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Una bugia perfetta
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E-book469 pagine6 ore

Una bugia perfetta

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Info su questo ebook

La sua famiglia è davvero perfetta… o è solo un’illusione?

La vita di Gemma Bradley è perfetta. Un marito premuroso, una carriera straordinaria e due meravigliosi bambini. Eppure, tra le mura della sua splendida casa, Gemma è una madre in crisi. Ha perso il conto di tutte le volte in cui ha alzato la voce e passa più tempo a tenere a freno la rabbia che a rilassarsi con i suoi figli. Quando, nel cuore della notte, risuonano le urla della piccola Rosie, la vicina di casa di Gemma fa quello che al suo posto farebbe chiunque: chiama la polizia. Vuole assicurarsi che la bambina sia al sicuro, che non le sia successo niente di grave. Gemma sa di non aver fatto niente di sbagliato, ma più lotta per difendere la sua famiglia e più la sua vita perfetta sembra incrinarsi. È devastata dal senso di colpa e si attribuisce la responsabilità di quanto è accaduto. E, nel diario segreto della bambina, scopre una verità inquietante. La vita di sua figlia è davvero in pericolo…

Un esordio straordinario
Ai primi posti delle classifiche

Tutte le famiglie nascondono un segreto

«Una lettura estremamente avvincente e disturbante. Clare Boyd è un’autrice di cui sentiremo parlare.»

«Brividi, tensione e tante emozioni. Uno dei migliori thriller psicologici che abbia mai letto.»

«Colpisce al cuore e toglie il fiato.»

Clare Boyd
vive con il marito e le due figlie nel Surrey, vicino Londra, dove trae ispirazione dal verde del suo giardino per scrivere. Ha lavorato per anni come modella e ha viaggiato in tutto il mondo, prima di dedicarsi alla carriera televisiva, partecipando a documentari e serie TV. È così che ha scoperto la passione di raccontare storie.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822734990
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    Anteprima del libro

    Una bugia perfetta - Clare Boyd

    Capitolo uno

    Vedevo mia madre attraverso la vetrata. Era ai fornelli, sotto la luce calda della cucina, intenta a rimestare qualcosa sul fuoco. Le tazze di plastica dei bambini erano poggiate lì accanto, e i loro colori vivaci spiccavano sul ripiano bianco.

    Il cuore mi pulsava a mille e avevo le mani sudate. Esitai, con le chiavi già nella serratura. Non potevo entrare, non ancora. Mi servivano altri cinque minuti. Tornai in macchina e mi chiusi dentro. Dovevo prepararmi.

    Quando Rosie e Noah erano molto piccoli, gli dicevo che io per loro ero l’alba e la luna, e che ci sarei sempre stata per baciarli al mattino e metterli a letto con una storia della buonanotte. Quella settimana ero uscita troppo presto per poter essere la loro alba. Ma tutte le sere, alle sei in punto, correvo dalla stazione a casa per poter essere la loro luna, e tutte le sere, puntualmente, quanto più mi avvicinavo a casa tanto meno avevo voglia di entrare.

    Stanca morta dopo una pesante giornata di lavoro a Londra, mi sembrava di dover salire su un palco per partecipare all’ennesima recita della mia vita, nonostante le critiche mediocri o negative che ricevevo tutte le sere da dieci anni. Per come mi sentivo, non sapevo come avrei fatto a superare il dramma in scena quella sera senza improvvisare e strangolare i miei bambini nel secondo atto, o almeno desiderare di farlo.

    Immaginavo tutte le altre madri del mondo che arrivavano all’ora della nanna leggere come piume, cantavano e ridevano, forti dei loro minuscoli impegni, e desideravo con tutta me stessa di essere come loro. Il solo fatto che esistesse una stirpe miracolosa di madri così efficienti mi faceva desiderare di morire, di abbandonare sul sedile del passeggero l’abito blu e la camicia bianca: l’uscita di scena di una madre lavoratrice.

    Appoggiai la testa contro il sedile, morbido e freddo. Solo qualche minuto ancora, per far rallentare il cuore.

    Avevo parcheggiato davanti al cancello e alla siepe di biancospino, dietro la quale la nostra casa Arts and Crafts anni Trenta dominava il piccolo quartiere di Virginia Close. Le altre cinque case inerpicate lì in cima alla collina erano dello stesso periodo. La maggior parte non aveva ampliamenti e cancelli grandi come i nostri ma erano tutte altrettanto carine, con i tetti spioventi, le pareti di mattoni rossi e le finestre eleganti. Le case si fronteggiavano tutte, come un gruppo di amici in circolo, intenti a chiacchierare. E la nostra era la meno loquace.

    Una volpe sbucò dalla siepe. Vidi i suoi occhi luccicare in mezzo alla nebbia che dall’inizio di settembre avvolgeva la collina e la casa come una nuvola sonnolenta, calata come una coperta su un’ariosa e calda estate scomparsa nel giro di una notte. La volpe si fermò e mi guardò come se avesse capito che ero solo un’imbrogliona.

    Sentii un crampo al ventre. Il bambino non era ancora tanto grande da scalciare, ma lo era abbastanza da riportarmi alle mie responsabilità quotidiane.

    Uscii dall’auto e avanzai sul vialetto con la ghiaia che scricchiolava sotto i piedi. Sentii un fruscio alle mie spalle. La volpe scivolò via infilandosi nella siepe ed entrò nel giardino accanto, quello di Mira e Barry, forse per catturare i polli. Avrebbe lasciato i resti piumosi del suo massacro in giro per il prato.

    Nell’istante in cui infilai la chiave nella serratura colsi il rumore dei piedi di Rosie e Noah sul pavimento di legno e all’idea di rivederli sentii le farfalle nello stomaco. La porta si aprì dall’interno, con un click. Misi via le chiavi e lasciai che Rosie aprisse. Non mi diedero neanche il tempo di posare la borsa o di togliermi il cappotto, mi saltarono addosso come cuccioli, abbracciandomi e stringendomi con tutta la loro forza.

    Presi il volto di Noah tra le mani: «Ciao, piccolino!».

    La sua pelle di pesca e le sue folte sopracciglia bionde mi sciolsero il cuore. Gli nascosi la faccia nel collo e respirai a fondo, mentre Rosie si aggrappava alla mia schiena. Mi girai, le accarezzai i capelli neri e la baciai sulle labbra. «Ciao, tesoro. Com’è andata oggi a scuola?»

    «Charlotte mi ha rubato la gomma e poi ha detto di non averlo fatto», piagnucolò, ancora indignata.

    «Ma è terribile! L’hai raccontato alla maestra?».

    Scosse il capo furiosamente. «Io non faccio la spia, mamma. Ho dieci anni».

    «Mamma, vieni a vedere!», gridò Noah, prendendomi per mano e trascinandomi in cucina. «Guarda che cosa abbiamo fatto!».

    «Ciao cara», disse mia madre. Tolse dal fuoco un pentolino di latte, con estrema lentezza, come se pesasse dieci tonnellate. Sul dorso della mano sporgevano le vene, viola, come serpenti aggrappati con tutta la forza allo scheletro.

    «Ciao mamma». La baciai sulla guancia. Odorava di zucchero e sapone. Sbatteva gli occhi di continuo, come una ragazzina che ricaccia indietro le lacrime per mostrarsi forte.

    «Guarda, mami! Questi li abbiamo preparati noi», esclamò Noah.

    Al centro del tavolo c’era una colonna di muffin al cioccolato, accanto a una torta salata, ancora avvolta nella pellicola. Avrei preferito che avessero già cenato, a quell’ora.

    «Caspita, Noah, li avete fatti voi? Tutti da soli?». Evitai lo sguardo di mia madre, per nasconderle il disappunto. La bella composizione di quei muffin si era trasformata nella mia testa in migliaia di grammi di zucchero, in un ammasso di malvagia sostanza bianca sufficiente a raggiungere e superare la dose giornaliera consigliata.

    «Possiamo mangiarne un altro?», chiese Rosie, afferrando quello più grande.

    Prima che potessi emettere il mio no, mia madre disse: «Va bene, ma solo uno».

    Si voltò indaffarata e non potei neanche rivolgerle uno sguardo incredulo.

    «Grazie, nonna Helen!», gridò Rosie, scappando prima che potessi fermarla.

    «Rosie!», le gridai dietro. «Hai fatto i compiti?»

    «Le ho detto che poteva farli dopo aver guardato un po’ di tele», disse mia madre.

    Versò il latte caldo in due tazze.

    «La torta salata è cotta?», le chiesi. Sentii una fitta alle tempie.

    «Stavo per infornarla».

    La stanchezza mi si abbatté addosso come una frana. Erano già le sei e un quarto. Per essere a letto prima di mezzanotte avrebbero già dovuto aver cenato e fatto i compiti, visto che poi c’era da fare il bagno e raccontare la storia della buonanotte. Mi riempii un bicchierone d’acqua di rubinetto.

    Mia madre prese le tazze e disse: «Porto queste di là e poi li saluto».

    Provai una fitta di paura al pensiero di separarmi da lei. Sarei rimasta da sola e temevo di non riuscire a cavarmela, sapendo quanto male potevano mettersi le cose.

    Dopo aver salutato i bambini, mia madre si infilò il cappotto e si mise a frugare dentro la borsa. «Occhiali. Telefono. Chiavi. Bene, ti lascio», disse.

    «Vuoi restare per una tazza di tè?».

    Mi scrutò. Io serrai la mascella. Avevo gli occhi incavati, le occhiaie, i capelli crespi e lunghi fino alle spalle, la pelle pallida e smorta. Quando ci eravamo appena conosciuti, Peter mi aveva detto che avevo un aspetto meravigliosamente ribelle, che sorridevo con i denti e le guance e le sopracciglia, come una monella. Mi piaceva l’idea di sembrargli più ribelle e più piccola di quanto fossi in realtà. Ma quel viso di cui si era innamorato ormai aveva più di quarant’anni, e non sembrava più avere lo stesso fascino.

    «Sei troppo magra e sciupata», disse.

    «Allora non è vero che la gravidanza rende più belle», provai a ridere.

    «Forse lavori troppo».

    «Non pensavo che mi avresti mai detto una cosa del genere».

    «È meglio che vada».

    Non volevo essere scortese, e non volevo rivangare i tempi dell’adolescenza. Quello che avrei voluto davvero era un caldo abbraccio.

    Quando la porta si chiuse, giuro che mi sembrò di sentire il risucchio dell’aria, come se la casa fosse stata messa sotto vuoto e sigillata. Avevo gli occhi asciutti. Mi crollò addosso una sensazione di isolamento e terrore.

    Ripensai al mio ufficio, calmo e tranquillo. I documenti al centro della scrivania, riordinati da Lisa, già pronti per la riunione delle nove. Il lavoro era sfiancante, ma il più delle volte sapevo con certezza cosa sarebbe successo.

    Nella stanza della TV, Rosie e Noah si erano accoccolati in un angolo del grande divano, coperti da un plaid. Avevano poggiato i piedi sul pouf. Sembrava che insieme stessero comodi e al calduccio. Sulle loro teste era appeso il dipinto a olio che avevo regalato a Peter per il suo compleanno l’anno prima. La donna ritratta, a torso nudo, era piegata sulle gambe, forse in un passo di danza o forse in un gesto di dolore. I colori cozzavano tra loro. La schiena era un tratteggio di enormi archi disordinati. Forse il braccio dell’artista si era affaticato, con tutte quelle pennellate. In quell’opera c’era qualcosa che si riverberava nel mio animo. Mi sarebbe piaciuto avere più quadri alle pareti. All’esterno la nostra casa era pittoresca e sbilenca, con le piante rampicanti sulla facciata sud, ma all’interno era immacolata e tirata a lucido: linee pulite, moderne e levigate, mobili eleganti e semplici e accessori placcati in argento.

    «Cosa guardate?».

    Nessuno dei due spostò gli occhi dalla televisione. Dallo schermo piatto arrivava una voce lamentosa con un fastidioso accento americano.

    «Ehi, Terra chiama Rosie», dissi con più enfasi.

    «Ti sposti, ma’? Non vedo niente».

    Una parte di me avrebbe voluto lasciarli là. Peter mi avrebbe detto di fare proprio così. Mi avrebbe detto che Rosie avrebbe potuto rimettersi in pari con i compiti il giorno dopo, e poi si sarebbe accoccolato con loro sotto la coperta. Ma io non potevo. I compiti sono importanti. La routine è importante. Tutti sanno che i bambini ne hanno bisogno per sentirsi al sicuro. E poi, io non ero una loro amica, ero la loro madre.

    Basta, avevo preso la mia decisione. Battei le mani. «Subito di sopra, tutti e due. Rosie, devi fare i compiti di matematica. Noah, fila a leggere. Andiamo, ordine».

    Grugnirono e si misero a rotolare sul divano.

    «Odio le frazioni», disse Rosie.

    «Non ci vorrà molto, e appena avrete finito vi farò trovare il tè pronto». Battei le mani un’altra volta, provando fastidio io per prima.

    Ma invece di salire al piano di sopra e andare a sedersi alla scrivania, Rosie scappò in cucina dicendo: «Devo prima prendere una cosa fuori».

    La seguii, mentre Noah riaccendeva la televisione.

    Davanti alla porta, Rosie si infilò gli stivaletti di gomma.

    Serrai la mandibola. «Rosie, che cosa stai facendo?».

    Anche se non avrei dovuto, ero spaventata dalla possibilità che mia figlia mi battesse in astuzia. Una madre migliore di me avrebbe gestito la cosa più efficacemente ma, ancora una volta, volevo metterla alla prova.

    «Devo andare a prendere una cosa».

    «Cosa? È buio pesto».

    «È per Charlotte».

    «Che cosa?»

    «Non ti preoccupare», mi gridò, e sparì nella nebbia.

    «Sbrigati!».

    Innervosita per la ribellione di Rosie e preoccupata di non riuscire a farle fare i compiti in tempo, tenevo un occhio sull’orologio della cucina, sperando che tornasse di sua sponte.

    Per la torta salata ci volevano tre quarti d’ora, che dovevano essere dedicati ai compiti di Rosie. Se non si fosse messa a perdere tempo là fuori.

    Dopo quindici minuti mi infilai gli stivali e uscii come una furia nell’oscurità. Il prato, ampio e grigio, mi era sempre sembrato piatto e chiuso, inutilizzato e troppo in ombra, a causa di due alti ligustri che tenevano lontani i vicini da una parte e dall’altra. Oltre i cespugli e la nebbia, immaginavo le siepi come una fila di sentinelle sull’attenti, spalla a spalla, intente a osservarmi mentre marciavo verso il fondo del giardino per dare battaglia nel fitto del bosco.

    Rosie si era riparata sotto la chioma della quercia, seduta su un tronco segato. Si faceva luce con una torcia frontale.

    «Ma che cosa stai combinando?».

    Mi ignorò e continuò a lavorare, il capo chino sul mucchio di foglie che aveva sulle gambe. Avvicinandomi, vidi che stava cucendo tra loro con la lana dei ramoscelli di quercia.

    Sospirai. «Su, basta scherzi, Rosie, sono troppo stanca». Che frase abusata.

    Sotto la luce della piccola torcia, vidi Rosie armeggiare concentratissima, le dita che si muovevano con precisione. Un soffio d’aria fresca mi arrivò sotto la camicia, facendomi rabbrividire.

    «È ora dei compiti. Per favore, Rosie».

    «Solo un minuto».

    «Sono già venti minuti».

    «Solo due ancora, ti prego».

    Aspettai, chiedendomi se fosse meglio rientrare o continuare a metterle fretta. Quello era il suo rifugio, il suo posto preferito. Ero colpita dalla cura e dall’attenzione con cui si era costruita quel piccolo angolo. C’era un bollitore di latta blu appoggiato su un cerchio di pietre con dei ramoscelli al centro, e su un vecchio tavolo di legno c’erano dei piatti di corteccia, coltelli e forchette fatti con i rami. Un secchio di plastica pendeva da una fune appesa all’albero.

    «Questo funziona ancora?». Sorrisi, tirando il sistema di carrucole che metteva in comunicazione il nostro giardino con quello di Mira e Barry.

    Per la prima volta, Rosie mi rivolse l’attenzione. Guardò in alto. «Non lo so».

    Rosie l’aveva scoperto il giorno in cui ci eravamo trasferiti. L’aveva lasciato la ragazzina che abitava qui prima di noi. Per un po’ Rosie aveva proseguito di nascosto il gioco della precedente proprietaria, mandando piccoli mazzolini di fiori a Mira con il secchio, e ricevendo in cambio dei biscotti avvolti in fogli d’alluminio e bigliettini. Quando lo scoprimmo le diedi il permesso di usarlo ma solo di tanto in tanto, e solo dopo aver chiesto l’autorizzazione di un adulto.

    «Perché non me l’hai fatto usare?»

    «Ma sì che te l’ho fatto usare».

    «Quasi mai», protestò.

    «Avevo paura che potessi dare fastidio».

    «Perché?», disse Rosie, tornando al suo lavoro.

    La fune era bagnata e ammuffita. Quando la tirai, il secchio blu sobbalzò e salì fino ad arrivare in cima alla siepe divisoria. A quel punto tirai l’altra fune per invertirne il percorso e lo riportai al suo posto.

    «Perché le persone ci tengono alla privacy, ecco perché».

    «Però lei lascia che Beth passi dal suo giardino per venire al mio rifugio».

    «Uhm», dissi, disapprovando.

    «A lei non importa, mamma, è la verità».

    Sapevo che era un argomento di scontro, così cambiai discorso. «Andiamo, Rosie. Basta così, è ora di rientrare».

    «Ma devo finire questo per domani».

    «No che non devi. Avanti, andiamo».

    Rosie continuò a legare e annodare. «Non capisci, mamma. È importante davvero».

    «Se non vieni via subito, giuro che ti metterò in castigo per tutta la settimana».

    «Non mi interessa».

    Mi preparai allo scontro. «Non te lo ripeterò un’altra volta».

    «Solo due minuti».

    Rimasi lì come una stupida, a chiedermi se c’era un modo per convincerla a rientrare, senza arrivare a trascinarla per i capelli.

    E poi Rosie alzò la testa, abbagliandomi con la torcia, e mi mostrò una corona autunnale di foglie di quercia, scenograficamente illuminata dal raggio di luce. La presi e la guardai bene. Ammirata dal suo lavoro, affascinata dalla sua originalità, dimenticai che ero lì per costringerla a fare i compiti di matematica: all’improvviso non sembrava più così importante. «Rosie, è davvero meravigliosa», le dissi, restituendogliela.

    «È per Charlotte».

    «Le piacerà da morire».

    Mano nella mano, attraversammo lentamente il giardino. La corona crepitava quando le strisciava contro il ginocchio.

    Strinsi più forte la sua mano nella mia. Sentivo una fitta di paura, come se la mia presa fosse troppo leggera, come se non avessi mai potuto considerarla davvero mia. Si dice che i genitori hanno i figli solo in custodia temporanea, che non sono un loro possesso. In quel momento mi sembrava verissimo. Rosie era un piccolo essere umano e aveva davanti la sua strada da fare. Tutto ciò che potevo fare io era ipotizzare quanta influenza avrei avuto su di lei.

    «Posso fare i compiti dopo cena?»

    «Va bene. Solo per questa volta», le dissi. Sapevo di essere stata ingannata.

    «Grazie, mamma».

    «Come fai a farla sempre franca, eh?», sogghignai. Le sfilai la torcia dalla testa e la spensi.

    «Forse perché mi vuoi tantissimo bene?», mi chiese, sfrontata.

    «Già, è proprio così», confermai, ridendo. E le baciai la testa.

    Quando Rosie e io andavamo d’accordo, mi sentivo in pace con il mondo. Era quello che avevo sempre sperato per noi: goderci il rapporto tra madre e figlia, guidarla verso un futuro felice. Rientrando in casa, speravo che quel senso di calma durasse ancora a lungo.

    Capitolo due

    Mira si infilò sotto l’acqua bollente. Era un po’ troppo calda, ma a lei piaceva così. Quando immerse il corpo fino al collo sentì un piacevole formicolio alla pelle. Le bolle crepitavano nelle orecchie. L’acqua quasi scottava.

    Quello del bagno sarebbe dovuto essere il momento più tranquillo dell’intera giornata, ma a casa dei vicini c’era parecchio trambusto. Prima li aveva sentiti parlare a voce alta, poi erano cominciate le urla. Mira mise giù il libro, poggiandolo sull’asciugamano. Prese il telefono e le cuffie e, per allontanare quei rumori, si sforzò di ascoltare le parole invece di leggerle. L’idea dell’audiolibro era stata di Barry.

    Forse l’aveva suggerito perché era stanco di tutte le lamentele di Mira sui vicini, ma lei non sopportava più quelle urla. Le grida di un bambino in pericolo erano il suono più odioso e orrendo del mondo. Come se non bastassero quelle che doveva sorbirsi ogni giorno a lavoro, pensò, premendosi l’asciugamano sugli occhi.

    Era quello l’unico aspetto della sua professione che non riusciva a digerire. Non aveva problemi con le lacrime, le lotte e le grida di gioia nel parco. Ma le urla erano impossibili da tollerare e le facevano torcere le budella quando i bambini provavano davvero dolore, dentro più che fuori. Era convinta di poter distinguere i due casi. Se ne avesse avuto modo, avrebbe fatto sì che ogni singolo bambino alla scuola elementare Woodland fosse felice, sempre.

    Forse era così perché non aveva mai avuto figli. Se ne avesse avuti, magari si sarebbe preoccupata solo di loro. Tuttavia era proprio questo che le dava più noia nei rapporti con i genitori. Quelli erano interessati solo ai bisogni dei loro amati Johnny e delle loro piccole Mary. Non si preoccupavano mai del quadro d’insieme, della comunità. Quei genitori che parcheggiavano sulle strisce pedonali tutte le sante mattine, per esempio: che gliene fregava a loro se un bambino veniva investito perché avevano intralciato il passaggio? La sola cosa importante era arrivare in orario al lavoro o alla lezione di yoga. I colpevoli in genere erano Quelli Di Londra, QDL, come li chiamavano Mira e Barry. A Mira davano proprio sui nervi. Decisamente.

    «Ciao, amore. Posso?», disse Barry, bussando alla porta, ta-ta-ta-ta-ta. Aspettava sempre una decina di minuti prima di andare da lei per due chiacchiere, per lasciarle il tempo di leggere almeno qualche pagina. Mira aveva indosso le cuffie, ma si rese conto di non aver ascoltato neanche una parola del libro.

    Barry spinse la porta con la spalla. In mano reggeva un vassoio con un invitante bicchiere di prosecco. Accanto al vino, aveva preparato una ciotola di cubetti di cioccolato Curly Wurly. Il preferito di Mira.

    «Eccoti servita. Ho pensato che ne avessi bisogno, dopo una giornata come quella di oggi», disse, sistemando il vassoio sulla sedia accanto alla testa della compagna.

    «Grazie, caro. Che moglie fortunata che sono». Allungò il collo per poggiare sulle labbra di Barry un bacio umido e schiumoso.

    Barry si sistemò nella sedia di vimini davanti alla finestra. Oltre la tenda a fiori c’era la casa dei Bradley, così vicina da sembrare a portata di mano.

    «Allora, com’è andata oggi?», le chiese. Dietro gli occhiali, i suoi occhi marroni apparivano più grandi. Aveva i capelli grigi pettinati da una parte. Come uno scolaretto, pensò Mira.

    «Abbastanza bene, direi. Mi hanno fatto un sacco di domande e di tanto in tanto hanno sorriso, cosa che mi è sembrata un buon segno. Anche se Patricia era un po’ agitata».

    «Be’, è lei che rischia la testa se non ti danno di nuovo un eccellente».

    «Già, un buono ormai non sembra più abbastanza».

    «Colpa delle mamme come la signora comesichiama, la vicina, che vengono qui con i loro macchinoni e si aspettano chissà cosa».

    «I figli di Gemma e Peter vanno alla scuola privata».

    «È lo stesso. Le mamme come lei portano solo guai».

    Manco a farlo apposta, dal bagno dei Bradley si udì un grido ovattato. Mira sapeva che quel bagno aveva le piastrelle di marmo: l’idraulico del posto le aveva fatto fare un giro della casa, prima che i Bradley vi si trasferissero. Aveva mentito presentandosi come la sorella di Gemma, cosa piuttosto ridicola, visto quanto erano diverse. Mira era di costituzione robusta, con il corpo tondo e tozzo, i capelli corti e grigi e un incarnato roseo. Era incomprensibile per lei che Gemma, con i suoi capelli crespi e il suo culo secco, fosse la capoccia del dipartimento vattelappesca di una qualche banca. Eppure, l’idraulico non aveva fatto caso alla differenza fisica tra loro. Ma forse non si sarebbe accorto di nulla neanche se Mira fosse arrivata con indosso un passamontagna e una borsa piena di refurtiva. Semplicemente non aveva mostrato nessun rispetto per il suo cliente. Forse, pensò Mira, Gemma lo aveva trattato male, ringhiandogli ordini senza neanche offrirgli del tè. Questo era accaduto cinque anni prima: il tempo era volato da allora, rifletté Mira.

    «Buffo che non le sia mai piaciuto il secchio blu».

    «Era una cosa innocente».

    «Forse non le piaci tu», disse Mira, soffiando delle bolle verso Barry.

    «Molte grazie». Barry rise e si pulì gli occhiali.

    Mira si immerse di nuovo nell’acqua e gli chiese: «E a te? Com’è andata?»

    «Ho potato le rose a Lower Barn e la signora Cranbourne mi ha girato intorno per tutto il tempo. A volte mi chiedo perché non se le pota da sola. Comunque, è gentile. Ed è anche piuttosto loquace».

    «Ah sì? Ed è anche carina?»

    «Ha tipo centocinque anni!».

    Mira spostò le bolle per guardarsi i seni che facevano capolino sotto la superficie dell’acqua. Fare il bagno le piaceva forse per questo motivo. Era l’unico momento in cui il suo corpo vinceva la forza di gravità e appariva sodo.

    «A volte mi sembra di averceli io, centocinque anni», disse.

    «Be’, a me sembri una venticinquenne», le disse Barry, facendole il solletico all’alluce. Mira si chiese se esistessero le lenti deformanti da matrimonio, così come esistevano quelle da sbronza. Quello che Barry diceva di vedere non c’era. Ai suoi occhi, Mira era rimasta identica al giorno delle nozze, venticinque anni prima. Ma era meglio non lamentarsi. L’anno seguente avrebbe compiuto cinquant’anni, ed era felice che Barry la vedesse attraverso le lenti del matrimonio.

    «Raccontami della signora Cranbourne», disse Mira, aggiustandosi l’asciugamano arrotolato dietro la testa.

    Le piacevano le storie di Barry sui suoi clienti. Era il suo vice-pettegolo, anche se non era molto bravo a raccontare. A volte si lasciava andare aggiungendo troppi dettagli. Lei si sarebbe soffermata solo su certi fatti: come l’abitudine del signor Ingham di tagliarsi le unghie dei piedi nelle fioriere della moglie, o i progressi di Danny Clark nella costruzione del circuito di motocross per il figlio di cinque anni nel giardino sul retro di casa, o il fatto che la signora Bloom a volte nuotava nuda nella sua piscina.

    Un grido fortissimo, prolungato, arrivò dal bagno dei Bradley. «Mi hai fatto male, mamma!».

    La bambina continuava a urlare.

    Barry, di solito impermeabile ai rumori dei vicini, smise di parlare per un secondo e guardò Mira, turbato.

    A Mira quelle urla facevano lo stesso effetto delle unghie strisciate su una lavagna. Si coprì le orecchie con le mani. Le sentiva ugualmente, come se fosse stata lei stessa a gridare. Lei che gridava, poi uno schizzo d’acqua e una corsa fra le onde a Climping beach. Aveva di nuovo dieci anni. Esaltata, spaventata, aveva corso in mezzo alle alghe, sotto i piedi una sensazione morbida e viscida. Il ricordo scoloriva nella piena luce del sole.

    O forse era la luce del lampione. Barry aveva scostato la tenda per sbirciare fuori.

    Mira aveva davanti agli occhi tutte e due le scene: in una metà c’era Barry, qui e ora, e nell’altra il suo passato.

    Parlò in entrambe, mentre irrompevano nella sua mente.

    «Dobbiamo preoccuparci?», disse, lasciandogli le mani.

    Le urla continuavano, ora si sentivano anche più forti, come se la finestra fosse aperta. La testa di Mira pulsava. Il colpo di una pietra alla schiena, le ginocchia avevano vacillato sulla poltiglia marrone e puzzolente. Un altro sasso l’aveva centrata in testa. Sua madre si era messa a ridere. O forse era stata sua sorella?

    «Ne abbiamo già parlato, Mira, amore. È il loro modo di fare. Non c’è altro da dire». Barry lasciò andare la tenda.

    «Quella povera piccola creatura è in pericolo. Secondo te dovrei andare a dare un’occhiata?»

    «I bambini di Barbara gridavano allo stesso modo quando lei li pettinava. Ti ricordi quella vacanza in Cornovaglia?»

    «Ma loro erano piccoli piccoli, invece Rosie avrà almeno undici anni, no?»

    «Forse sì, ma quando Barbara…».

    Ci fu un altro grido lancinante. E poi una sequela di rimproveri da parte di Gemma Bradley, o almeno così sembrava. Di sicuro era un adulto quello che urlava. Il tono della voce era certamente cattivo.

    «Forse dovremmo vendere la casa e trasferirci», suggerì Mira. Questa volta diceva sul serio.

    «Non puoi sfuggire alle famiglie. Sono dappertutto». Barry si tolse gli occhiali e si strofinò il viso. Per un attimo sembrò che non avesse più gli occhi.

    «Sono sicura che ce ne siano di più tranquille».

    Se vendessimo la casa, la mamma si rivolterebbe nella tomba, pensò Mira, anticipando Barry.

    «Se vendessimo la casa, la mamma si rivolterebbe nella tomba», disse Barry.

    «Con un appartamento più piccolo, potremmo risparmiare qualche soldo per quella famosa crociera sui fiordi», disse Mira. Per lei era una possibilità reale. Risparmiare per una vacanza all’estero era stata, in passato, un’idea troppo faticosa, ma forse avrebbero potuto farcela se lei si fosse finalmente decisa a cambiare passo.

    «Forse, chissà, quando andrò in pensione», disse Barry.

    «Sì», sospirò Mira. Sapeva che non avrebbero mai venduto la casa per una crociera in Norvegia. Lo spettro della madre di Barry non aveva infestato la casa, ma di sicuro perseguitava lui. Quella vecchia strega impicciona. Per quanto Mira avesse cercato di andarci d’accordo, la signora Entwistle non l’aveva mai perdonata per aver spostato il suo unico figlio.

    «E quanto a Barbara, accidenti, a lei sarebbe venuto un…», cominciò a dire Barry.

    Mira desiderava che la sua voce coprisse le urla di Rosie, ma non fu così. Quel suono le penetrava nelle ossa. Si abbassò sott’acqua, fino a immergere la testa. La pressione sui timpani attutiva il monologo di Barry. Era strano ma riusciva a distinguere comunque le parole. Poi sentì la porta del bagno aprirsi e chiudersi di botto. Saltò su a sedere, sentendo l’aria fredda e la pelle d’oca sulle braccia. Barry se n’era andato. Mira si accarezzò i capelli. Erano asciutti, ed erano asciutte anche le sue guance. Eppure, avrebbe giurato di essersi appena immersa sott’acqua. E l’acqua ora, all’improvviso, era diventata gelida. Uscì dalla vasca per raggiungere l’asciugamano messo a riscaldare sul termosifone, e rovesciò il bicchiere di vino.

    Ancora gocciolante, nervosa, scese al piano di sotto in punta di piedi, lasciando impronte bagnate sul tappeto rosa.

    Il marito era in cucina, a mettere a posto.

    Mira superò la chitarra impolverata e la cyclette nello studio di Barry, che lui chiamava stanza della musica, e si inginocchiò sul pavimento davanti alla cassettiera. Lentamente, per non farsi sentire, aprì un cassetto e prese il grande album fotografico. La copertina rosa aveva una leggera filigrana in rilievo, come un ricamo. Era soffice sotto le dita.

    La carta velina frusciava man mano che sfogliava le pagine. Alcuni dei piccoli adesivi che sua sorella aveva faticosamente incollato agli angoli delle istantanee si erano staccati. Le foto penzolavano molli, come i suoi ricordi. Andò avanti velocemente, fino alla fotografia che voleva guardare.

    Climping Beach, 1976. Io, Mira e la mamma, c’era scritto sotto, con la penna stilografica, nella pessima grafia della sorella. Per qualche strana ragione, ogni volta che guardava quella fotografia scolorita sentiva la bocca secca e il cuore battere più veloce.

    Dopotutto era stato un giorno felice, no? Sorridevano anche con gli occhi. Avevano la pelle illuminata dal sole. Mira riusciva quasi a vedere il suo stesso petto sollevarsi, dopo la nuotata nel mare scintillante che le bagnava piedi. Un giorno d’estate perfetto. Il maglione di sua madre era giallo nella foto, ma nel 1976 era arancione. Arancione brillante e urticante sul volto di Mira. L’odore della lana calda e umida in un giorno d’estate le tornò in mente all’improvviso. Sua madre aveva sempre freddo. E quel vestito. L’unico che Mira possedesse. Avvicinò il viso alla fotografia e strizzò gli occhi per mettere a fuoco i piccoli puntini sul cotone bianco: erano dei fiorellini marroni. Una delle bretelle le scivolava sempre dalla spalla, proprio come nella foto. Aveva dimenticato quell’abito.

    Le urla crescevano di intensità, era come avere nelle orecchie un’incessante sirena. Si tolse l’asciugamani di dosso e ci nascose la testa.

    Barry era dietro di lei. Mira doveva aver gridato, di nuovo.

    «Su, su, calmati, non è niente, Mira, calma», le disse, e si inginocchiò al suo fianco.

    Mira si sentì a disagio per la sua nudità come se fosse stata davanti a uno sconosciuto. Ma forse era lei la sconosciuta. In venticinque anni avevano imparato l’uno i ritmi, le abitudini e gli umori dell’altra, si conoscevano intimamente, ma c’erano delle volte in cui Mira si sentiva un impostore. Lui l’aveva sempre vista in un modo, lei sapeva di essere in un altro. Lui l’aveva etichettata come una brava persona che meritava di essere amata. Lei sapeva che non era così.

    Barry le tolse l’asciugamano dalla testa e glielo avvolse intorno al corpo. La tenne stretta.

    Per un momento, Mira si sentì confortata, si accoccolò contro di lui, godendosi il sollievo delle sue carezze. Ma lui non smetteva di parlare. «Non sta a te preoccuparti di Rosie. È al sicuro», disse. «Anche tu sei al sicuro, ora, sei con me».

    Quelle parole la irritarono. Aveva prurito dove lui la toccava. Si liberò dall’abbraccio e si asciugò le lacrime sull’asciugamano.

    «Questo non ha niente a che fare con me, Barry. Devo andare a controllare se la piccola sta bene. Solo questo».

    Barry si grattò i peli che gli uscivano dalla camicia e sospirò.

    «Va bene, amore. Se pensi che ti farà stare meglio», le disse lasciandola andare.

    Capitolo tre

    Rosie e Noah mi avevano spinto al limite. Avevano litigato per il sapone in bagno; avevano macchiato di dentifricio i pigiami puliti; avevano rovesciato tre scatole di giocattoli, due volte; avevano saltato sul letto scombinando le lenzuola. Io avevo continuato a ringhiargli contro, dando ordini e cercando di controllare la rabbia, finché entrambi non si erano messi a letto, all’incirca dieci minuti prima delle nove, orario in cui doveva arrivare Peter.

    Dopo aver riordinato la cucina e preparato per la seconda volta la cena, arrancai al piano di sopra per assicurarmi che le luci fossero spente come le avevo lasciate. Noah si era spaparanzato, aveva gli occhi socchiusi. Presi il suo orsacchiotto, glielo sistemai sotto il braccio e lui mi sorrise mezzo addormentato. Nella stanza di Rosie, invece, vidi il bagliore della torcia sotto le coperte. Provai un monumentale senso di fallimento. Ogni residuo di pazienza evaporò all’istante.

    «Che diavolo pensi di fare?»

    «Niente».

    Tirai via le coperte e lei richiuse velocemente la custodia del suo diario.

    «Sono le nove e mezza!», gridai.

    «Non riuscivo a prendere sonno».

    Indicai il diario. «Quello dallo a me, per favore».

    Quell’aggeggio, il Secret Teen Diary, era un grande taccuino rosa, nascosto in una custodia con uno sportello che si apriva e chiudeva (funzionava a pile). Era il suo tesoro. Ci scriveva ogni giorno, entusiasta del fatto che l’apertura richiedesse un codice.

    «Stavo finendo

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