Scomode dimore
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Info su questo ebook
Tre storie di forte impatto emotivo, narrate con sapiente penna appuntita. Spaziando fra i secoli e le latitudini geografiche, sullo sfondo di un’ambientazione storica che è essa stessa un personaggio. Tre storie che si intrecciano in un unico racconto, in un solo corpo, quello scomodo eppure magnifico delle donne.
Patrizia Bisi
Nasce con una propensione genetica per gli studi scientifici che le viene diagnosticata nell’adolescenza. Da qui la laurea in matematica e il ruolo di ricercatrice. Cresce con i libri, compagna del cuore la letteratura, complice la penna che dalle formule scappa sui fogli dove vengono fuori storie, si materializzano personaggi. Nel 1992, sotto lo pseudonimo di Artemisia Boccadoro, pubblica il suo primo libro di narrativa, Il Viandante, con la casa editrice Edizioni Dellautore, da lei stessa fondata insieme a un gruppo di donne. Grazie a Il Viandante, tradotto in inglese, le si apre la porta del Program in Writing and Humanistic Studies del MIT di Boston. Qui vive e lavora per due anni, partecipando ai laboratori di scrittura tenuti da Anita Desai e Alan Lightman, e portando a termine il suo secondo romanzo, Daimon (Einaudi 2005), con il quale vince il Premio Rapallo-Carige e il Premio Città di Bari. Vive nella campagna della Tuscia, dove ha scritto Scomode dimore. Risiede periodicamente in Nepal, dove la sua famiglia si è allargata. Ha divorziato dalla matematica, ora è il tempo della scrittura.
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Anteprima del libro
Scomode dimore - Patrizia Bisi
L’eretica
La santità dei santi padri era un prodotto sì
cangiante ch’io decisi di allontanare ogni dubbio
dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere
il salto per un addio più difficile.
Amelia Rosselli, La libellula
Tredici anni
La nebbia confonde il paesaggio della campagna invernale in una fioca luce lattiginosa, spettrale. Luce che entra dalle finestre protette da pesanti grate di ferro in camera di Cristina, sdraiata sul letto del suo baldacchino con le mani giunte, immobile come una morta ricomposta sul feretro. Anche il respiro sembra fermo tanto è silenzioso, impercettibile. I suoi occhi spalancati fissano vitrei l’ultima immagine rimasta sospesa tra il sogno e il risveglio, l’acciaio della spada che luccica sopra la sua testa come se il sole di mezzogiorno la colpisse dove è più affilata. Schegge di luce e ombre, che celano l’impugnatura della spada e il braccio di chi la brandisce. Dietro, il buio. Come un pesante drappo calato sulle terrifiche visioni di morte che hanno tinto la notte con il colore del sangue, teste mozzate membra squarciate torrenti fiumi maree di sangue versato.
E lì la coscienza si risveglia, l’orrore di quanto ha visto si fa terrore, il cuore accelerato, il respiro ansante. Cristina scivola giù dal letto come un serpentello e corre a rifugiarsi da Nunziatina che dorme nello stanzino accanto, e l’abbraccio della balia l’accoglie come un approdo sicuro e in quell’abbraccio lei si fa piccola, piccola come quando Tina la allattava.
«Non c’è niente d’aver paura angelo mio», dice Nunziata tenendosela raggomitolata tra l’ascella e il seno. «Questi sogni brutti ce li manda il demonio e perciò non bisogna darci retta. Non ci pensare più ed è già bello che dimenticato. Ora te ne stai qui con Tina stretta stretta e dormi cheta. Su, chiudi gli occhi. Fai un bel respiro, così, ancora un altro, brava. Vedi? Va meglio. Ora vedrai che si cheta anche il cuoricino. E domani sarà tutto passato.»
Quando Cristina si è addormentata di respiro regolare, regolare il battito del cuore che finalmente si è quietato, Nunziata prende a borbottare tra sé e sé. «Quella bestia d’Osvaldo. Un ciuco è meno bestia di lui. E l’hanno pure fatto cavaliere. Ebbravo cavaliere, che bisogno c’era di mettersi a raccontare davanti alla piccola per filo e per segno le vostre belle imprese, e quanti prigionieri avete fatto in battaglia e quanti schiavi, quante teste avete fatto volare con un destro, quanti stomaci avete infilzato col sinistro… e che diavolo, lo sapete che essa è delicata, che ancora non s’è rimessa dalla febbre di malaria, che se l’è vista brutta anima mia. Un poco di considerazione, se non sai che dire mentre t’ingozzi a tavola almeno statti zitto. Statti zitto, io gli dicevo così a quell’Osvaldo se ero io la madre.»
A Nunziata il cugino della baronessa madre, il cavaliere Osvaldo, non è mai piaciuto. E ancora non sa, dal momento che certe voci non arrivano alle orecchie della servitù, che il barone gli ha promesso in sposa Cristina quando la ragazza compirà tredici anni: il dieci marzo del 1231.
Il barone di CC è l’ultimo erede di un’antica famiglia di feudatari della Tuscia, un’eredità che nel passare di mano in mano è arrivata già sperperata e c’è rimasto poco da scialare. Il barone ha tre figlie femmine da sistemare e il cugino Osvaldo, che si è arricchito con il commercio, sebbene non di nobili natali è stato fatto cavaliere per le sue imprese militari. Tanto basta, e ce n’è d’avanzo ché ormai con l’aristocrazia non si cava più un gran che. Così ha ragionato il barone quando Osvaldo ha chiesto in sposa la sua primogenita, ragionamento condiviso con la moglie. «Sì ma ancora non ha il ciclo la figliola», ha detto la baronessa, «tocca aspettare che si faccia donna.»
Tredici anni si è infine convenuto nell’atto ufficiale della promessa di matrimonio. Osvaldo si è mostrato comprensivo. E anche generoso, considerato il modesto ammontare della dote di Cristina su cui si sono infine accordati. In più, Osvaldo ha offerto al futuro suocero la compartecipazione immediata in certi lucrosi affari di import-export.
Affari che all’inizio hanno portato qualche lucro, ma non quanto il barone si aspettava dalla compartecipazione ai profitti oltre che alle spese, come egli stesso ha dovuto ammettere quando la moglie gli ha chiesto conto dell’investimento finanziato attingendo al suo scrigno di gioielli. Finché, per certi investimenti fatti a mal partito, quando il barone si è fatto convincere da Osvaldo a finanziare l’importazione di tappeti e tessuti preziosi dal Medio Oriente, impresa che dopo l’esenzione dal pagamento dei dazi si prometteva molto redditizia, il cugino Osvaldo ha perso la fiducia del barone e il barone i suoi soldi. La spedizione non è andata secondo le aspettative, le navi al ritorno in patria sono state assalite dai pirati dei Balcani e le merci trafugate prima di toccare il suolo italiano.
Osvaldo per sfuggire ai creditori si è imbarcato con l’ultimo contingente dei crociati per andare a combattere in Terra Santa, pronto a morire in battaglia piuttosto che nelle patrie galere. Ma non è ancora arrivato alle porte di Gerusalemme che la crociata si è già conclusa senza colpo ferire con un accordo tra Federico II, imperatore del sacro romano impero, e il sultano di Egitto Al-Kamil. I quali, essendo entrambi uomini d’intelletto colto e mente aperta, nella soffice intimità della tenda del sultano hanno trovato punti di convergenza di non bellica natura.
La conclusione bonaria di una crociata che Federico non aveva voglia di combattere, rimandata più volte nonostante la scomunica di papa Gregorio IX, sembra promettere al barone la soluzione a breve dei suoi problemi: le truppe imperiali sarebbero presto rimpatriate e con loro Osvaldo, ad assolvere i suoi doveri di futuro genero e socio maggioritario della compagnia.
L’accordo che Federico ha firmato senza colpo ferire restituisce alla chiesa di Roma le spoglie di una Gerusalemme libera dagli infedeli ma saccheggiata di quanto di prezioso c’era da saccheggiare. Da qui la dura reazione a distanza di papa Gregorio. E dal danno alla beffa, Federico si incorona re di Gerusalemme beffandosi della scomunica papale. Un grave atto di ribellione, da parte di un imperatore già mal visto e già più volte scomunicato. L’ultimo atto dopo altri anche più gravi, che il papa non ha perdonato. A cominciare dalla reazione violenta delle truppe imperiali dopo la sua dura omelia contro l’imperatore, quando Gregorio si era trovato costretto a fuggire da Roma e riparare a Viterbo. C’erano voluti segni manifesti dell’ira divina, l’inondazione del Tevere e la terribile carestia che aveva messo in ginocchio la popolazione, per farlo tornare alla sua legittima sede, richiesto a gran voce dal popolo. Giacché quando il popolo è in ambasce sì gravi a chi può rivolgersi se non a chi ha il compito di intercedere, mediare con Dio?
Papa Gregorio è un bravo mediatore. Tutti sanno quanto si sia già speso, e quanto esposto, per intercedere con Federico in favore della Lega Lombarda, rea di lesa maestà per non avere giurato fedeltà all’imperatore. Una faticosa, irritante opera di mediazione, ma sull’altro piatto della bilancia c’era per la chiesa di Roma l’appoggio dei comuni lombardi alla lotta contro l’eresia nei territori del nord, covo di valdesi.
Mediare. A volte è opportuno, a volte necessario. E la politica, che lo stesso barone ha sempre considerato inutile come un calesse senza cavallo, nella sua complessità ha regole semplici. Una per tutte, più alti sono gli interessi in gioco e più si fa profittevole la via del compromesso in alternativa allo scontro, specie se armato e specie se in casa propria. Alla fine di una lunga ed elaborata trattativa la scomunica papale viene ritirata e la pace con Federico stipulata in pompa magna. Papa Gregorio riconosce il dominio dell’imperatore sulle terre di Germania e assicura la propria neutralità nella contesa tra l’impero e i comuni della Lega Lombarda. Federico riconosce il vassallaggio del Regno di Sicilia alla chiesa romana e il diritto del clero all’esenzione dal pagamento dei tributi sui beni ecclesiastici. E per mostrare la propria buona fede l’imperatore aggiunge alla trattativa qualcosa in più che carezza le corde sensibili del papa: leggi più dure contro gli eretici di qualsivoglia eresia.
Pacificati i due massimi poteri che si sono spartiti il territorio, si può tornare finalmente tutti in pace alle proprie attività, civili e militari, plebei e aristocratici.
Tutti tranne Osvaldo, ufficialmente dato per morto di tifo a Gerusalemme. (Ma il barone ha saputo da compagni d’armi che Osvaldo si è sistemato, che ha un negozio, una moglie laggiù.) E per fare fronte ai debiti della società il barone ora si ritrova in mutande, come Nunziata lo sente dire alla baronessa nel salottino blu: «In mutande! Con tre figlie femmine sul groppone e un maschio la cui unica attività, oltre a fregiarsi del titolo per farsi far credito, è frequentar le case di piacere».
Fatto è che per fare cassa senza attingere ancora allo scrigno della moglie il barone ha dovuto vendere le sue proprietà, terre e fabbricati: «Svenderle! Con il collo strozzato! E a quegli strozzini dei preti che si sono già presi tutto». Fetta dopo fetta la sua tenuta si è assottigliata, i contadini hanno cambiato padrone, i servi hanno traslocato e con Nunziata sono rimasti a servire al castello solo quell’ubriacone del cuoco, ché nessuno se lo sarebbe preso con le sue referenze, e una servetta che serve a niente, come dice la baronessa lamentando di essere praticamente senza servitù. Le loro proprietà si sono ridotte al castello (mezz’ala del castello, levate le parti pericolanti da ristrutturare), le scuderie con qualche brocco per il tiro, e poi che cosa, un calesse, una carrozza, il vecchio mulino fuori uso, le stalle vuote con gli attrezzi arrugginiti e qualche ettaro di terreno incolto.
Questa è la situazione del barone quando Cristina compie tredici anni.
Non di solo pane
Cristina è graziosa, nel suo piccolo. Con la malattia s’è scarnita, ma c’è ancora tempo per crescere dove nella femmina deve starci carne, considera il barone. Ha denti sani, bianchi come perle, e bellissimi capelli, di un bel castano ramato come la criniera del morello che egli ha venduto al marchese – ben pagato sì, ma gli ha spezzato il cuore quella vendita.
Non sarebbe stato un problema maritarla neanche dopo la dipartita di Osvaldo, se non ci fosse stato il problema della dote ridotta al lumicino dalle circostanze avverse. Finora il barone ha ricevuto una sola proposta formale. Una proposta che non si può rifiutare. Come egli intende fare ben capire alla baronessa convocata nel salottino blu (con vista sulle terre che ora appartengono al papato) affinché eserciti le sue funzioni di madre e convinca la figlia a rinunciare al voto di castità: «Fatto quand’essa non ci stava con la testa, moglie mia».
«Sì, ma considerate che il monastero risolve almeno il problema di sistemarne una su tre. Non dimenticate che ci sono anche le gemelline da sistemare.»
«Il monastero? Bella soluzione voi suggerite donna», tuona il barone con la voce grossa, ergendosi nel suo metro e sessanta di altezza d’uomo. «Volete che nostra figlia vadi a fare la serva in clausura? Ebbene, che vadi. Amen. Almeno la smetterò di sentire le sue tiritere su chi va e chi non va nel regno dei cieli. Mi basta e avanza il sermone di don Nicolino a mezzodì, non ho bisogno di farmi andare di traverso anche il pranzo della domenica. Moglie mia, voi lo sapete che io non ho niente contro le suore, per carità, anche una donazione ho fatto al Monastero delle Sorelle di Maria. Una pia istituzione, oltre che un’ottima sistemazione per vedove e zitelle, mia sorella Loreta ci si trova bene. Niente in contrario. Ma Cristina, per Dio, è giovane e bella, perché sprecarla così.»
La baronessa scuote la testa alza gli occhi al cielo e sospira, un gesto comprensivo della loro comune pena che spinge il barone a condividere con la consorte quanto più gli preme.
«Sapete moglie mia che cosa gli ci vuole a quella figliola? Ci vuole il marito giusto. Maturo d’età, magari un po’ bigotto, uno che gradirebbe di buon animo una moglie così giovane e pia. Uno come il marchese, che ha per l’appunto manifestato interesse alla maggiore delle nostre figlie. Un matrimonio da celebrarsi quest’estate, se si arriva a un buon accordo. Il marchese è ricco, moglie mia. E molto. Ha ben saputo amministrare le sue cose, e con le terre che gl’ha portato in dote la povera marchesa, pace all’anima sua, s’è quasi raddoppiato il patrimonio. E non ha figli né parenti prossimi, ora che ha perso anche l’ultima sorella. Alla sua morte, e senz’augurargli male non ne avrà per molti anni, alla sua