Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Prodigium. La serie completa
Prodigium. La serie completa
Prodigium. La serie completa
E-book1.126 pagine15 ore

Prodigium. La serie completa

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Incantesimo - Maleficio - Sortilegio - Magico
4 romanzi in 1

Oltre 200.000 follower
Tradotto in 12 Paesi

La sedicenne Sophie Mercer ha appena scoperto di essere una strega.
Il suo primo incantesimo, però, finisce in un disastro. Sua madre decide allora di spedirla alla Hecate Hall, una scuola speciale dove ragazzi particolarmente dotati, i Prodigium, imparano a usare i loro poteri con discrezione e soprattutto lontano dagli occhi dei normali. Da un giorno all’altro Sophie viene catapultata tra streghe, mutaforma, maghi, licantropi, fate e vampiri. Come se non bastasse, una minaccia incombe sulla scuola: un’organizzazione segreta e potentissima, L’Occhio di Dio, vuole eliminare dalla faccia della terra tutti i Prodigium. E quando Sophie si rende conto di essere la prima della lista, le domande si affollano nella sua mente. Perché è finita nel mirino dell’Occhio? Quali sono i suoi reali poteri? E soprattutto, che genere di oscuri segreti nasconde la sua famiglia? 
Incantesimo, Maleficio e Sortilegio sono i tre capitoli di una serie che ha conquistato i lettori e che prosegue nello spin-off Magico, in cui seguiamo le vicende della quindicenne Izzy Brannick, cacciatrice di mostri che all’improvviso si ritrova a vestire i panni di un’adolescente comune. A volte lasciarsi alle spalle il passato è molto più difficile di quel che sembra…

Benvenuti  nella scuola dove è normale essere speciali

Tradotto in 12 Paesi
Oltre 200.000 follower su Goodreads
Un bestseller internazionale

«The Prodigium Series mescola il mistery alla commedia, con un successo editoriale imprevedibile!»
Libero
Rachel Hawkins
Nata in Virginia e cresciuta in Alabama, ha insegnato inglese in una scuola superiore. The Prodigium series, composta dai romanzi Incantesimo, Maleficio e Sortilegio, ha riscosso un tale successo che l’autrice ha deciso di proseguirla con lo spin-off Magico.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2017
ISBN9788822703309
Prodigium. La serie completa
Autore

Rachel Hawkins

Rachel Hawkins is the New York Times bestselling author of The Wife Upstairs, Reckless Girls, The Villa, and The Heiress, as well as multiple books for young readers. Her work has been translated into over a dozen languages. She studied gender and sexuality in Victorian literature at Auburn University and currently lives in Alabama.

Correlato a Prodigium. La serie completa

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy Young Adult per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Prodigium. La serie completa

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Prodigium. La serie completa - Rachel Hawkins

    1438

    Tutti i personaggi e gli eventi descritti in questo libro, tranne quelli

    di pubblico dominio, sono frutto dell’immaginazione dell’autrice

    e qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte,

    è puramente casuale.

    Titolo originale: Hex Hall

    © 2010 Rachel Hawkins

    Traduzione dall’inglese di Angela Ricci

    Titolo originale: Demonglass

    Copyright © 2011 by Rachel Hawkins

    Traduzione dall’inglese di Clara Serretta

    Titolo originale: Spellbound

    © 2012 Rachel Hawkins

    Traduzione dall’inglese di Angela Ricci e Clara Serretta

    Le citazioni nel testo sono tratte da Lewis Carroll,

    Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio,

    traduzione dall’inglese di Paola Faini,

    Newton Compton editori, Roma 2010.

    Titolo originale: School Spirits

    Copyright © 2013 by Rachel Hawkins

    Traduzione dall’inglese di Clara Serretta

    Published in agreement with the author c/o BAROR INTERNATIONAL INC.,

    Armonk, New Yor, U.S.A.

    All rights reserved.

    Prima edizione ebook: febbraio 2017

    © 2015, 2016, 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0330-9

    www.newtoncompton.com

    Rachel Hawkins

    Prodigium

    La serie completa

    Incantesimo

    Maleficio

    Sortilegio

    Magico

    Newton Compton editori

    Incantesimo

    Per mamma e papà

    Per John e Will

    Per tutto quanto…

    My mother says I must not pass

    Too near the glass;

    She is afraid that I will see

    A little witch that looks like me;

    With a red, red mouth to whisper low,

    The very thing I should not know!

    Mia madre dice di non passare

    troppo vicino allo specchio

    Ha paura che possa vedere

    Una streghetta che mi assomiglia

    Sussurrare con la sua bocca vermiglia

    Quel segreto che non devo sapere.

    Sarah Morgan Bryan Piatt

    Prologo

    Felicia Miller stava piangendo in bagno. Di nuovo.

    Sapevo che era lei, perché nei miei primi tre mesi alla Green Mountain High l’avevo già vista piangere in bagno altre due volte. I suoi singhiozzi erano inconfondibili, acuti e concitati come quelli di un bambino piccolo, anche se Felicia aveva diciott’anni, due più di me.

    Le altre volte l’avevo lasciata in pace. Immaginavo che piangere da sole di tanto in tanto fosse un diritto per tutte le ragazze.

    Ma quella era la notte del ballo e versare lacrime in abito da sera era davvero una cosa triste. E poi avevo un po’ un debole per Felicia. In tutte le scuole in cui ero stata (diciannove per il momento) c’era sempre una ragazza come lei. Io magari ero quella un po’ strana, ma di solito nessuno era cattivo con me: per lo più mi ignoravano. Felicia invece era lo zimbello della classe. Per lei la scuola era sempre stata un continuo susseguirsi di furti dei soldi per il pranzo e di commenti antipatici.

    Sbirciai da sotto la porta e vidi un paio di appariscenti sandali gialli. «Felicia?», chiamai, bussando lievemente sulla porta. «Che succede?».

    Lei aprì e mi fissò dall’alto in basso con gli occhi arrabbiati e iniettati di sangue. «Che succede? Be’, vediamo, Sophie. È la sera del ballo dell’ultimo anno, per caso vedi qualche accompagnatore qui insieme a me?»

    «Ehm… no. Ma sei nel bagno delle ragazze, perciò…».

    «Perciò cosa?», chiese mentre si alzava per asciugarsi il naso con un gigantesco mucchio di carta igienica. «Perciò il mio accompagnatore è fuori ad aspettarmi?». Sbuffò. «Ma per favore. Ho mentito ai miei genitori, ho detto che andavo insieme a qualcuno. E loro mi hanno comprato questo vestito». Schiaffeggiò il taffetà giallo come se stesse tentando di schiacciare un insetto. «Ho detto che avrei incontrato il mio accompagnatore qui, quindi mi hanno portata loro in macchina. È solo che… non potevo dirgli che non avevo ricevuto neanche un invito per il ballo dell’ultimo anno. Gli avrei spezzato il cuore». Alzò gli occhi al cielo. «Quanto sono patetica?».

    Mi fissò. «E tu, ce l’hai un accompagnatore?».

    Sì, ce l’avevo. Davvero, era Ryan Hellerman, forse l’unica persona meno popolare di me in tutta la Green Mountain High, ma comunque meglio di niente. E mia madre era andata su di giri alla notizia che qualcuno mi aveva invitata. Lo interpretava come un tentativo di integrazione da parte mia, finalmente.

    L’integrazione era una cosa molto importante per mia madre.

    Osservai Felicia, che se ne stava lì ad asciugarsi il naso con indosso il suo abito giallo, e prima di riuscire a trattenermi dissi una cosa davvero stupida: «Posso aiutarti».

    Felicia mi guardò con gli occhi gonfi di pianto. «E come?».

    Le tesi le braccia e la tirai in piedi. «Dobbiamo uscire».

    Riuscimmo finalmente a emergere dal bagno e poi ad attraversare la palestra affollata. Felicia pareva esausta mentre io la conducevo oltre le grandi porte doppie, fino al parcheggio.

    «Se è qualche scherzo del cavolo, sappi che ho lo spray al peperoncino nella borsa», disse stringendosi al petto la borsetta gialla.

    «Tranquilla». Mi guardai intorno per assicurarmi che il parcheggio fosse deserto.

    Era la fine di aprile, ma l’aria era ancora piuttosto fredda ed entrambe rabbrividimmo nei nostri abiti leggeri. «Okay», dissi voltandomi di nuovo verso di lei. «Se potessi scegliere il tuo accompagnatore per il ballo, chi sarebbe?»«Perché vuoi torturarmi?», chiese Felicia.

    «Rispondi e basta».

    Fissando le sue scarpe gialle, Felicia mormorò: «Kevin Bridges?».

    Non ne fui sorpresa. Presidente del comitato studentesco, capitano della squadra di football, figo da paura… Kevin Bridges era il ragazzo con cui tutte sognavano di andare al ballo.

    «Okay. E Kevin sia», borbottai, scrocchiando le nocche delle mani. Alzai le dita verso il cielo, chiusi gli occhi e visualizzai Felicia tra le braccia di Kevin. Lei con il suo vivace abito giallo, lui in smoking. Mi concentrai su quell’immagine e dopo pochi secondi cominciai a percepire un leggero tremolio sotto i piedi e una sensazione di acqua che fluiva dentro di me fino a raggiungere la punta delle dita. I miei capelli accennarono a sollevarsi in aria e sentii Felicia boccheggiare.

    Quando riaprii gli occhi, davanti a me vidi esattamente quello che mi aspettavo. Sopra di noi c’era un’enorme nuvola nera roteante, con scintille violacee che lampeggiavano al suo interno. Continuai a concentrarmi, e mentre lo facevo la nuvola prese a roteare sempre più veloce, finché non divenne un cerchio perfetto, con un foro al centro.

    La Ciambella Magica, come l’avevo soprannominata la prima volta che ne avevo creata una, il giorno del mio dodicesimo compleanno.

    Felicia si rannicchiò tra due macchine con le braccia intorno alla testa. Ma ormai non potevo più fermarmi.

    Il foro al centro della nuvola si riempì di una splendente luce verde. Concentrata su quella luce e sull’immagine di Kevin e Felicia, impressi alle dita una leggera flessione e osservai un lampo verde uscire dalla nuvola e innalzarsi verso il cielo. Sparì dietro un paio di alberi.

    Anche la nuvola scomparve, e Felicia si rialzò sulle gambe malferme. «Che… che cos’era?». Si voltò verso di me con gli occhi spalancati. «Sei una strega, o qualcosa del genere?».

    Scrollai le spalle: ero ancora piacevolmente elettrizzata dal potere che avevo appena scatenato. Ubriaca di magia, come diceva sempre la mamma. «Non era nulla», dissi. «Torniamo dentro».

    Ryan stava gironzolando intorno al tavolo del punch quando rientrammo.

    «Ma cosa è successo?», chiese indicando Felicia con un cenno del capo. Lei sembrava ancora stordita e se ne stava ferma, in punta di piedi, a scrutare la pista da ballo.

    «Oh, aveva solo bisogno di un po’ d’aria», dissi versandomi un bicchiere di punch. Il mio cuore batteva ancora forte e mi tremavano le mani.

    «Okay», disse Ryan, dondolando la testa a tempo con la musica. «Vuoi ballare?».

    Prima che potessi rispondere, Felicia si avvicinò e mi afferrò per un braccio. «Non è neanche qui, disse. «Quella… quella cosa che hai fatto non doveva farlo diventare il mio accompagnatore al ballo?»

    «Ssshhh! Sì, ma devi avere pazienza. Kevin verrà a cercarti appena arriverà, fidati».

    Non dovemmo aspettare a lungo.

    Ryan e io non eravamo neanche a metà del nostro primo ballo, quando nella palestra risuonò un enorme schianto.

    Poi seguirono alcuni colpi secchi in rapida successione, simili a spari, e i ragazzi cominciarono a urlare e a lanciarsi sotto i tavoli del rinfresco. Vidi la coppa del punch rovesciarsi a terra, schizzando liquido rosso da tutte le parti.

    Ma l’origine di quei suoni non era una pistola, erano palloncini. Centinaia di palloncini. Qualsiasi cosa avesse provocato lo schianto iniziale, aveva fatto crollare a terra l’enorme arco di palloncini. Ne scorsi uno bianco sfuggire al massacro e innalzarsi verso le travi del tetto.

    Guardai oltre e vidi diversi insegnanti correre alla porta.

    Che non c’era più.

    Perché una Land Rover argentata ci si era schiantata contro.

    Kevin Bridges uscì barcollando dalla portiera anteriore. Si era ferito la fronte e le mani, e sanguinava sul parquet di legno lucido mentre gridava: «Felicia! FELICIA!».

    «Santo cielo», mormorò Ryan.

    La ragazza di Kevin, Caroline Reed, scese di corsa dal lato del passeggero. Singhiozzava. «È impazzito», urlò. «Stava bene, poi c’è stata quella luce e… e…». Si lasciò prendere dall’isteria e io sentii una spiacevole stretta allo stomaco.

    «FELICIA!», continuava a urlare Kevin, cercandola freneticamente per tutta la palestra. Mi guardai intorno e la vidi che si nascondeva sotto uno dei tavoli, con gli occhi sbarrati.

    Stavolta ci ero anche stata attenta, pensai. Sono diventata più potente!.

    Kevin trovò Felicia e la trascinò fuori dal tavolo. «Felicia!». Aveva un ampio sorriso stampato sul viso illuminato di gioia, che combinato con il sangue e tutto il resto creava un effetto terrificante. Felicia iniziò a urlare. Come darle torto, del resto.

    Uno degli chaperon, il coach Henry, accorse in suo aiuto e afferrò il braccio di Kevin.

    Ma lui si voltò e, continuando a stringere Felicia con una mano, affibbiò un manrovescio al coach Henry con l’altra. Il coach era alto più di un metro e ottanta e pesava oltre novanta chili, ma volò letteralmente all’indietro.

    Fu allora che si scatenò l’inferno.

    Tutti quanti si scaraventarono verso le porte, mentre altri insegnanti si avvicinavano a Kevin e le urla di Felicia si facevano sempre più acute e disperate. Solo Ryan sembrava imperturbabile.

    «Fantastico!», commentò entusiasta guardando due ragazze arrampicarsi sulla Land Rover e precipitarsi fuori dalla palestra. «Sembra il ballo di Carrie – Lo sguardo di Satana!».

    Kevin stringeva ancora la mano di Felicia e adesso era in ginocchio. Non ne ero sicura per via del baccano, ma credo che le stesse cantando qualcosa.

    Felicia aveva smesso di strillare e stava frugando nella sua borsa.

    «Oh, no», mugolai. Cominciai a correre verso di loro, ma scivolai e finii a terra in mezzo al punch.

    Felicia tirò fuori una piccola bomboletta rossa e spruzzò il contenuto in faccia a Kevin.

    La canzone del ragazzo si trasformò in un grido di dolore. Kevin le lasciò la mano per artigliarsi gli occhi, e Felicia corse via.

    «Non fa niente, piccola!», le gridò dietro lui. «Non ho bisogno degli occhi per vederti! Ti vedo con gli occhi del cuore, Felicia. Il mio CUORE!».

    Splendido. Non solo il mio incantesimo era troppo potente. Era anche patetico.

    Rimasi seduta nella pozza di punch mentre il caos che avevo creato infuriava tutto intorno a me. Un solitario palloncino bianco passò ballonzolando vicino al mio gomito, seguito dalla mia insegnante di algebra, Mrs Davison, che correva gridando al cellulare: «Ho detto Green Mountain High! Un… Non lo so, un’ambulanza? Le forze speciali? Basta che mandiate qualcuno!».

    Poi sentii un urlo. «È stata lei! Sophie Mercer!».

    Felicia mi puntò il dito contro, mentre tremava dalla testa ai piedi.

    Nonostante il baccano, le sue parole riecheggiarono per tutta la palestra. «Lei… è una strega!».

    Sospirai. «Oh no, non di nuovo».

    Capitolo 1

    «Allora?».

    Uscii dalla macchina e mi ritrovai immersa nell’opprimente calura di August, Georgia.

    «Fantastico», mormorai facendo scivolare gli occhiali da sole sopra la fronte. Grazie a tutta quell’umidità il volume dei miei capelli si era praticamente triplicato. Riuscivo quasi a percepirli mentre cercavano di divorarmi gli occhiali da sole, come una specie di giungla di piante carnivore. «Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato vivere dentro la bocca di qualcuno».

    Di fronte a me si ergeva Hecate Hall. Secondo la brochure che stringevo tra le dita sudate, era «la migliore istituzione per adolescenti Prodigium».

    Prodigium. Un elaborato termine latino che voleva dire mostro. Ecco cos’erano quelli che andavano alla Hecate.

    Ecco cos’ero io.

    Avevo letto la brochure quattro volte sull’aereo dal Vermont alla Georgia, due volte sul traghetto che ci aveva portate a Graymalkin Island, al largo della costa della Georgia (la Hecate era stata fondata qui nel 1854, avevo appreso), e un’ultima volta mentre la nostra macchina presa a noleggio percorreva il viale che portava dalla spiaggia al parcheggio della scuola, scricchiolando sulle conchiglie e la ghiaia. Ormai avrei dovuto conoscerla a memoria, ma continuavo a tenerla in mano e a rileggerla ossessivamente, come se fosse la mia coperta di Linus: «Hecate Hall si prefigge di proteggere e istruire mutaforma, streghe e fate che hanno rischiato di rivelare le proprie abilità, mettendo così in pericolo l’intera società dei Prodigium».

    «Non vedo come aiutare una ragazza a trovare un accompagnatore per il ballo abbia messo in pericolo le altre streghe», dissi guardando di traverso mia mamma mentre prendevamo il baule con la mia roba. Quel pensiero mi infastidiva da quando avevo letto la brochure per la prima volta, ma non avevo ancora avuto occasione di parlarne. Mamma aveva passato la maggior parte del volo a far finta di dormire, probabilmente per evitare di vedere la mia espressione accigliata.

    «Non è solo per quella ragazza, Soph, e tu lo sai. È per il ragazzo del Delaware con il braccio rotto, e per l’insegnante in Arizona a cui hai tentato di far dimenticare un compito in classe…».

    «Alla fine ha riavuto indietro i suoi ricordi», dissi. «Be’, quasi tutti».

    La mamma sospirò e tirò fuori il baule malridotto che avevamo comprato dall’Esercito della Salvezza. «Tuo padre e io ti abbiamo sempre avvisata che usare i tuoi poteri avrebbe avuto delle conseguenze. Neanche a me piace questa faccenda, ma almeno qui starai con… con altri ragazzi come te».

    «Vuoi dire con altri disastri totali». Mi gettai la sacca in spalla. Mamma sollevò gli occhiali da sole e mi guardò. Aveva l’aria stanca e intorno alla sua bocca c’erano delle rughe profonde che non avevo mai visto prima. Aveva quasi quarant’anni, ma in genere tutti gliene davano circa dieci di meno.

    «Non sei un disastro, Sophie». Sollevammo insieme il baule. «Hai solo commesso qualche errore».

    Be’, non potevo negarlo. Essere una strega si era rivelato decisamente meno fantastico di quanto avessi sperato. Per prima cosa, non avevo mai volato su una scopa (l’avevo chiesto a mamma non appena mi ero accorta dei miei poteri, e lei mi aveva risposto che no, purtroppo avrei dovuto continuare a prendere l’autobus come tutti). In secondo luogo, niente libri di magia, né gatti parlanti (sono allergica) e infine, difficilmente avrei avuto a che fare con occhi di tritone o roba del genere.

    Ma potevo fare incantesimi. Ci riuscivo da quando avevo dodici anni, che secondo la brochure ormai umida di sudore era l’età in cui tutti i Prodigium acquistano i propri poteri. In qualche modo deve essere legato all’adolescenza, immagino.

    «Comunque è una buona scuola», disse la mamma mentre ci avvicinavamo all’edificio.

    Però non sembrava una scuola. Era una specie di incrocio tra il set di un vecchio film horror e la casa stregata di Disneyworld. Tanto per cominciare, quel posto aveva quasi duecento anni. L’edificio aveva tre piani, l’ultimo era appoggiato sui primi due come lo strato finale di una torta. Una volta i muri dovevano essere stati bianchi, ma adesso erano di un grigio sbiadito, più o meno lo stesso colore del vialetto di conchiglie e ghiaia, cosa che faceva assomigliare tutto il complesso non tanto a una casa, quanto a una specie di formazione rocciosa naturale dell’isola.

    «Ehi», disse la mamma. Posammo a terra il baule e lei girò l’angolo dell’edificio. «Da’ un po’ un’occhiata qui!».

    La seguii e immediatamente capii a cosa si riferiva. La brochure diceva che la Hecate nel corso degli anni aveva subìto «massici ampliamenti della struttura originaria». A quanto pareva, voleva dire che la parete di fondo dell’edificio era stata buttata giù, e che alla prima casa ne era stata appiccicata un’altra. Le mura grigiastre terminavano dopo una ventina di metri, lasciando il posto a uno stucco rosaceo che proseguiva fino al limitare della foresta.

    Per essere opera di un incantesimo – e lo era di sicuro: non c’era traccia di linee di giunzione dove i due edifici si incontravano, e nemmeno una striscia di calce – ci si sarebbe aspettati un risultato un po’ più elegante. Invece sembrava che le due case fossero state incollate insieme da un pazzo.

    Un pazzo dai gusti davvero pessimi.

    Nel cortile anteriore, enormi alberi di quercia, punteggiati di muschio spagnolo, facevano ombra all’edificio. In effetti parevano esserci piante dappertutto. Due felci dentro vasi polverosi incorniciavano il portone d’ingresso, simili a grossi ragni verdi, e una specie di rampicante dai fiori violetti aveva occupato un intero muro. Era come se la foresta alle spalle dell’edificio lo stesse lentamente inglobando.

    Lisciai l’orlo della mia gonna blu a quadri nuova di zecca, la divisa della Hecate Hall (forse era un kilt? O una specie di bizzarro incrocio tra una gonna e un kilt?), chiedendomi perché mai una scuola nel bel mezzo del profondo Sud avesse divise di lana. Mentre continuavo a fissare l’edificio, cacciai indietro un brivido. Mi pareva improbabile che qualcuno, guardando quel posto, non sospettasse che gli allievi dell’istituto fossero una banda di spostati.

    «È carina», disse la mamma con il suo miglior tono da allegri, e guardiamo al lato positivo.

    Ma io non ci trovavo niente di allegro.

    «Sì, bella. Per essere una prigione».

    La mamma scosse la testa. «Piantala con questa storia dell’adolescente insolente, Soph. Non è affatto una prigione».

    A me sembrava di sì.

    «Sul serio, è il posto migliore per te», disse mentre sollevavamo di nuovo il baule.

    «Immagino di sì», borbottai.

    L’espressione È per il tuo bene era diventata una specie di mantra per tutto quello che riguardava me e la Hecate. Due giorni dopo il ballo avevamo ricevuto una mail da mio padre, che in sostanza diceva che avevo passato il limite e che il Consiglio aveva decretato che dovessi restare alla Hecate fino al mio diciottesimo compleanno.

    Il Consiglio era un gruppo di tizi vecchissimi che dettavano le regole ai Prodigium.

    Lo so, un consiglio che si fa chiamare il Consiglio non è esattamente il massimo dell’originalità.

    Comunque, papà lavorava per loro, perciò lasciarono che fosse lui a comunicarmi la brutta notizia. Speriamo, diceva nella mail, che imparerai a usare i tuoi poteri con maggiore discrezione.

    Le mail e ogni tanto qualche telefonata erano praticamente gli unici contatti che avevo con mio padre. Lui e mamma si erano lasciati prima che io nascessi. A quanto pareva, lui aveva detto a mia madre di essere uno stregone (le streghe maschio preferiscono questo termine) solo dopo circa un anno che stavano insieme. Mamma non l’aveva presa bene. Lo aveva liquidato, pensando che fosse pazzo, ed era tornata dalla sua famiglia. Poi però si era accorta di essere incinta di me, e insieme ai libri sull’infanzia aveva comprato anche un’Enciclopedia della Stregoneria, nel caso si rivelasse utile. Quando nacqui, mamma ormai era diventata praticamente un’esperta di misteriosi rumori notturni. Ma fu solo quando acquistai i miei poteri, il giorno del mio dodicesimo compleanno, che con grande riluttanza riprese i contatti con mio padre. Ma era ancora piuttosto fredda nei suoi confronti.

    Per tutto il mese successivo alla notizia che sarei andata alla Hecate, tentai di venire a patti con quella realtà. Mi dissi che finalmente sarei stata insieme a persone come me, persone alle quali non avrei dovuto nascondere la mia vera natura. E magari avrei imparato qualche bell’incantesimo. Erano tutti dei grandi pro.

    Ma appena io e mamma salimmo a bordo del traghetto che ci avrebbe portato su quell’isola sperduta, sentii lo stomaco che si rivoltava. E credetemi, non era mal di mare.

    Secondo la brochure, Graymalkin Island era stata scelta per ospitare la Hecate a causa della sua posizione isolata, perfetta per custodire un segreto. La gente del posto pensava che là ci fosse una scuola superesclusiva.

    Quando il traghetto approdò su quello sputo di terra ricoperto di foresta che sarebbe stato la mia casa per i prossimi due anni, ero già piena di ripensamenti.

    Il prato brulicava di studenti, ma solo pochi tra loro avevano l’aria di essere nuovi, come me. Erano tutti impegnati a scaricare bauli e trasportare valigie. Alcuni avevano bagagli malridotti come il mio, ma intravidi anche un paio di borse Louis Vuitton. C’era una ragazza con i capelli scuri e il naso leggermente storto che pareva avere la mia età, gli altri ragazzi sembravano tutti più piccoli.

    Della maggior parte di loro non avrei saputo dire se fossero streghe e stregoni, oppure mutaforma. Avevamo tutti l’aspetto di persone normali, perciò non c’era modo di appurarlo.

    Gli esseri fatati, invece, erano facili da individuare.

    Erano più alti del normale e avevano un’aria molto distinta. I loro capelli erano lisci e splendenti, di tutte le possibili sfumature di colore, dal dorato pallido al viola acceso.

    E avevano le ali.

    Stando a quello che mi aveva detto la mamma, le fate in genere ricorrevano alle malìe per mescolarsi agli umani. Si trattava di incantesimi molto complicati, che alteravano la mente degli uomini in modo che vedessero le fate come persone normali, invece che come vivaci creature alate e multicolori. Immaginai che gli esseri fatati spediti alla Hecate si fossero sentiti in qualche modo sollevati. Doveva essere dura mantenere un incantesimo così pesante per tutto il tempo. Mi fermai un attimo per aggiustarmi la sacca in spalla.

    «Almeno qui sei al sicuro», disse mamma. «È già qualcosa, no? Tanto per cominciare, potrò smettere di preoccuparmi sempre per te».

    Sapevo che mia madre era angosciata all’idea che sarei stata così lontana da lei, ma era anche contenta che fossi in un posto in cui non rischiavo di essere scoperta. Aveva letto così tanti libri sui diversi modi in cui la gente aveva ucciso le streghe nel corso dei secoli, che era inevitabile che diventasse un po’ paranoica.

    Mentre ci avvicinavamo alla scuola, sentivo il sudore colare copioso da parti del mio corpo che ero sicura non avessero mai sudato prima. Era davvero possibile sudare dalle orecchie? La mamma, come al solito, sembrava essere immune all’umidità. Dev’esserci una specie di legge naturale per la quale è impossibile che mia madre non sembri sempre bellissima in qualsiasi circostanza. Anche se indossava solo dei semplici jeans e una maglietta, tutti si voltavano a guardarla.

    O forse stavano guardando me, impegnata ad asciugarmi con la maggiore discrezione possibile il sudore che mi colava tra i seni, tentando di non sembrare una che si stava molestando da sola. Difficile dirlo.

    Tutto intorno a me vedevo cose di cui avevo solo letto nei libri. Alla mia sinistra una fata dai capelli blu e dalle ali color indaco singhiozzava tenendosi stretta ai suoi genitori alati, che fluttuavano a diversi centimetri da terra. Mentre la guardavo, vidi le sue lacrime cristalline scendere non dai suoi occhi, ma dalle ali, così che i suoi piedi ondeggiavano sopra una pozza blu scuro.

    Adesso camminavamo all’ombra degli enormi e antichi alberi, e la temperatura si era abbassata forse di mezzo grado. Proprio mentre ci avvicinavamo alla scalinata principale, nell’aria risuonò un ululato disumano.

    Io e mamma ci voltammo e vedemmo un… una specie di cosa che ringhiava rivolta verso due adulti dall’espressione frustrata. Non sembravano spaventati, solo un po’ infastiditi.

    Un licantropo.

    Non importa quante cose tu abbia letto sui licantropi, vederne uno dal vivo, di fronte a te, è tutta un’altra storia. Tanto per cominciare, quello non sembrava affatto un lupo. Né una persona. Era più una specie di enorme cane selvaggio che se ne stava in piedi sulle zampe posteriori. Aveva una corta pelliccia marrone chiaro, e persino da quella distanza riuscivo a scorgere i suoi occhi gialli. Era più piccolo di quanto pensassi. In effetti, l’adulto a cui stava ringhiando era parecchio più alto di lui.

    «Smettila, Justin», sibilò l’uomo. La donna, i cui capelli, notai, erano dello stesso marrone chiaro della pelliccia del licantropo, gli posò una mano sul braccio.

    «Tesoro», disse con voce dolce e un vago accento del Sud, «ubbidisci a tuo padre. Non essere sciocco».

    Per un attimo il licantropo, cioè, Justin, si fermò e inclinò la testa di lato. In quella posa assomigliava più a un cocker spaniel che a una belva assetata di sangue.

    Ridacchiai a quel pensiero.

    E all’improvviso quegli occhi gialli si fissarono su di me.

    Il licantropo lanciò un altro ululato, e senza lasciarmi il tempo di pensare, caricò.

    Capitolo 2

    Sentii l’uomo e la donna lanciare grida di avvertimento, mentre frugavo freneticamente nel mio cervello in cerca di un incantesimo utile in caso di gola squarciata. Ero piuttosto certa che ne avrei avuto bisogno. Ma ovviamente l’unica cosa che riuscii a urlare al licantropo che si stava avventando su di me fu: «CAGNACCIO!».

    Poi, con la coda dell’occhio, percepii un lampo di luce azzurrina alla mia sinistra. All’improvviso il licantropo sembrò andare a sbattere contro un muro invisibile, a pochi centimetri da me. Si accasciò a terra con un latrato penoso. La pelliccia e la pelle cominciarono a incresparsi e a scivolare via, finché il mostro non tornò a essere un normalissimo ragazzo, con i pantaloni color cachi e una giacca blu, che singhiozzava in maniera patetica. I suoi genitori si precipitarono da lui nello stesso istante in cui anche mia mamma mi raggiungeva, trascinando il baule dietro di sé.

    «Oh, mio Dio!», sussurrò. «Tesoro, stai bene?»

    «Benissimo», risposi mentre ripulivo dall’erba il mio strano incrocio tra una gonna e un kilt.

    «Sai», disse una voce alla mia sinistra, «ho sempre pensato che contro un licantropo un incantesimo bloccante fosse più efficace che urlare Cagnaccio, ma è solo la mia opinione».

    Mi voltai. Appoggiato a un albero, con il colletto della camicia slacciato e la cravatta allentata, c’era un ragazzo che sogghignava. La giacca della Hecate penzolava appesa al suo braccio.

    «Tu sei una strega, giusto?», continuò. Si scostò dall’albero e si passò una mano tra i capelli neri e ricci. Mentre si avvicinava notai la sua corporatura snella, era quasi troppo magro a dir la verità, e diversi centimetri più alto di me. «Magari in futuro», disse, «potresti provare a non fare così schifo con la magia».

    Dopodiché si allontanò con noncuranza.

    Tra l’attacco di Justin Faccia-da-Mastino e quel tipo strano e nemmeno tanto figo come credeva di essere che mi diceva che facevo schifo con la magia, adesso ero decisamente incazzata.

    Controllai se mamma mi stesse guardando, ma stava chiedendo ai genitori di Justin qualcosa del tipo: «Cioè, quindi stava per azzannarla?!».

    «E così faccio schifo come strega, eh?», sussurrai concentrandomi sul ragazzo che si allontanava.

    Sollevai in alto le mani e pensai all’incantesimo più orrendo possibile, qualcosa che includesse pus, alito cattivo e gravi disfunzioni ai genitali.

    Ma non accadde nulla.

    Non sentii la solita sensazione di acqua che fluiva dalle mie dita, niente battito accelerato, niente capelli ritti in testa.

    Me ne stavo lì come un’idiota, con le dita puntate contro di lui.

    Che diavolo succedeva? Non avevo mai avuto problemi a lanciare incantesimi prima. Poi sentii una voce che sapeva di zucchero intinto nella melassa: «Basta così, cara».

    Mi voltai verso il portico, dove una signora con un abito blu scuro se ne stava in piedi accanto alle felci dall’aria inquietante. Sorrideva, ma era uno di quei sorrisi spaventosi da bambola assassina. Mi puntò addosso il suo dito adunco.

    «Non usiamo i nostri poteri sugli altri Prodigium, qui, neanche se ci hanno provocato», disse con voce dolce, un po’ roca, ma musicale. In effetti se quel posto avesse potuto parlare, avrebbe avuto esattamente quella voce.

    «Tuttavia, Archer, se posso aggiungere», continuò la donna, adesso rivolta al ragazzo dai capelli scuri, «lei è nuova qui alla Hecate, tu invece sai bene che non si aggrediscono gli altri studenti».

    Lui sbuffò: «Avrei dovuto lasciare che la divorasse?»

    «La magia non è la soluzione per tutto», rispose lei.

    «Archer?», chiesi inarcando le sopracciglia. Be’, non potevo usare i miei poteri magici, ma mi era rimasto il potere del sarcasmo. «Di cognome fai Newport, o Vanderbilt? Magari seguito da un numero? Ooh!», dissi spalancando gli occhi. «O forse sei addirittura un avvocato!».

    Speravo di umiliarlo, o almeno di farlo arrabbiare, ma lui continuò a sorridermi. «Veramente è Archer Cross, e sono il primo. E tu invece?». Mi lanciò una rapida occhiata. «Vediamo… capelli castani, lentiggini, atteggiamento da ragazza della porta accanto… Allie? Lacie? Di sicuro un bel nome grazioso che finisce in ie».

    Avete presente quando la tua bocca si muove, ma non produce alcun suono? Be’, è più o meno quello che successe a me. E ovviamente mia madre scelse proprio quel momento per concludere la sua conversazione con i genitori di Justin e gridarmi: «Sophie! Aspettami!».

    «Lo sapevo!», rise Archer. «Ci vediamo, Sophie», mi disse mentre si voltava e spariva dentro l’edificio.

    Spostai di nuovo l’attenzione sulla donna. Era sulla cinquantina e aveva i capelli cotonati e intrecciati in un complicatissimo chignon. Probabilmente aveva dovuto minacciarli per farli restare su. A giudicare dal suo atteggiamento regale e dal colore dell’abito che indossava, il blu scuro d’ordinanza di Hecate Hall, doveva essere la preside, Mrs Anastasia Casnoff. Non ebbi bisogno di controllare sulla brochure. Un nome come quello, Anastasia Casnoff, non te lo scordi.

    La signora bionda dal nome affascinante era effettivamente il capo supremo di Hecate Hall. Mia mamma le strinse la mano. «Grace Mercer. E lei è Sophie».

    «So-fiii», disse Mrs Casnoff con la sua strascicata cadenza del Sud, trasformando il mio nome, tutto sommato piuttosto semplice, in qualcosa che sembrava l’antipasto esotico di un ristorante cinese.

    «Di solito mi chiamano Soph», dissi subito, sperando di evitare di diventare per sempre So-fiii.

    «Dunque, voi non siete originarie di queste parti, vero?», proseguì Mrs Casnoff mentre ci incamminavamo verso la scuola.

    «No», rispose mamma, spostando la mia sacca da viaggio da una spalla all’altra. Il baule invece era tra me e lei. «Mia madre è del Tennessee, ma la Georgia è uno dei pochi stati in cui non abbiamo ancora vissuto. Ci trasferiamo piuttosto spesso».

    Piuttosto spesso era l’eufemismo del secolo.

    Avevo sedici anni e avevo vissuto già in diciannove stati. Quello in cui eravamo rimasti più a lungo era stato l’Indiana, quando ne avevo otto. Ci restammo quattro anni. Invece il soggiorno più breve era stato in Montana, tre anni prima. Due settimane.

    «Capisco», disse Mrs Casnoff. «E lei che lavoro fa, signora Mercer?»

    «Signorina», precisò mamma automaticamente, e a voce un po’ troppo alta. Si morse il labbro inferiore e spostò un’immaginaria ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sono un’insegnante. Scienze religiose. Soprattutto mitologia e folclore».

    Le seguii mentre salivamo l’imponente scalinata principale, e finalmente facemmo il nostro ingresso a Hecate Hall.

    Faceva un bel fresco, probabilmente avevano lanciato un incantesimo per l’aria condizionata. L’odore era quello tipico delle case antiche, una strana combinazione di lucido per mobili, legno vecchio e carta ammuffita, lo stesso che si sentiva nelle biblioteche.

    Mi chiesi se il punto in cui le due case erano state unite sarebbe saltato all’occhio anche all’interno, ma le pareti erano interamente coperte da un’orrenda carta da parati bordeaux, che impediva di vedere dove il legno lasciava il posto allo stucco.

    Appena passato il portone si apriva l’enorme atrio, dominato da una scala a chiocciola che saliva per tre piani, senza nulla a sostenerla, a quanto sembrava. Dietro la scalinata c’era una vetrata che partiva dal secondo piano e arrivava fino al soffitto. Il sole del tardo pomeriggio vi passava attraverso, riempiendo l’atrio di disegni geometrici vivaci e multicolori.

    «Notevole, vero?», disse sorridendo Mrs Casnoff. «Rappresenta l’origine dei Prodigium».

    Sulla vetrata si stagliava l’immagine di un angelo dalla faccia arrabbiata, in piedi sulla soglia di un portone con due battenti dorati. In una mano brandiva una spada nera. Con l’altra invece stava chiaramente indicando alle tre figure di fronte alla porta di levarsi dai piedi. Ovviamente tutto in maniera molto angelica. Anche quei tre erano angeli. Avevano un’aria parecchio depressa. L’angelo sulla destra, una donna dai lunghi capelli rossi, si teneva il viso tra le mani. Intorno al collo portava una grossa catena d’oro, e a un certo punto realizzai che era fatta di piccole figurine che si tenevano per mano. L’angelo sulla sinistra aveva in testa una corona di foglie e guardava indietro da sopra una spalla. Invece l’angelo più alto, al centro, aveva lo sguardo fisso davanti a sé, con la testa alta e il petto in fuori.

    «È… interessante», dissi infine.

    «Conosci la storia, Sophie?», mi chiese Mrs Casnoff.

    Quando scossi la testa, sorrise e indicò il temibile angelo tra i battenti dorati. «Alla fine della grande guerra tra Dio e Lucifero, gli angeli che si erano rifiutati di schierarsi furono cacciati dal paradiso». Indicò l’angelo più alto al centro. «Alcuni di loro decisero di nascondersi sotto le colline e nel profondo delle foreste. Divennero le fate. Un altro gruppo scelse di vivere insieme agli animali, dando origine ai mutaforma. I restanti infine preferirono mescolarsi agli umani, e così nacquero le streghe».

    «Oddio», sentii esclamare mia madre. Mi voltai verso di lei sorridendo.

    «Tanti auguri per quando dovrai spiegare a Dio che anni fa hai sculacciato una delle sue creature angeliche».

    La mamma fece una risatina allarmata. «Sophie!».

    «Be’, l’hai fatto. Che dire, mamma, spero che il caldo ti piaccia».

    Mia madre rise di nuovo, anche se mi accorsi che tentava di trattenersi.

    Mrs Casnoff si accigliò, poi si schiarì la gola e proseguì il tour. «Gli studenti della Hecate hanno dai dodici ai diciassette anni. Chi viene mandato qui per decreto non può lasciare la scuola prima del suo diciottesimo compleanno».

    «Quindi alcuni ragazzi magari restano solo sei mesi, invece altri anche sei anni?», chiesi.

    «Esattamente. Quasi tutti i nostri studenti vengono mandati qui non appena acquisiscono i loro poteri. Ma c’è sempre qualche eccezione, come te, per esempio».

    «Fortunata me», borbottai.

    «Come sono organizzati i corsi?», chiese la mamma lanciandomi un’occhiataccia.

    «I corsi della Hecate seguono il modello della Prentiss, della Mayfair e della Gervaudan».

    Sia io che mamma annuimmo come se conoscessimo il significato di quelle parole. Immagino che non dovessimo essere troppo convincenti, perché Mrs Casnoff aggiunse: «Sono le migliori scuole rispettivamente per streghe, fate e mutaforma. I corsi vengono assegnati in base sia all’età dello studente, sia alle sue specifiche difficoltà nell’integrarsi nel mondo degli umani».

    Sorrise nervosamente. «È richiesto un impegno notevole, ma Sophie non avrà problemi, ne sono sicura».

    Non avevo mai sentito un incoraggiamento che suonasse così tanto come una minaccia.

    «I dormitori delle ragazze sono al terzo piano», disse Mrs Casnoff indicando le scale. «Quelli dei ragazzi al secondo. Le lezioni si tengono al primo piano e negli edifici esterni». Indicò i corridoi lunghi e stretti che si dipartivano dall’atrio a sinistra e a destra delle scale. Tutto quell’indicare, combinato con il suo abito blu scuro, la facevano somigliare a un’assistente di volo. Quasi mi aspettavo che mi dicesse che, in caso di emergenza, la mia nuova giacca blu della Hecate si sarebbe trasformata in un giubbotto salvagente.

    «E quindi gli studenti sono divisi per… ehm…». Mia mamma fece un gesto vago con la mano.

    Mrs Casnoff sorrise, e io non potei fare a meno di notare che il suo sorriso era tirato quanto il suo chignon.

    «A seconda delle loro abilità, intende? No, certo che no. Uno dei princìpi su cui si fonda la Hecate è quello di insegnare agli studenti a convivere con tutte le specie di Prodigium».

    Mrs Casnoff si voltò e ci condusse all’altro capo dell’atrio. Qui tre enormi finestre si innalzavano fino a raggiungere il terzo piano. Dietro di esse c’era il cortile, dove i ragazzi stavano già cominciando a riunirsi a gruppetti sulle panchine di pietra o sotto gli alberi di quercia. I ragazzi. In realtà, immagino che fossero tutti delle cose come me, ma non c’era modo di capirlo. Sembravano un gruppo di studenti qualunque. A eccezione delle fate, ovviamente.

    Vidi una ragazza che rideva mentre porgeva il lucidalabbra a un’amica e sentii una stretta al petto.

    Poi percepii qualcosa di freddo che mi sfiorava il braccio e feci un salto indietro, spaventata, mentre una donna pallida, vestita di blu, mi oltrepassava fluttuando.

    «Ah, sì», disse Mrs Casnoff con un leggero sorriso. «Isabelle Fortenay, uno degli spiriti che abitano qui. Come avrai di sicuro letto, la Hecate ospita un gran numero di spiriti, sono tutti quanti fantasmi di Prodigium defunti. Sono innocui, totalmente incorporei. Quindi non possono toccarti, né farti nulla. Al massimo possono farti prendere qualche spavento ogni tanto, ma niente di più».

    «Fantastico», dissi mentre osservavo Isabelle svanire dentro una parete rivestita di pannelli.

    Contemporaneamente percepii un movimento con la coda dell’occhio e mi voltai. Ai piedi della scala c’era un altro spirito. Era una ragazza all’incirca della mia età, che indossava un vivace cardigan verde sopra un abito corto a fiori. Al contrario di Isabelle, che non pareva essersi accorta di me, la ragazza mi fissava. Aprii la bocca per chiedere a Mrs Casnoff chi fosse, ma la preside era concentrata su una figura che stava attraversando l’atrio.

    «Signorina Talbot!», la chiamò. Era stupefacente come la sua voce riuscisse a raggiungere l’altro capo di quell’enorme sala senza dare minimamente l’impressione di un urlo sguaiato.

    Una ragazza minuta, alta appena un metro e mezzo, si affiancò a Mrs Casnoff. Aveva la pelle candida quasi come neve, e anche i capelli, fatta eccezione per una striscia rosa acceso che le correva lungo la frangetta. Portava degli occhiali con una massiccia montatura nera, e sorrideva, anche se si vedeva a un chilometro di distanza che lo faceva solo per compiacere Mrs Casnoff.

    «Lei è Jennifer Talbot, mi pare che tu sia in camera con lei questo semestre, signorina Mercer. Jennifer, questa è So-fiii».

    «Va bene Soph», rimediai, mentre Jennifer si presentava a sua volta: «Jenna».

    Il sorriso di Mrs Casnoff si irrigidì, come se qualcuno avesse girato delle viti a entrambi gli angoli della sua bocca. «Splendido. Davvero non capisco cosa passi per la mente dei ragazzi al giorno d’oggi, signora Mercer. Hanno bellissimi nomi e si ostinano a mutilarli e a storpiarli alla prima occasione. Ma comunque, signorina Mercer, la signorina Talbot è relativamente nuova, come te. È qui solo dall’anno scorso».

    La mamma sorrise raggiante e strinse la mano di Jenna. «Felice di conoscerti. Ehm… anche tu sei una strega, come Sophie?»

    «Mamma», sibilai, ma Jenna strinse la mano di mia madre e scosse la testa. «No, signora. Sono un vampiro».

    Percepii mia madre irrigidirsi accanto a me, e sapevo che se n’era accorta anche Jenna. Ero un po’ in imbarazzo, ma condividevo i timori di mia mamma. Streghe, mutaforma e fate erano una cosa. I vampiri invece erano mostri, punto e basta. Quella storia dei leggiadri figli della notte era una gran cavolata.

    «Oh, okay», disse mamma, tentando di riprendersi. «Io… be’, non sapevo che anche i vampiri frequentassero la Hecate».

    «È un nuovo programma», disse Mrs Casnoff allungando una mano per scompigliare i capelli di Jenna. Lei mantenne un’espressione cortese, anche se un po’ vacua, ma notai la sua tensione. «Ogni anno», continuò Mrs Casnoff, «la Hecate accoglie un giovane vampiro e offre a lui o a lei l’opportunità di studiare insieme ai Prodigium, nella speranza che prima o poi sia possibile redimere queste sfortunate creature». Lanciai un’occhiata a Jenna. Perché… sfortunate? Ehi!

    «Purtroppo la signorina Talbot al momento è la nostra unica studentessa-vampiro. Ma c’è un vampiro nel corpo insegnanti», concluse Mrs Casnoff. Jenna sorrise. Di nuovo quello strano sorriso finto. Restammo tutte in silenzio, imbarazzate, finché mia mamma disse: «Tesoro, perché non chiedi a…». Fissò interdetta la mia nuova compagna di stanza.

    «Jenna».

    «Giusto, giusto. Perché non chiedi a Jenna di farti vedere la vostra camera? Io ho ancora un paio di cose da chiedere a Mrs Casnoff, poi salgo a salutarti, d’accordo?».

    Guardai Jenna, che stava ancora sorridendo, ma il suo sguardo sembrava quasi attraversarci.

    Mi rimisi in spalla la sacca e feci per prendere il mio baule, ma Jenna mi anticipò.

    «Non c’è bisogno, davvero…», cominciai a dire, ma lei agitò la mano libera.

    «Non c’è problema. L’unico vantaggio di essere un mostro succhiasangue è la forza fisica soprannaturale».

    Non sapevo cosa rispondere, perciò mi limitai a commentare con un: «Oh!». Jenna prese il baule da un lato e io dall’altro.

    «Immagino che non ci sia un ascensore, vero?». In realtà un po’ ci speravo.

    Jenna sbuffò. «Naaa, sarebbe stato troppo facile».

    «Ma non c’è una specie di, che ne so, un incantesimo sposta bagagli, o qualcosa del genere?»

    «Mrs Casnoff è molto rigida sul fatto di non usare la magia per alimentare la propria pigrizia. A quanto pare trascinare valigie pesanti su per le scale è una cosa che tempra il carattere».

    «Giusto», dissi mentre ci affannavamo sul pianerottolo della seconda rampa di scale.

    «Be’, che ne pensi di lei?», chiese Jenna.

    «Di Mrs Casnoff?»

    «Sì».

    «I capelli sono notevoli». Il sorrisetto di Jenna mi fece capire di aver detto la cosa giusta.

    «Vero? Lo giuro su Dio, quell’acconciatura è qualcosa di epico».

    C’era solo una lieve traccia della cadenza del Sud nella sua voce. Era simpatica.

    «Parlando di acconciature», azzardai, «come te la cavi con quella striscia colorata?».

    Jenna accarezzò la striscia rosa con la mano libera. «Oh, a nessuno importa poi molto della povera vampira con la borsa di studio. Immagino che, finché evito di mordere qualcuno, io sia libera di scegliere il colore di capelli che preferisco».

    Quando raggiungemmo il terzo piano, Jenna prese a squadrarmi. «Posso tingere anche i tuoi, se ti va. Però non rosa. Quello è il mio colore. Rossi, magari?»

    «Uhm… forse».

    Ci fermammo davanti alla stanza numero 312. Jenna posò a terra l’estremità del baule e tirò fuori le chiavi. Il portachiavi era di un giallo acceso, con il suo nome scritto in lettere rosa brillanti.

    «Eccoci qui!», disse. Girò la chiave e spalancò la porta. «Benvenuta ai confini della realtà!».

    Capitolo 3

    E se non lo sapevi, i confini della realtà sono rosa, avrebbe anche potuto aggiungere.

    Non saprei dire come mi aspettavo che fosse la stanza di un vampiro. Probabilmente molto scura, con una pila di libri di Camus… Oh, e con un intenso ritratto dell’unico umano che avesse mai amato e che era sicuramente morto in qualche maniera bellissima e tragica, condannando il vampiro a un’eternità di depressione e di romantici sospiri.

    Che posso dire? Leggo un sacco di libri.

    Quella stanza invece sembrava arredata dalla figlia segreta di Barbie e Fragolina Dolcecuore. Era più grande di quanto mi aspettassi, ma comunque abbastanza angusta. C’era spazio sufficiente per due letti gemelli, due scrivanie, due armadi e un malconcio futon. Le tende erano di tela beige, ma Jenna aveva appeso al bastone uno scialle rosa acceso. Tra le due scrivanie c’era uno di quei paraventi cinesi, ma anche qui Jenna aveva lasciato il suo marchio dipingendo il legno, pensate un po’, di rosa. La parte superiore del paravento era decorata con lucine di Natale rosa. Il letto di Jenna era rivestito da un affare rosa scuro che assomigliava alla pelliccia di uno dei Muppet. Jenna si accorse che la fissavo. «È fantastica, vero?»

    «Io… non avevo mai visto quella particolare sfumatura di rosa».

    Jenna si sfilò i mocassini e si lanciò sul letto, facendo volare via un paio di cuscini ricoperti di paillettes e un leone di pezza. «Si chiama lampone elettrico».

    «È un nome perfetto». Sorrisi mentre trascinavo il baule vicino al mio letto, che era sobrio tanto quanto… be’, tanto quanto me paragonata a Jenna.

    «Anche alla tua vecchia compagna di stanza piaceva il rosa?».

    Per una frazione di secondo il volto di Jenna si irrigidì. Poi quella strana espressione svanì e lei si chinò oltre il bordo del letto per raccogliere i cuscini e il leone. «Naaa, Holly usava la roba blu che ti danno qui se non ti porti la tua. Tu hai portato le tue cose, vero?».

    Aprii il baule e tirai fuori un angolo del mio copriletto verde. Jenna mi lanciò uno sguardo un po’ deluso, poi sospirò: «Be’, è comunque meglio del blu d’ordinanza. Allora…». Si lasciò cadere di nuovo sul letto e prese a frugare nel suo comodino. «Cosa ti porta qui alla Hex Hall, Sophie Mercer?».

    «Hex Hall?», ripetei.

    «Hecate è troppo lungo», spiegò Jenna. «Quasi tutti lo abbreviano in Hex. E poi, suona bene»¹.

    «Oh».

    «Allora, che cosa hai combinato?», chiese di nuovo. «Una pioggia di rane? Hai trasformato un ragazzo in un tritone?».

    Mi stesi sul letto e tentai di imitare la posa noncurante di Jenna, ma presto realizzai che era piuttosto difficile farlo su un semplice materasso, perciò mi rialzai e cominciai a svuotare il mio baule. «Ho fatto un incantesimo d’amore per aiutare una ragazza a scuola. È andato male».

    «Non ha funzionato?»

    «Ha funzionato troppo». Le raccontai la versione ridotta dell’episodio di Kevin e Felicia.

    «Accidenti», disse scuotendo la testa. «Roba forte».

    «Così pare», dissi. «Perciò tu… be’, sei un vampiro. E come è successo?».

    Rispose con un tono tranquillo, ma senza incrociare il mio sguardo. «Come succede a tutti: incontri un vampiro, quello ti morde. Niente di particolarmente interessante».

    Non la biasimai se non aveva voglia di condividere quella storia con qualcuno che conosceva da meno di un quarto d’ora.

    «Tua mamma è normale, vero?», mi chiese.

    Mmm. Non era esattamente il genere di conversazione che volevo fare il primo giorno, ma questa era la famosa integrazione, giusto? Condividere con la tua compagna di stanza trucchi, vestiti e oscuri segreti.

    Mi schiarii la gola. «Sì, mio padre è uno stregone, ma non stanno più insieme, né niente, adesso».

    «Oh», disse Jenna con aria comprensiva. «Ho capito. Un sacco di ragazzi qui ha i genitori separati. Persino la magia non garantisce un matrimonio felice, a quanto pare».

    «I tuoi sono divorziati?».

    Finalmente Jenna trovò lo smalto che stava cercando. «No, sono ancora disgustosamente felici. O almeno… credo che lo siano. Non li ho più visti da quando, be’, da quando sono cambiata, insomma».

    «Oh, be’», risposi. «Che schifo».

    Finii di fare il letto. «Quindi, visto che sei un vampiro, devo stare attenta a non aprire le tende la mattina».

    «No, no. Lo vedi questo?». Tirò su la catenina d’argento che portava al collo, alla quale era appeso un piccolo pendente. Era più o meno delle dimensioni di una caramella, ed era color rosso scuro. Chiunque altro avrebbe potuto prenderlo per un rubino, ma io avevo visto disegni di pietre simili in uno dei libri di mamma.

    «Una pietra di sangue?». Le pietre di sangue erano gemme cave e trasparenti, che potevano essere riempite con il sangue di qualche strega o stregone molto potente. In quel modo la pietra ti proteggeva da un sacco di cose come, nel caso di Jenna, da quelle che danneggiavano i vampiri, il che era un sollievo. Almeno adesso ero sicura di poter mangiare aglio davanti a lei.

    Jenna cominciò a mettersi lo smalto sulla mano sinistra. «E come fai con il sangue?», chiesi.

    Lei emise un profondo sospiro. «È una cosa imbarazzante. Devo andare in infermeria. Lì hanno un minifrigo con delle sacche di sangue, tipo la Croce rossa, o roba del genere».

    Mi trattenni dal rabbrividire immaginando quella scena. Il sangue mi fa impressione. Se mi taglio con la carta vado in iperventilazione. Fui molto felice di sapere che Jenna non avrebbe fatto spuntini in camera. Non potrei mai avere un ragazzo vampiro. Solo il pensiero del suo alito all’odore di sangue… bleah.

    Notai che Jenna mi stava fissando. Cavolo. Il disgusto mi si leggeva in faccia? Nel dubbio abbozzai un sorriso finto e dissi: «Fantastico. Come i succhi di frutta con la cannuccia. Solo al sangue».

    Jenna scoppiò a ridere. «Carina questa».

    Restammo sedute in amichevole silenzio per qualche istante, poi Jenna mi chiese: «La separazione dei tuoi è stata brutta?»

    «Pare di sì», risposi. «Ma è accaduto tutto prima che io nascessi».

    Lei alzò lo sguardo dalle sue unghie. «Accidenti».

    Andai alla scrivania. Qualcuno, immagino Mrs Casnoff, aveva lasciato lì il mio orario. Aveva l’aspetto di un orario normale, ma c’erano scritte cose come: Lun-Ven, 9:15-10:00, Evoluzione della magia, Aula gialla.

    «Già. Mamma non ne parla molto, ma qualsiasi cosa sia successa, deve essere stata abbastanza brutta, perché lei gli ha imposto il divieto di vedermi».

    «Quindi non hai mai visto tuo padre?»

    «Ho una sua foto. E ci ho parlato al telefono. E per e-mail».

    «Cavolo, chissà cos’ha fatto. L’ha picchiata, forse, o roba così?»

    «Non lo so!», esclamai, con più violenza di quanta intendessi.

    «Scusa», mormorò lei.

    Mi voltai verso il mio letto e presi a sistemare la trapunta. Dopo aver lisciato almeno cinque grinze immaginarie (nel frattempo Jenna si era messa tre volte lo smalto sulla stessa unghia), mi girai di nuovo e dissi: «Non volevo risponderti male…».

    «Non fa niente. Non erano affari miei».

    Il confortevole clima di cameratismo era sparito del tutto.

    «È solo che… ho sempre vissuto solo con mia mamma, non sono abituata a tutta questa faccenda del raccontare di me. Siamo sempre state molto riservate l’una con l’altra».

    Jenna annuì, ma continuava a non guardarmi.

    «Immagino che con la tua vecchia compagna di stanza vi confidaste sempre tutto, vero?».

    Sul suo viso riapparve quello sguardo cupo. Tappò bruscamente la boccetta di smalto. «No», disse a bassa voce. «Non tutto».

    Ripose la boccetta nel cassetto e saltò giù dal letto. «Ci vediamo a cena».

    Mentre usciva ci mancò poco che andasse a sbattere contro mia madre, e se ne andò mormorando delle scuse.

    «Soph», disse mamma sedendosi sul mio letto. «Non dirmi che hai già litigato con la tua compagna di stanza».

    Era fastidiosamente brava a leggermi in faccia le cose. «Non lo so. Mi sa che faccio schifo in queste cose da ragazze. Cioè, l’ultima amica che ho avuto è stata in prima media. Non è così facile trovare una migliore amica, se in qualsiasi posto ti fermi al massimo sei mesi, e… Oh, mamma non volevo ferirti».

    Lei scosse la testa e si asciugò le lacrime. «No, no, tesoro, è tutto a posto. È solo… è solo che avrei voluto darti un’infanzia normale».

    Mi sedetti accanto a lei e l’abbracciai. «Non dire così. Ho avuto un’infanzia fantastica. Insomma, quanta gente può dire di aver vissuto in diciannove stati? E pensa a tutte le cose che ho visto».

    Non era la cosa giusta da dire. Mamma sembrava ancora più triste.

    «E questo posto è stupendo! Ho una stanza fichissima, rosa estremo direi, e Jenna e io abbiamo già legato a sufficienza per litigare, che è una cosa molto importante nelle amicizie tra ragazze, giusto?».

    Missione compiuta. Mamma stava sorridendo. «Sei sicura, tesoro? Non sei costretta a restare, se non ti piace. Sono certa che possiamo evitarlo, in qualche modo».

    Per un attimo pensai di rispondere: Sì, ti prego, prendiamo il prossimo traghetto e andiamocene via da questa specie di circo ambulante.

    Invece dissi: «Ehi, non è mica per sempre, no? Solo due anni. E poi ci sono le vacanze estive, e quelle di Natale. Come in una scuola normale. Starò benone. Ora vai, prima che mi metta a piangere, o farò la figura della sfigata».

    Gli occhi di mamma si riempirono di nuovo di lacrime mentre mi stringeva in un fortissimo abbraccio. «Ti voglio bene, Soph».

    «Anch’io», dissi con la gola serrata.

    Poi, dopo avermi fatto giurare di telefonarle almeno tre volte a settimana, la mamma se ne andò.

    E io mi sdraiai sul mio letto che non era rosa e piansi come una sfigata.

    ¹ Hex in inglese vuol dire malocchio, stregoneria. (n.d.t.)

    Capitolo 4

    Quando mi fui sfogata, mancava ancora un’ora alla cena. Decisi di impiegarla facendo qualche esplorazione. Aprii le due piccole porte dentro la nostra stanza, sperando invano che conducessero a bagni privati, e invece no. Erano armadi a muro.

    L’unico bagno in tutto il piano era all’estremità opposta del corridoio e aveva un aspetto sinistro come il resto dell’edificio. La sola fonte di illuminazione erano alcune lampadine a basso consumo appese intorno al grande specchio che sovrastava la fila di lavandini. I cubicoli doccia in fondo alla stanza erano immersi nell’oscurità. Avvicinandomi alle docce per guardare meglio, mi resi conto di aver sempre usato a sproposito l’aggettivo umido.

    Sapevo che avrei dovuto mettere in valigia un paio di infradito.

    Oltre alla sagra della muffa in corso nelle docce, lungo la parete erano allineate anche alcune vasche da bagno con le zampe di leone, separate l’una dall’altra da divisori che arrivavano all’altezza della vita. Mi chiesi a chi mai sarebbe venuto in mente di fare un bagno di fronte a una folla di gente.

    Rischiando di contrarre un’infinità di malattie trasmissibili per contatto, mi avvicinai a uno dei lavandini e mi spruzzai dell’acqua in viso. Quando mi guardai allo specchio mi resi conto che non era servito a molto. La mia faccia era ancora paonazza per il pianto di prima, e la splendida conseguenza era che le mie lentiggini spiccavano ancora di più.

    Scossi la testa, come se questo potesse migliorare l’immagine che avevo di fronte. Non fu così. Perciò sospirai e mi preparai a ispezionare il resto di Hecate Hall.

    Sul mio piano non stava accadendo nulla di particolare, soltanto il tipico caos che si genera quando si radunano nello stesso posto una cinquantina di ragazze. Al terzo piano c’erano quattro corridoi, due a sinistra e due a destra delle scale. Il pianerottolo era enorme, quindi era stato trasformato in una sala comune. C’erano due divani e diverse sedie, ma erano tutti pezzi d’arredamento scompagnati e logori. I posti a sedere erano tutti occupati, perciò rimasi a gironzolare nei pressi delle scale.

    La fata che avevo visto prima, quella con le lacrime blu, a quanto pareva si era ripresa. Se ne stava semisdraiata su un divano color verde pallido e ridacchiava insieme a un’altra creatura fatata dalle ali verde chiaro che sbattevano leggiadre sullo schienale del divano. Avevo sempre immaginato che le ali delle fate fossero come quelle delle farfalle, invece erano più sottili e traslucide. Si vedevano le vene all’interno.

    Quelle due erano le uniche fate nella sala. L’altro divano era occupato da un gruppo di ragazze sui dodici anni. Bisbigliavano nervosamente tra loro e io mi chiesi se fossero streghe o mutaforma.

    La ragazza dai capelli scuri che avevo visto sul prato era seduta su una poltrona dalle finiture in avorio, e scorreva pigramente i canali del microscopico televisore sistemato in cima a una piccola libreria.

    «Puoi abbassare, per favore?», disse la fata dalle ali verdi, voltandosi per squadrare la ragazza sulla poltrona. «Qui qualcuno sta tentando di chiacchierare, ragazza-cane».

    Nessuna delle dodicenni ebbe la minima reazione a quelle parole, perciò immaginai che fossero tutte streghe. Un mutaforma si sarebbe sicuramente mostrato offeso.

    La fata blu scoppiò a ridere mentre la ragazza dai capelli scuri si alzava e spegneva la televisione. «Mi chiamo Taylor», disse lanciando il telecomando alla fata verde. «Taylor. E mi trasformo in un puma, non in un cane. Visto che dovremo condividere la stanza nei prossimi anni, magari può esserti utile ricordarlo, Nausicaa».

    Nausicaa alzò gli occhi al cielo e sbatté lievemente le ali verdi. «Oh, non resteremo insieme ancora a lungo, te l’assicuro. Mio zio è il re di Seelie Court, il regno delle fate buone, e appena gli dirò che sono in stanza con una mutaforma… be’, diciamo che presto ci sarà qualche cambio di alloggio».

    «Già, certo. A quanto pare però tuo zio non è riuscito a evitare di farti finire qui», replicò Taylor. Il volto di Nausicaa rimase inespressivo, ma le sue ali presero a sbattere più forte.

    «Non ho intenzione di condividere la stanza con una mutaforma», disse a Taylor. «E di certo non intendo avere nulla a che fare con la tua lettiera per gatti».

    La fata blu rise di nuovo e Taylor si fece rossa in viso. Anche a diversi metri di distanza riuscii a vedere i suoi occhi cambiare colore dal marrone al dorato. Poi disse, ansimando: «Sta’ zitta! Perché non vai ad abbracciare qualche albero o roba del genere? Stupida fata!».

    Si mangiò le parole come se avesse la bocca piena di sassolini. Poi realizzai che in effetti aveva la bocca piena, ma di zanne.

    Nausicaa ebbe il buon senso di mostrarsi un po’ spaventata. Si voltò verso la fata blu e disse: «Andiamo, Siobhan. Prima che la bestia perda il controllo».

    Le due si alzarono. Mi scivolarono davanti e scesero giù per le scale.

    Tornai a guardare Taylor, che respirava ancora affannosamente, con gli occhi chiusi. Poi fu scossa da un brivido e quando riaprì le palpebre le sue iridi erano tornate marroni. Alzò lo sguardo e mi notò.

    «Fate», disse con una risatina nervosa.

    «Già», replicai. Come se ne avessi viste chissà quante prima d’ora.

    «Primo giorno anche per te?», chiese.

    Quando annuii, lei aggiunse: «Sono Taylor. Mutaforma, ovviamente».

    «Sophie. Strega».

    «Fico». Si mise in ginocchio sul divano lasciato vuoto dalle fate, incrociò le braccia sullo schienale e mi fissò con i suoi occhi scuri.

    «Be’, che hai combinato per finire qui?».

    Mi guardai intorno. Nessuno faceva caso a noi, ma parlai comunque a bassa voce. «Incantesimo d’amore andato male».

    Taylor annuì. «Un sacco di streghe sono qui per roba del genere».

    «E tu?», azzardai.

    Si scostò i capelli dagli occhi e rispose: «Più o meno quello che hai visto. Ho perso la pazienza con delle ragazze, e durante le prove della banda scolastica ho lasciato uscire fuori il puma. Ma non è nulla a confronto con quello che hanno fatto altri di noi». Si protese in avanti e la sua voce si ridusse a un bisbiglio. «Hai presente Beth? Il licantropo? Gira voce che abbia divorato una ragazza». Sospirò, volgendo lo sguardo verso le scale alle mie spalle. «Comunque preferirei avere lei come compagna di stanza invece di una fata con la puzza sotto il naso».

    Tornò a guardarmi. «Tu con che cosa sei in stanza?».

    Non mi piacque il modo in cui disse che cosa, perciò risposi in tono un po’ brusco: «Jenna Talbot».

    Taylor spalancò gli occhi. «Cavolo. Il vampiro?». Poi sghignazzò. «Dimentica quello che ho detto. Meglio una fata stronza».

    «Lei non è così male», replicai istintivamente.

    Taylor scrollò le spalle e recuperò il telecomando che aveva lanciato a Nausicaa. «Se lo dici tu», mormorò, riaccendendo il televisore.

    A quanto pareva la nostra chiacchierata era finita, perciò mi diressi verso il secondo piano. Era territorio dei ragazzi, quindi non potevo esplorare più di tanto. Gli spazi erano identici a quelli del terzo piano, ma la loro sala comune aveva un aspetto ancora più malandato della nostra. Da uno dei divani usciva l’imbottitura e in un angolo era appoggiato un tavolinetto sbilenco. La sala era vuota, perciò lanciai un’occhiata in uno dei corridoi. Riconobbi Justin, che stava cercando di far entrare un enorme baule in quella che immaginai essere la sua stanza. Si fermò e chinò le spalle con aria sconfitta. Mi dispiacque un po’ per lui. Osservandolo mentre spostava di qua e di là il baule, grande quasi quanto lui, mi resi conto che era pur sempre un ragazzino, oltre che un terrificante licantropo. Si voltò, mi vide, e – oh mio Dio, una ragazza! – mi ringhiò contro.

    Mi affrettai giù per le scale fino al primo piano. Da quelle parti era tutto tranquillo. Vidi solo un paio di persone gironzolare, compreso un ragazzo alto con l’aria da sportivo, in jeans e camicia di flanella. Mi domandai se non fosse per caso il fratello maggiore di qualcuno, perché pareva un po’ troppo grande per essere uno studente della Hecate e indossava i jeans invece dei pantaloni color cachi.

    Il rumore dei miei passi era attutito da un folto tappeto in stile orientale, con ghirigori rossi e dorati, e io svoltai in uno dei corridoi che si dipartivano dall’atrio.

    Curiosai nella prima stanza nella quale mi imbattei. A quanto pareva una

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1