Abraham smontò dalla sella e abbracciò Isaac. Gli sembrò che di colpo fosse invecchiato di dieci anni. Lo afferrò per il braccio e così, insieme, salirono i gradini.

    «L’Inquisizione ha sempre fatto sfoggio del suo abuso di potere», gli ricordò.

    Isaac scosse il capo. Era vero, ma mai sino a quel punto, e mai contro di loro. Si sentiva talmente in ansia che quasi non riusciva a respirare.

    «Da qualche mese a questa parte, però, si accaniscono ancor di più. Incarcerazioni ingiustificate, persecuzioni, accuse senza fondamento…», commentò, accompagnando i mormorii precipitosi con gesti di stizza. «Mi risulta che hanno presentato alla regina una bozza di editto», aggiunse con un sospiro sconfortato. «Dobbiamo fare attenzione. Quel Torquemada è pericoloso».

    Abraham gli diede una pacca sulla spalla per provare a rassicurarlo, ma invano: Isaac era troppo agitato per la riunione.

    «Comunque sia, i re hanno bisogno di denaro», bisbigliò. «Lo sperperano a fiumi in guerre e spedizioni. Per loro siamo indispensabili, su questo non c’è dubbio».

    Isaac arricciò il naso e scosse di nuovo la testa. Non era affatto convinto che Isabella e Ferdinando ritenessero indispensabili alcune persone più di altre.

    «Faremo leva proprio su questo all’incontro», insistette, energico, Abraham. «Offriremo loro di dilazionare il debito», e gli strinse leggermente il braccio per infondergli coraggio.

    Isaac incrociò le mani, rivolse lo sguardo verso l’infinito e parlò come a se stesso.

    «Li abbiamo appoggiati nella lotta contro l’Islam», affermò con un tono di nostalgico rimprovero. «Ho perfino regalato alla regina delle generose somme di denaro provenienti dai miei patrimoni per appoggiare la sua guerra contro l’ultima roccaforte a Granada».

    Abraham annuiva in silenzio.

    «E poi la regina se ne esce con quella storia assurda… ti ricordi, Abraham? Le abbiamo procurato i fondi e il denaro che ci aveva chiesto per il viaggio sconclusionato di quel tipo, quel tale Cristoforo Colombo, che se ne andrà alla ricerca di rotte e fortune lontane, e scomparirà nel nulla». Inspirò quanta più aria poteva e poi la buttò fuori tutta insieme. «Ma chissà che avrà escogitato stavolta quel demonio con le fattezze di essere umano!», aggiunse, riferendosi a Torquemada. «Ha troppa influenza sulla regina. È stato il suo confessore personale quando era ancora una principessa e l’ha marchiata a fuoco con il timore di Dio».

    Tomás de Torquemada aspirava a eliminare gli ebrei più che a ogni altra cosa. Li detestava perché sostenevano che la fede si basava sulla conoscenza e non si lasciavano quindi intimorire dalle minacce proclamate in nome di Dio: erano soltanto un ostacolo al potere suo, e della Chiesa di cui era illustre rappresentante.

    Prima di oltrepassare l’ultima porta che dava accesso alla Sala del Trono, Isaac fermò Abraham e alzò l’indice in segno di avvertimento.

    «La riunione sarà molto complessa, uno sfoggio di potere», lo ammonì. «Su un piatto della bilancia ci saranno i beni che noi ebrei garantiamo alla Corona, e sull’altro l’autorità morale di Torquemada».

    Trattennero il fiato e si accinsero a varcare la soglia con passo deciso. Di lì a poco nella Sala si sarebbe combattuta una lotta senza eguali, che avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi per il Paese. Non appena spalancarono le porte, si resero conto di essere attesi. I servitori li guidarono per il lugubre corridoio che portava alla Sala e poi si dileguarono con espressione spaventata. Gli ebrei fecero una riverenza solenne, e Isaac tossicchiò in attesa di un cenno che desse inizio all’udienza. Si guardò attorno con discrezione. Dietro gli scranni di Isabella e Ferdinando era ritto un reggimento di consiglieri che li guardava scettici, ma non c’era nemmeno l’ombra di Torquemada. Un refolo umido penetrò da un’apertura laterale e scosse lievemente l’arazzo sulla parete posteriore. Isaac lo fissò senza fiato. I fili di lana disegnavano la trama della fine di una guerra: dei cavalieri sottomettevano un villaggio con le loro spade. Scostò lo sguardo e riprese fiato. Ferdinando allungò il braccio e gli cedette la parola.

    «Porto buone notizie!», esclamò Isaac fingendosi entusiasta. «Più di mezzo milione di maravedì, e solo dagli ebrei di Salamanca!».

    Intimorito all’idea di mostrarsi troppo audace, aveva preferito esordire con le cifre della riscossione. Nella Sala calò il silenzio. Era talmente agitato che la voce gli tremava. Abraham gli passò alcuni documenti con i dati di altre congregazioni, e Isaac proseguì con quel finto sorriso esultante. «Rispetto all’anno passato, Toledo e Siviglia hanno praticamente raddoppiato la loro somma…».

    Gonfiava le cifre, per il bene del suo popolo. Muoveva nervosamente le braccia finché d’improvvisò si calmò e piantò il suo sguardo sul re. Conosceva Ferdinando da anni, e l’aveva sempre sostenuto così fedelmente che si sarebbe vergognato per lui se davvero avesse tramato contro di loro. Seduto sul trono, il re sembrava addolorato. Molto spesso senza Isaac non avrebbe saputo come fare. Oltre che un amico, per lui era pure un modello di uomo autorevole, e per questo anni prima l’aveva nominato suo consigliere personale. Ferdinando non sapeva in che modo affrontare l’argomento dell’editto di Torquemada, ma Isabella si era mostrata intransigente, e bisognava possedere una certa dose di coraggio per tenerle testa. Il re non aveva ancora osato prendere la parola. Alzava gli occhi solo quando Isaac si immergeva nell’elencazione di dati e cifre, e per il resto del tempo rimaneva assorto, con la speranza di passare inosservato, come fosse parte del mobilio.

    Isabella, invece, esibiva un’espressione impassibile di fronte alla lunga lista di somme che Isaac sciorinava. Sguardo deciso e mosse stizzite, pareva sicura delle proprie idee, nelle quali Torquemada aveva istillato una potente dose di veleno. Se avessero cacciato gli ebrei, ovviamente non avrebbero più potuto contare sul loro apporto economico. Torquemada le aveva offerto la soluzione al problema.«Una volta espulsi, tutti i loro beni passeranno nelle mani della Corona», l’aveva rassicurata il giorno in cui le aveva presentato il progetto dell’editto.

    Isaac ben Yehuda ignorò la glaciale sagoma femminile e continuò a leggere per ore, colmando l’aria di retorica e maravedì. La somma totale delle entrate sembrò far esitare Isabella.

    «Per il momento, questo è tutto», concluse Isaac mentre raccoglieva i documenti.

    La regina lanciò un’occhiata a Ferdinando inarcando le sopracciglia. Fece per alzarsi. Non potevano certo ignorare quella cifra. L’ebreo le aveva appena prospettato uno scenario che Torquemada non aveva preso in considerazione. Secondo i calcoli del consigliere, infatti, gli introiti si sarebbero moltiplicati di anno in anno, e il patrimonio che avrebbe invece ingrossato le casse reali alla loro partenza definitiva non poteva essere paragonato nemmeno lontanamente a quelle cifre sensazionali. Calò di nuovo un silenzio denso, prolungato; dopodiché la regina si alzò in piedi e si schiarì la voce per parlare. Il futuro che Isaac le aveva prospettato l’aveva convinta, perché così il suo regno avrebbe sempre avuto a disposizione una fonte inesauribile di sostentamento. Forse Torquemada si sbagliava, e gli ebrei non erano poi così dannosi per la religione cristiana. Dovevano giungere a un accordo e mettere da parte il decreto di espulsione voluto dall’Inquisitore. Sul suo volto si disegnò un sorriso, e Isaac ricambiò con aria ottimista. Finalmente sembrava che le cose sarebbero tornate a posto.

    Tuttavia, proprio in quel momento uno schiamazzo improvviso lo raggelò, sotto lo sguardo attonito dei presenti. Le porte della Sala si aprirono all’improvviso per andarsi a schiantare contro le pareti. Mai nessuno si era permesso di entrare nella Sala del Trono in modo così sfacciato e plateale. Torquemada irrompeva ora a grandi falcate portando nelle mani un enorme crocefisso, inseguito dal gruppetto di servitori che aveva inutilmente provato a impedirgli l’accesso. L’Inquisitore generale si fermò proprio davanti a Isabella e le rivolse un’occhiata terrificante. Lei rimase di sasso. Torquemada baciò la croce, sollevò in alto il crocefisso e fissò un punto nel vuoto come se parlasse all’aldilà.

    «Giuda tradì Cristo per trenta monete d’argento!», urlò con tono minaccioso. «Se, Vostre Maestà, sarete disposte a venderlo per trentamila, eccolo qui, ve lo do, vendetelo pure. Pregherò per le vostre anime, perché di più non posso fare!».

    Isabella ammutolì e si risedette, terrorizzata. Aveva perso il portamento da donna matura e sicura, e sembrava piuttosto una bambina spaventata. Non smetteva di sbattere le palpebre, quasi trattenesse a stento le lacrime. A Isaac ben Yehuda si ghiacciò il sangue nelle vene. Quel gesto aveva istillato nei re il terrore, lo si leggeva sui loro volti. Isabella e Ferdinando si alzarono e, senza nemmeno rivolgergli un cenno, abbandonarono la Sala. L’udienza venne interrotta all’istante. Tutto per colpa delle trappole di quella volpe di Torquemada. I due ebrei rimasero senza parole, e nessuno aprì più bocca. Avevano appena perso la loro battaglia a causa del gioco sporco di Torquemada.

    Isaac guardò Abraham con la fronte aggrottata. I piani dell’Inquisitore erano ormai svelati, e il consigliere non aveva più dubbi sulla natura dell’editto. Uscirono in gran fretta e si diressero a casa di Isaac.

    «Fa’ venire un messaggero», disse ad Abraham mentre si toglieva la giubba e la tirava sulla poltrona. «Dobbiamo riferire questa informazione alle persone giuste prima che diventi ufficiale».

    Abraham annuì, serio, ma lo ammonì sul rischio che stavano correndo:

    «Se ci scoprono, ci uccideranno».

    Isaac prese un foglio, una penna d’oca, in apparenza noncurante della minaccia.

    «Non ci scopriranno», ribatté sicuro di sé. «Dobbiamo anticipare i piani di Torquemada», insistette.

    «Immagino che vorrai avvertire i tuoi famigliari…», insinuò Abraham.

    Isaac continuò a scrivere senza alzare lo sguardo dalla lettera, e intanto scrollava la testa.

    «Non è questo il principale motivo per cui sto rischiando la vita. Ora sembra difficile accettare che vi sia qualcosa di più importante della persecuzione cui andremo incontro tra qualche mese. Ti assicuro, però, che c’è».

    Abraham lo fissò per qualche secondo, in attesa di conoscere quel mistero ancor più cruciale dei vili progetti di Torquemada, ma non ricevette risposta. Lasciò la casa e di lì a poco tornò assieme al figlio del locandiere, in groppa a uno dei suoi destrieri più veloci. Dopo avergli dato istruzioni sul luogo a nord in cui si sarebbe dovuto recare, entrò a prendere la pergamena. Si avvicinò al tavolo e la guardò confuso. Isaac aveva scritto per più di quindici minuti, eppure sul foglio c’era poco o niente: alcune linee verticali si incrociavano con altre orizzontali, e sotto compariva una semplice riga.

    Libri profetici. Abdia. Versetto 20.

    2

    L’ultima domenica di maggio nell’anno del Signore 1491 si affacciò sulla Terra con una gradevole brezza che annunciava l’atteso ritorno dell’estate. La pioggia insistente aveva finalmente concesso agli abitanti una tregua di qualche giorno, e il sole di mezzogiorno inondava la città con quel delicato venticello. Il profumo dei gelsomini che decoravano i cornicioni delle finestre pervase la sala in cui era riunito il Consiglio dei saggi. Nonostante fosse stato loro proibito, i sette si incontravano ogni mese per amministrare in clandestinità le giuderie. Benavides non aveva impiegato troppo tempo a escogitare un modello segreto e alternativo di governo. In genere si trattava di riunioni piacevoli, in cui venivano risolte solo le questioni di tutti i giorni e di poca rilevanza. Stavolta, però, era diverso. Il pericolo minacciava gli ebrei.

    «Il ragazzo è innocente», ripeté per l’ennesima volta uno dei saggi.

    Benavides gli poggiò la mano sulla spalla e annuì.

    «Sì, è così. Lo so, e lo sa pure l’Inquisizione.»

    Avevano arrestato il figlio dell’orafo, accusato di pratiche di stregoneria solo perché un gatto nero andava sempre a dormire sul davanzale della sua finestra.

    «Sappiamo tutti che non ha nulla a che vedere con la magia nera né tanto meno con i gatti», spiegò Benavides. «Il ragazzo appartiene a una famiglia agiata e ben vista della nostra comunità. Il messaggio è chiaro: se nemmeno gli ebrei potenti possono considerarsi al sicuro, chi lo sarà?».

    All’improvviso delle grida provenienti dalla piazza echeggiarono all’unisono e oltrepassarono le pareti. Alcune erano di terrore, altre di giubilo. Gli anziani si precipitarono in modo scomposto alla finestra e pulirono con le maniche le tracce lasciate dalla pioggia. Uno sciame di persone stava gremendo in gran fretta la piazza della cattedrale. In alcuni capannelli, più appartati, si sussurravano parole terribili, mentre la maggior parte degli astanti fremeva con l’eccitazione tipica dei trionfi. Benavides strinse i pugni, impotente. Non poteva fare nulla per evitare quello che sarebbe accaduto. Gli occhi gli si velarono di lacrime di frustrazione. Sentiva le urla aumentare d’intensità, e intuì che non avrebbero atteso a lungo.

    Da una delle stradine laterali emerse la sagoma del carro su cui veniva trasportato il prigioniero. Le sbarre di legno che formavano la gabbia lasciavano intravedere al suo interno un vecchio fantasma. Quel ragazzo, però, aveva solo quindici anni, ed era tutto fuorché un fantasma, e un anziano. A ogni sobbalzo delle ruote sussultava, e sembrava che stesse tremando. Sfigurato dalle torture, aveva un’espressione attonita sul volto, che schiacciava contro le sbarre mentre le stringeva con forza, cercando il padre nella folla. Non riusciva a scovarlo. La stanchezza gli appannava la vista. Si stropicciò gli occhi nel tentativo di dileguare quella nebbia, ma riuscì solo a piombare di più nell’oscurità che si impossessava di lui, come mostravano le occhiaie profonde. Abbassò le palpebre e si lasciò cadere sulle ginocchia. Si sentiva sfinito, senza più forze. Si era ridotto pelle e ossa a causa dei tozzi di pane secco della prigione, e gli zigomi gli sporgevano sul viso. Riaprì gli occhi con estrema lentezza e scorse la pira dove l’avrebbero arso vivo. Con un ultimo briciolo di speranza strillò la sua innocenza mentre graffiava il legno. Si spezzava le unghie, ma non sentiva dolore.

    Benavides si spostò alla finestra che si affacciava sulla strada che costeggiava le mura. Attendeva con ansia l’arrivo di un qualche membro della corte, di un qualche potente che avrebbe potuto fermare quell’assurdità. Aveva scritto al re in persona per denunciare l’orribile ingiustizia contro il ragazzino. Sperava solo che sarebbero giunti in tempo.

    Dall’altro lato della piazza, dietro una fila di chierici, comparvero i giudici. Davanti a loro incedeva Torquemada, l’Inquisitore generale, un uomo senza scrupoli, dai modi ieratici, che riusciva a incutere timore con la sua sola presenza e i suoi gesti impassibili. Godeva nel fare sfoggio del suo immenso potere. Nella mano destra reggeva una pergamena arrotolata, come se fosse una bacchetta magica, e con quella indicava ora a destra ora a sinistra per dare ordini ai soldati. Pareva una statua ritta sul suo piedistallo. Torquemada non faceva mai mostra di pietà.

    La famiglia del ragazzo gli si avvicinò aprendosi un varco tra la folla. La madre si trascinava, si reggeva al braccio del marito come fosse spezzata in due e non riuscisse a muovere la schiena.

    «Clemenza!», implorava con urla troncate dalle lacrime.

    Benavides gettò un’ultima occhiata alla porta settentrionale. Alcuni contadini rimasti indietro ritornavano in città con le zappe in spalla. Non compariva nessun altro. Borbottò un’imprecazione in ebraico e si sedette con le mani sul volto.

    «Non verranno ad aiutarci», bofonchiò con amarezza.

    L’Inquisitore intanto mostrava il felino alla folla, quasi si trattasse di un trofeo, e la gente rispondeva con urla di esultanza. Il povero animale era talmente spaventato che non la smetteva di miagolare e provava a divincolarsi dalle mani che lo tenevano stretto. Torquemada lo chiuse in una gabbia e poi stese il braccio a mo’ di segnale. Alcuni uomini robusti fecero scendere lentamente il ragazzo dal carro e lo legarono al palo. Il giovane si dimenava disperato e si lamentava tra i singhiozzi. Si avvicinava per lui il finale più crudele che avesse mai potuto immaginare.

    «Sono innocente!», gridava con voce rauca.

    Fuori di sé, osservò i boia incappucciati che appiccavano il fuoco alla legna in diversi punti perché le fiamme attecchissero il prima possibile e non si potesse interrompere l’esecuzione. L’umidità di alcuni tronchi fece crepitare il legno, e per qualche istante il silenzio si impadronì della piazza. Il ragazzo osservava i propri piedi, poi balbettò qualcosa. Il calore era insopportabile. Come un bambino in preda all’angoscia chiamò il nome del padre finché non ebbe più la voce. Il padre corse verso di lui facendosi largo a gomitate, ma un soldato lo colpì in testa talmente forte da farlo stramazzare a terra. Nessuno poteva salvarlo. La carne gli bruciava poco a poco. Sul volto lo strazio di un dolore indicibile. Le urla disperate si impressero nei muri della piazza mentre i capelli cominciavano a prendere fuoco. Muoveva frenetico i polsi per cercare di tagliarsi le vene con la corda di sego, ma non ci riusciva. Maledisse la sua goffaggine, bestemmiò e gli astanti si fecero il segno della croce intimoriti. Di lì a pochi minuti, l’odore di carne bruciata punse i nasi, e allora la madre si accasciò inerte.

    Benavides assunse un’espressione assente, immobile per l’orrore. Le ossa gli si addormentarono, e di colpo sentì delle fitte fortissime alle articolazioni. Come se giungessero da un mondo lontano, ascoltava le discussioni accalorate dei saggi. L’indignazione, o le loro parole, non avrebbero di certo riportato in vita il ragazzo, né avrebbero restituito quel figlio ai suoi genitori, né ridato a lui la speranza di poterli aiutare. Sospirò rassegnato con gli occhi ancora velati dalle lacrime. La situazione gli sfuggiva di mano. Nessuno sembrava essere più in salvo.

    «Abbiamo sempre tenuto fede agli accordi, abbiamo sempre rispettato gli ordini dei governanti cristiani!», commentò qualcuno di loro con veemenza. «Anche se eravamo costantemente additati! Anche se non condividevamo le loro posizioni!».

    «Non si può più convivere pacificamente! Le risse, gli abusi di questi ultimi tempi ne sono un chiaro segnale…», aggiunse un altro.

    Il volume delle voci si alzò e poi, come se fossero degli strumenti musicali, si zittirono all’improvviso. Il rumore degli zoccoli di un cavallo: qualcuno entrava nella stradina della giuderia. Benavides alzò le braccia perché nessun suono, neppure quello di un respiro, tradisse la loro presenza in quella casa. Era stato loro vietato di governare per conto loro la comunità. Quella riunione poteva costare la vita a tutti.

    Il cavallo si fermò davanti alla porta della sala e il cavaliere smontò con flemma. Bussò diverse volte e rimase in attesa. I sette saggi si scambiarono delle occhiate e trattennero il fiato. Nessuno mosse un muscolo, e allora il cavaliere picchiò di nuovo, stavolta con maggiore forza. Sembrava che avesse intenzione di sfondare la porta. Benavides si avvicinò all’ingresso.

    «Chi è là?» chiese, inquieto.

    «Un messaggero», rispose un bisbiglio dall’altro lato.

    Benavides afferrò un’asta di legno e dischiuse la porta. Si ritrovò davanti un ragazzetto dallo sguardo onesto che gli tendeva una pergamena arrotolata. Benavides lasciò l’arma improvvisata e prese il documento. Osservò il sigillo di cera che lo chiudeva: aveva due iniziali, B e Y.

    «Devo ripartire subito», riferì il giovane, senza fornire spiegazioni sul messaggio o il mittente. Alzò la mano in segno di saluto e rimontò agile a cavallo.

    Benavides lo vide allontanarsi giù per la stradina e rientrò. Da tempo nessun cristiano, tranne quel ragazzo, aveva più avuto l’ardire di mettere piede nel quartiere ebraico, sebbene offrisse passeggiate piacevoli vicino alla cattedrale. Si accorse che gli altri saggi fissavano esterrefatti la pergamena, e allora la poggiò sul tavolo. Il rotolo scivolò lungo il piano.

    «Per chi è?» domandò Abravanel mentre lo sollecitava ad aprirlo.

    Dei sette saggi, Abravanel era la persona in cui Benavides riponeva maggiore fiducia. Il saggio si sedette ignorando l’impazienza del compagno e srotolò la pergamena.

    Libri profetici. Abdia. Versetto 20, lesse tra sé e sé.

    La osservò sovrappensiero, come in trance. Si grattò il mento e poi si alzò per dirigersi verso degli scaffali. Spostò la prima fila di libri, e dietro di loro apparvero una copia del Corano e una della Bibbia. Prese quest’ultima e la aprì in corrispondenza dei Libri profetici. Con l’indice scorse i versetti finché si fermò di colpo a uno dei paragrafi. Abdia, versetto 20. Era una rivelazione. La lesse in silenzio e si stropicciò gli occhi.

    «Per tutti», rispose gravemente. Chiuse la Bibbia e ripeté a voce alta. «… gli esuli di Gerusalemme che sono a Sefarad possederanno le città del Neghev».

    Quindi si accasciò sconfortato su una sedia vicina. Gli astanti si guardarono attoniti.

    «Nessuno di noi se ne andrà da Sefarad!», esclamò Gabriel, il medico.

    «Non volontariamente», lo contraddisse asciutto Benavides. «Qualcuno ci ha fatto giungere un monito tramite un versetto che profetizza il nostro esilio. È un avvertimento, su questo non ci sono dubbi».

    «Non possiamo fidarci di quel messaggio se non sappiano nemmeno chi l’ha mandato!», insistette Gabriel.

    Benavides osservò di nuovo le iniziali sul sigillo e si mise a camminare nella stanza mentre si massaggiava le tempie, come se all’improvviso fosse stato colpito da un forte mal di testa. Era sicuro che nessuno si sarebbe mai azzardato a mandare un biglietto del genere se non fosse stato assolutamente certo dell’informazione. Non riusciva, però, a decifrare l’identità dell’uomo misterioso che si celava dietro la B e la Y.

    «Se le Scritture parlano di un esodo dalla terra di Sefarad, la profezia si avvererà», interruppe il silenzio Abravanel, appoggiando l’altro saggio. «Dobbiamo allertare il nostro popolo».

    Benavides sollevò la mano.

    «Se lo facciamo, tutti saranno presi dal panico, e moriremo. Dobbiamo organizzare una fuga», ribatté puntando il dito.

    Si sedette con l’indolenza causata dalla stanchezza e prese a tirarsi lentamente una ciocca di capelli. Doveva escogitare qualcosa, al più presto. Li avrebbero espulsi e perseguitati come mai prima, e non sapevano neppure quando sarebbe successo, forse di lì a poche settimane, o mesi. Proprio perché non potevano prevederlo con certezza, dovevano agire in gran fretta. Sospirò preoccupato, guardò tutti con un’espressione decisa e ricominciò a passeggiare per la stanza, con le mani dietro la schiena, sfiorando le sedie disposte a mezzaluna.

    «Ci basta osservare ciò che siamo costretti a sopportare in questi tristi giorni, non ci resta molto tempo», affermò, serio. «L’ineluttabile è scritto dove ogni cosa è scritta». Fece una pausa solenne e sentenziò: «Una nuova diaspora è annunciata nelle Scritture, e quindi si verificherà, senz’ombra di dubbio».

    Nella sala i sette saggi cominciarono a parlottare con tale foga da sembrare venti volte più numerosi.

    «Ormai le risse sono all’ordine del giorno, per le ragioni più inutili, e la tensione è palpabile in ogni angolo della città», intervenne mentre abbassava i palmi delle mani perché stessero a sentirlo. «La pergamena dice il vero».

    «Il pericolo incombe su di noi», accorse in suo aiuto Abravanel. «Non sapete leggere tra le righe? Ascoltate i silenzi delle persone! Sono molto più inquietanti del peggiore degli insulti».

    «Troviamo il modo per coordinarci al più presto, così da anticipare gli eventi. Dobbiamo assolutamente mettere in salvo la nostra piccola comunità».

    Tutti i presenti annuirono e, poiché intesero che non c’era possibilità di replica, rimasero in silenzio. Benavides prese alcuni fascicoli di carta e si sedette a uno dei tavoli al centro. Aveva intenzione di mettere a punto un progetto articolato. Guardò gli scaffali dove conservava le Sacre Scritture e ricordò uno dei suoi versetti preferiti, che riportava un’affermazione di Isaia: Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Ripeté la frase dentro di sé e di colpo gli venne un’idea brillante. Fece loro segno di avvicinarsi, e gli altri sei lo circondarono ordinatamente. Abravanel gli si mise davanti con un’aria placida. Benavides sapeva sempre quello che faceva, e tra i sette anziani che amministravano la comunità era considerato il più autorevole. Un uomo mite nei gesti e risoluto nelle decisioni.

    «Hai qualche idea?» domandò Abravanel socchiudendo gli occhi a fessura.

    «Ho un piano», affermò l’altro sereno.

    Benavides già sapeva che gli avrebbero prestato ascolto, e sentiva su di sé tutto il peso della responsabilità. Con mano tremante cominciò a disegnare una mappa con un itinerario, uno schema particolareggiato della loro fuga.

    «Ora mi seguite?» domandò mentre indicava le città più importanti.

    «Capiamo cosa ci stai proponendo», rispose Gabriel, scettico, «ma il tuo piano non porterà a niente. Ci inseguiranno, e ci raggiungeranno in un paio di giorni. Chi sopravvivrà al rogo passerà il resto della sua esistenza in prigione, dove morirà comunque».

    Benavides gli sorrise, placido. Aveva pensato pure a quello. Prese un altro foglio e, riempiendolo di linee, illustrò loro come avrebbero evitato il terribile destino che il medico pronosticava. Isaia ne era la chiave. Avevano davanti a loro una strategia in piena regola, in cui ogni dettaglio, piccolo o grande che fosse, era ponderato e previsto.

    «Avremo bisogno di qualche ragazzo», aggiunse, e lasciò a metà lo schizzo che stava tracciando, «però mi sento in dovere di avvertirvi che si correranno seri pericoli».

    Nella sala calò il silenzio.

    «Propongo mio figlio Aviraz come volontario», proseguì Benavides, ignorando la tensione dei saggi. «È coraggioso ed è preparato ad affrontare dei rischi. Qualcuno dovrà aiutarlo, però», aggiunse mentre volgeva lo sguardo sugli altri.

    Abravanel alzò la mano.

    «Mio figlio Isaac», disse con voce leggermente tremante.

    Non era sicuro che la moglie avrebbe condiviso quel gesto di generosità. In segno di riconoscimento, Benavides gli sorrise e riprese la sua spiegazione.

    «Sono giovani e hanno forza sufficiente a raccogliere ciò di cui abbiamo bisogno».

    «Ma sono pure imprudenti», replicò uno dei saggi.

    «Certo», rispose Benavides mentre riprendeva a tirarsi i capelli, inquieto. «E per questo non verranno messi a parte di tutto il piano: ognuno di loro ignorerà il compito dell’altro».

    I sette saggi sembrarono acconsentire.

    «Siamo tutti d’accordo, allora», concluse Benavides. «La nostra salvezza è in mano ai due ragazzi».

    Divisero i compiti di ciascuno mentre imprimevano nella propria mente le istruzioni del saggio. Purtroppo Benavides non sarebbe riuscito a salvare tutti: lui stesso sarebbe potuto cadere lungo il cammino pur di proteggere la comunità. Prima di concludere la riunione scrissero i messaggi che avrebbero consegnato ad Aviraz e Isaac.

    Procurati 40 asini vecchi e malandati a poco prezzo, spingendoti fin dove potrai trovarli. E che la tua mano destra non sappia quel che farà la sinistra.

    Compra 100 borse di cuoio della capacità di otto pugni. Alla sommità dovranno chiudersi con corde ben forti. E che la tua mano destra non sappia quel che farà la sinistra.

    Acquista 81 torce e nascondile nei dintorni della città.

    3

    Isaac e Aviraz facevano ritorno in città dopo una giornata trascorsa a raccogliere ortiche dietro richiesta di Gabriel, che si dichiarava troppo affaticato per uscire di casa.

    «Ho un qualche squilibrio interno, credo, che mi provoca una strana sensazione di spossatezza. Temo di nutrirmi male, oppure non capisco, qualcosa non va nell’alimentazione. So solo che soffro di quel male che comunemente chiamiamo scompenso, dovuto senz’altro a un’eccessiva stanchezza».

    «Ma le ortiche ti faranno male», aveva protestato Aviraz facendo una smorfia di dolore.

    Gabriel era scoppiato a ridere: cosa pensava il ragazzo, che avesse intenzione di sfregarsele sulla pelle per guarire dalla debolezza?

    «Certamente», gli aveva risposto, «ma non cotte. Rilasciano le loro proprietà benefiche in una buona zuppa di cipolle. Mi basterà mangiarle per qualche giorno, e tornerò a essere quello di un tempo».

    Isaac e Aviraz rimanevano sempre impressionati dalle conoscenze del medico, e non erano certo gli unici. Una volta giunti alla cinta muraria, i due ragazzi si fermarono sbalorditi: una coltre nera sovrastava la città . Aviraz si grattò le basette, nervoso.

    «Ho un brutto presentimento», disse mentre accelerava il passo lungo la strada che conduceva alla dimora della comunità ebraica. Isaac lo raggiunse, e così costeggiarono il mercato della zona alta fino a raggiungere la piazza della cattedrale, dove ancora fumavano i resti del rogo, e diversi uomini accatastavano i rami che non si erano bruciati. Mentre i ragazzi contemplavano la scena, sul loro volto si formava un’espressione di terrore.

    «Andiamocene», sollecitò Isaac mentre tirava via l’amico per il braccio.

    Indietreggiarono lentamente, cercando di passare inosservati, con il timore che qualsiasi movimento brusco avrebbe potuto tradire la loro presenza.

    «Non è malaccio, la tua camicia!», gridò una voce dietro di loro.

    Aviraz si girò pian piano, scambiandosi intanto uno sguardo attonito con Isaac. Osservò il gruppo di giovani cristiani che li circondava con aria minacciosa e poi si guardò la veste, che tradiva la sua religione. Forse avrebbe fatto meglio a togliersela. Isaac gli lesse nel pensiero e fece segno di no con il capo.

    «Non ti azzardare a farlo», lo ammonì.

    Per Isaac la dignità era più importante di ogni altro valore. Era l’amico del cuore di Aviraz, e non avrebbe mai permesso che qualcuno approfittasse di lui in quel modo. Lasciò a terra il sacco di ortiche, fece un passo in avanti e si frappose tra Aviraz e il ragazzo che l’aveva preso in giro.

    «Non ti azzardare», ripeté, e intanto fissava l’altro negli occhi come un felino pronto all’attacco.

    Irrigidì i muscoli delle braccia, si tirò su le maniche per mostrare i pugni e serrò le mandibole. Era magro, ma più forte della media. Per tutta risposta, pure gli altri mostrarono i muscoli. Isaac si scagliò sul loro capo e lo colpì con un pugno talmente violento da farlo crollare a terra privo di sensi. Il resto della comitiva li attaccò senza pietà, e sia Isaac sia Aviraz cominciarono a difendersi come meglio potevano.

    «I gomiti!», urlava Isaac all’amico.

    Nel corpo a corpo, i gomiti erano un’arma infallibile. Dovevano mostrarsi agili, scattanti: del resto erano solo in due contro cinque, sebbene uno di loro giacesse esanime sul lastricato. Con un colpo alla bocca dello stomaco Isaac ne ferì subito un altro, che si piegò in due e iniziò a tossire. Quindi corse a difendere Aviraz, in netto svantaggio, perché il suo aggressore lo stava mettendo a dura prova con una strana tecnica, mai vista: gli si faceva sotto saltellando rapidamente e poi gli assestava dei pugni con le nocche. D’istinto Isaac si infilò tra di loro, incassò il colpo violento diretto ad Aviraz mentre tendeva la gamba contro il ginocchio dell’altro. Il cristiano l’afferrò, sofferente, e si accasciò, ormai fuori gioco. Gli ultimi rimasti in piedi si scambiarono un’occhiata intimorita e retrocessero lentamente per poi dileguarsi in una delle stradine.

    «Stai bene?» chiese Isaac all’amico, mentre gli esaminava la faccia.

    Aviraz annuì e guardò le ortiche sparse a terra.

    «Raccogliamole e torniamocene a casa», disse con il respiro mozzato.

    Isaac riprese il telo in cui le aveva raccolte, ve le adagiò e poi lo richiuse. I due si infilarono nella giuderia. Non appena il cigolio dei cardini ne tradì il ritorno, Benavides si affrettò a nascondere la pergamena.

    Aviraz era rientrato tardi, ben oltre il crepuscolo . Mentre accostava la porta il ragazzo socchiuse le palpebre, come se quel gesto ne potesse assorbire tutto il rumore, quindi si avvicinò al sottoscala. Si rimise a posto le vesti e si guardò la camicia. Non trovava nessuna giustificazione plausibile al suo stato deplorevole. Era riuscito a nascondere il livido sul volto con una polvere bianca simile alla calce sciolta in acqua, eppure, nonostante il buon lavoro sul viso, quella maledetta camicia sporca di sangue avrebbe parlato da sola.

    Aviraz era un ragazzo robusto, ormai prossimo alla maggiore età. Aveva un fisico scolpito e proporzionato, con spalle ampie e gambe muscolose unite a un’altezza superiore alla media. Sul volto esibiva sempre un’espressione felice che lo rendeva particolarmente affascinante; ogni dettaglio in lui era bello e fine, e per questo con il tempo si era montato la testa. Tutti i giorni spuntava la barba con le forbicine sino a lasciarla di pochi millimetri – quanto gli piaceva quel suo tocco virile! – poi passava mezz’ora a pettinarsi i capelli forti e neri, brillanti.

    Rimase sulla soglia, immobile, finché lo scricchiolio di una sedia al piano di sopra gli fece capire che Benavides si era appena seduto. Salì i gradini in punta di piedi e si chiuse nella sua camera. Sapeva fin troppo bene che il padre detestava la violenza. Guardò attraverso la finestrella e respirò sollevato quando intravide Isaac rientrare a casa. Con lui al suo fianco nessuno avrebbe potuto fargli nulla. Stavolta se l’erano cavata, e non si era nemmeno dovuto sfilare la camicia, ma di sicuro presto ne avrebbero pagate le conseguenze, perché, ne era certo, quei ragazzi non li avrebbero perdonati tanto facilmente.

    Benavides sentì che Aviraz si infilava nella sua stanza e riprese dal cassetto il messaggio che aveva ricevuto quella stessa mattina. Ricominciò a esaminarlo. Inspirò con forza e si sfregò gli occhi con un panno, lottando contro la stanchezza. L’anziano aveva uno sguardo magnetico, di un azzurro intenso, che testimoniava la sua immensa forza di spirito: poteva convincere chiunque senza essere costretto ad aprire bocca. Accese il candelabro dai sette bracci e lo adagiò alla sua sinistra per evitare l’ombra della mano sulle lettere. Da una vita studiava le Sacre Scritture su quel tavolino, seduto a quella sedia, che girava leggermente per inclinarsi a sinistra. Nato e cresciuto sotto la buona stella di un’eredità milionaria, non aveva mai avuto bisogno di lavorare, come si poteva evincere dalle sue mani perfette, morbide e bianche, turbate solo da qualche sporadica macchia che svelava l’età avanzata del saggio.

    Ripassava continuamente l’indice sulla ceralacca, chiedendosi chi avesse mai potuto inviare quel messaggio cifrato. L’anonimo mittente li aveva messi in guardia, e in maniera confidenziale. Nessun altro avrebbe infatti potuto capirlo, ma loro sì, perché quel versetto specifico della Bibbia profetizzava l’esilio degli ebrei di Spagna. Li avrebbero cacciati.

    Lesse ancora una volta il versetto e si concentrò sui tratti presenti ai lati. Si trattava di alcune linee orizzontali e di altre verticali che si incrociavano senza alcuna logica apparente sopra le due iniziali, la B e la Y. Non erano casuali, ne era convinto. Nulla lo era in quella nota. Dovevano pur possedere qualche significato. Avvicinò ancor di più la pergamena alle candele per leggerla in controluce, e man mano sulla superficie iniziarono a stagliarsi delle lettere di un marrone invecchiato. Il saggio rimase a contemplare quei caratteri, che prodigiosamente andavano a formare un nome, e poi inarcò le sopracciglia, esterrefatto.

    «Ben Yehuda», mormorò.

    Gli ebrei utilizzavano nomi talmente lunghi che solo tra di loro potevano ricordarli, e Benavides aveva capito subito di chi si trattava. Il nome completo era Isaac ben Yehuda de Abravanel, ma i cristiani lo identificavano come Isaac de Abravanel. Mai un gentile avrebbe associato la firma di ben Yehuda a quella del consigliere privato di Ferdinando il Cattolico, nonché agente finanziario di Isabella: uno degli ebrei più importanti della comunità, proveniente dalla più illustre e distinta famiglia semita di Siviglia. Il suo avo, don Samuel Abravanel, aveva ricoperto il ruolo di tesoriere di Enrico ii e Giovanni i di Castiglia, opportunità che aveva accresciuto l’ottima reputazione della stirpe ed esteso la sua fama tra i nobili di Sefarad. Benavides conosceva bene un parente di tale lignaggio, un familiare prossimo di ben Yehuda, ovvero l’Abravanel che viveva nella sua città.

    Respirò a fondo e si abbandonò sullo schienale della sedia. Quella firma indicava che il messaggio era autentico. Ripeté ancora l’operazione, e quando riavvicinò la pergamena al calore delle fiamme altre lettere delinearono alcune colonne di testo. La pergamena celava un ulteriore mistero, scritto con il succo di limone. Si trattava di altri versetti, di alcuni indovinelli incrociati tra loro, al cui fianco tre lettere ebraiche poste in verticale riempivano ognuna una casellina vuota. Tirò fuori dallo scaffale i libri sacri e si mise al lavoro. Se quei versetti conducevano a qualcosa, le Sacre Scritture gliel’avrebbero rivelato senz’altro. Benavides era un esperto cabalista, abile nei messaggi cifrati cui la Cabala ricorreva. E infatti la nota era diretta a qualcuno come lui, perché qualsiasi altra persona inesperta non avrebbe potuto cogliere il significato di quei complessi geroglifici.

    Si chinò di nuovo e per ore non si mosse più, immerso nella consultazione dei volumi, nello studio della pergamena e nell’abbozzo di grafici su fogli sparpagliati sul tavolo. Di tanto in tanto si stropicciava gli occhi per chiedere alla vista un ultimo sforzo. A un certo punto posò la penna d’oca e sbuffò soddisfatto. Era riuscito a trovare la chiave. I numeri nascosti nei versetti disegnavano un percorso: il cammino originario di Giacobbe, che i cristiani conoscevano come Santiago.

    Le tre lettere ebraiche assunsero finalmente un significato, l’unico dettaglio noto di una misteriosa incisione che tutti i cabalisti cercavano da secoli. Incrociò le mani, pensieroso. La Pietra di Giacobbe si nascondeva lungo il Cammino. Se davvero incombeva su di loro la persecuzione, avrebbe dovuto trovarla prima di abbandonare il Paese; lui, però, non poteva farlo, perché ricopriva un ruolo ben diverso nei piani di fuga. Avrebbe lasciato la ricerca al figlio Aviraz. Scrollò la testa, inquieto.

    Intinse di nuovo la penna e trascrisse ogni informazione in caratteri minuti, quasi illeggibili, una eredità che trasmetteva a chi, suo malgrado, non sarebbe più stato al suo fianco. Erano le sue ultime volontà. All’orizzonte si profilavano pochi giorni quieti, sereni, come quello, e i tempi a venire sarebbero stati molto incerti. Prima di abbandonare la sua terra, Aviraz doveva trovare la Pietra di Giacobbe, nascosta lungo il Cammino a cui faceva riferimento la pergamena, e con lei l’incisione che svelava il più grande mistero dell’umanità.

    4

    Aviraz si svegliò madido di sudore. Aveva avuto un incubo, o qualcosa del genere, un sogno stranissimo in cui si ritrovava circondato da un abisso, e doveva attraversarlo su un ponte sospeso nel vuoto. La nebbia ne copriva il fondo, ma Aviraz sapeva che non aveva fine. Il ponte era troppo vecchio, fatto di assi di legno, e mentre lo percorreva oscillava pericolosamente. Due stretti cavi fungevano da corrimano, ma cedevano non appena ci si appoggiava. Lo seguiva il padre, insieme ad altre persone a lui care, e tutti lo spronavano a non tornare indietro; lui, però, aveva le vertigini e temeva di cadere. Il suo corpo barcollava da una parte all’altra, perdendo così l’equilibrio. Quanto più si muoveva, tanto più il ponte dondolava.

    Una volta sveglio, pian piano riuscì a interpretare il sogno. Stava per attraversare un ponte, un cammino, che non gli consentiva né di cambiare strada né di tornare indietro. I canapi erano dei sostegni della sua mente, spauracchi per scacciare il timore, e non gli avrebbero comunque impedito di precipitare giù. La famiglia lo incalzava e sosteneva, senz’altro, ma nemmeno lei avrebbe potuto fare nulla per aiutarlo. Quell’esperienza avrebbe temprato il suo spirito, quell’avversità l’avrebbe fatto crescere, perché quel ponte era la vita stessa. Si stropicciò gli occhi per cancellare l’immagine terribile del burrone e si alzò di scatto. Dalla finestrella filtrava il sole. Si stiracchiò con flemma e sorrise.

    Se è una bella giornata, sarà un gran giorno, si disse.

    Benavides era solito ricorrere al clima per le sue spiegazioni. Ci sono due tipi di giornate, aveva affermato una volta il padre. In alcune brilla sempre il sole, e altre sono piagate all’improvviso dalle tempeste. Aviraz era d’accordo: certi giorni tutto sembrava svolgersi a suo favore, mentre altri avrebbe fatto meglio a non mettere piede fuori dal letto. Quando ogni cosa va per il verso sbagliato, soffia un vento rabbioso, c’è pioggia, e nebbia, e non si riesce a vedere con chiarezza dove andare. È meglio non fare passi falsi, allora. Ti direi addirittura che è meglio non muoversi affatto. E aveva concluso la sua morale con: Mai prendere decisioni quando si è stanchi, malati o arrabbiati.

    Da un paio di anni, ovvero dal giorno in cui Benavides gli aveva dato quel consiglio, Aviraz aveva cambiato il suo modo di pensare. Ricordava la circostanza: era tornato a casa fuori di sé perché Isaac non l’aveva aiutato a combinare un incontro – che sembrasse però fortuito – con la sorella.

    Non è una cosa che mi riguarda, gli aveva infatti risposto.

    Allora Aviraz aveva deciso di togliergli il saluto ma, una volta rientrato a casa, si era sentito stanco per la lunga passeggiata al mulino, e gli era scoppiato un terribile mal di testa. Erano servite le parole del padre per fargli rimandare di qualche tempo quel suo proposito. E aveva finito per dimenticarsene. Era stata una reazione esagerata. L’amicizia con Isaac non ne era stata compromessa, e aveva escogitato da solo il modo per uscire con Telat.

    Aprì il cassettone e tirò fuori una camicia. Prese lo scrigno d’argento, alzò il coperchio e guardò a lungo il suo riflesso. Per fortuna il livido era quasi sparito, si vedeva appena. Si passò una mano sulla parte contusa e strizzò gli occhi: gli faceva ancora male. Aprì la finestrella per far circolare l’aria e lanciò un’occhiata in direzione della casa di Isaac.

    Si domandò come doveva essere conciato, visto che aveva preso il colpo al suo posto. Al primo piano una finestrella si aprì, e il cuore cominciò a battergli forte. Era la stanza della sorella di Isaac. La ragazza si sporse fuori un istante e poi rientrò velocemente in casa. Aviraz si portò la mano al petto per calmarsi. Telat era una ragazza eccezionale, con il suo fisico alto e snello. La trovava semplicemente meravigliosa, soprattutto per quei riccioli color del rame, specchio della sua natura selvaggia. Telat era bellissima, in ogni suo aspetto.

    Scese in cucina e mise sul livido un panno bagnato nell’acqua fredda. Stava per applicarsi di nuovo l’intruglio quando rintoccarono le otto di mattina, la porta dell’ingresso si aprì e Benavides entrò in casa. Si era svegliato presto per andare a trovare Abravanel. Gli aveva rivelato quello che aveva scoperto la notte prima, a eccezione dell’identità del mittente. Non aveva infatti mai saputo il motivo, di sicuro grave, per cui i due Abravanel si erano allontanati e non si erano mai più visti.

    Benavides ricordava alla perfezione l’ultima immagine che aveva di lui. Una scena singolare. Era una buia notte di pieno inverno, e pioveva a catinelle. Si trovava nella sua stanza quando aveva sentito dei colpi secchi provenire dalla strada. Si era affacciato alla finestra della sala. Sotto il temporale, Abravanel urlava e gesticolava. Davanti a lui, il fratello gli rispondeva a tono. Entrambi parevano ignorare il gelo e l’acqua. Poi le voci erano cessate di colpo, gli uomini si erano guardati, come se il loro fosse un addio, e Isaac era montato sul suo cavallo per sparire nella tempesta. Poche settimane dopo era giunta la notizia che Isaac ben Yehuda de Abravanel era stato nominato consigliere personale del re. Benavides si era fatto l’idea che Abravanel lo ritenesse un traditore della sua gente. Da quel momento più nessuno l’aveva visto in città, né Abravanel aveva menzionato il fratello.

    Benavides aveva bisogno che Abravanel analizzasse il messaggio con la massima attenzione, senza che fosse distratto da questioni famigliari. Lo aveva lasciato a casa a studiare la pergamena, ma prima si era premurato di coprire con una macchia marrone il nome di Isaac ben Yehuda. Quattro occhi erano meglio di due.

    «Andiamo», sollecitò il figlio, imperioso.

    Aviraz lo guardò stranito. Nemmeno un saluto, un cenno del capo. Salì nella sua stanza, finì di vestirsi in tutta fretta e uscì di casa in compagnia del padre. Aviraz era l’unico figlio di Benavides. Vivevano soli da parecchi anni, lui e il padre, e della madre non aveva più alcun ricordo, né Benavides gliene aveva mai parlato; forse per quello sentiva una vera e

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