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Adesso e per sempre
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E-book380 pagine11 ore

Adesso e per sempre

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Info su questo ebook

Un'autrice da oltre 9 milioni di copie

Louna, figlia di una famosa wedding planner, ha assistito a ogni sorta di matrimonio: sulla spiaggia, dentro palazzi storici, in favolosi alberghi e club. Ne ha visti così tanti che è diventata un po’ cinica e difficilmente riesce a pensare che molte di quelle coppie vivranno “per sempre felici e contente”. Anche perché il suo primo amore è finito in modo tragico: il ragazzo che amava è morto in circostanze tragiche. Quando Louna incontra, proprio a un matrimonio, un ragazzo affascinante, allegro e spensierato, ma che le sembra il tipico donnaiolo, cerca di tenerlo a debita distanza. Ma Ambrose non ha alcuna intenzione di lasciarsi scoraggiare, perché crede di avere incontrato l’unica ragazza con cui davvero vuole stare. I fan di Sarah Dessen ameranno questa storia ricca di ironia, romanticismo e con un finale lieto ma anche imperfetto... proprio come la vita!

Dall’autrice bestseller del «New York Times» di Ascolta il tuo cuore
Una storia d’amore originale e imperdibile

«C’è qualcuno che può scrivere di ciò che più conta per gli adolescenti così come fa la Dessen? Sinceramente ne dubito.» 
Jodi Picoult

«Ancora una volta la Dessen dimostra la sua grande capacità di evocare forti emozioni attraverso una prosa attenta e regalando una bella storia d’amore.» 
Publishers Weekly
Sarah Dessen
È sempre stata una grande lettrice, come i suoi genitori, entrambi professori universitari. Da quando, all’età di otto anni, ricevette in regalo una vecchia macchina da scrivere, ha passato il suo tempo a inventare storie. I libri che ha letto quando era adolescente – i migliori – sono quelli che hanno formato le sue idee più di ogni altra cosa. Autrice bestseller del «New York Times», ha ricevuto numerosi premi. La Newton Compton ha pubblicato Ascolta il tuo cuore, Per sempre noi e Adesso e per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2017
ISBN9788822712660
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    Anteprima del libro

    Adesso e per sempre - Sarah Dessen

    1694

    Titolo originale: Once And For All

    Copyright © 2017 by Sarah Dessen

    This edition published by arrangement with Viking Children’s Books, an imprint of

    Penguin Young Readers Group, a division of Penguin Random House LLC.

    Traduzione dall’inglese di Carmela Di Stasi

    Prima edizione ebook: agosto 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1266-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Sarah Dessen

    Adesso e per sempre

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    A Regina Hayes

    Che mi fa pensare, ridere

    E che mi fa sempre stare meglio

    Capitolo 1

    Dunque, quella fu la prima volta.

    «Deborah?», dissi bussando piano piano ma con abbastanza intensità da trasmettere la giusta urgenza. «Sono Louna. Posso fare qualcosa per te?».

    Secondo mia madre, questa era la Regola Numero Uno per affrontare situazioni del genere: non esternare il problema. Come per non chiedere se qualcosa non va a meno che tu non ne sia sicuro, e in quel momento io non ne ero sicura. Anche se una sposa chiusa a chiave nel vestibolo della chiesa cinque minuti dopo il presunto inizio della cerimonia non era proprio un buon segno.

    Sentii un movimento dall’altro lato della porta. Poi un singhiozzo. Ancora una volta, desiderai che William, socio di mia madre e consigliere ufficiale delle spose, fosse lì al posto mio. Ma era alle prese con un altro problema: se la madre dello sposo dovesse precedere quella della sposa lungo la navata, benché tutti sapessero che il cerimoniale voleva così. Comunque, lavorare nel mondo dei matrimoni per molto tempo ti insegna che qualsiasi cosa è potenzialmente un problema, dalla coppietta felice fino ai tovaglioli. Non si può mai sapere.

    Mi schiarii la voce. «Deborah? Vuoi un bicchiere d’acqua?».

    Non era mai la vera soluzione, ma un bicchiere d’acqua non fa male a nessuno: un’altra delle convinzioni di mia madre. Invece della risposta, la serratura scattò e la porta si aprì. Mi girai a guardare giù per le scale pregando di vedere William avvicinarsi, ma no: ero ancora sola. Feci un respiro, afferrai la bottiglia che avevo preso prima ed entrai. L’idratazione per la vittoria.

    La nostra cliente, Deborah Bell (o meglio, la futura signora Washington), una bellissima ragazza nera con i capelli raccolti in uno chignon, era seduta sul pavimento della stanzetta, infagottata in un abito bianco e vaporoso. Era costato cinquemila dollari, come ormai sapevo bene, dato che ce lo aveva ripetuto fino allo sfinimento durante gli ultimi dieci mesi di preparativi. Provai a non pensarci mentre andavo, in fretta ma non troppo, verso di lei. («Mai correre a un matrimonio a meno che la vita di qualcuno non sia letteralmente in pericolo!», sentii nella mia testa le parole di mia madre). Avevo appena stappato la bottiglia quando mi resi conto che stava piangendo.

    «Oh, non farlo». Lentamente, mi inginocchiai in quella che speravo fosse una posizione accovacciata ma professionale e tirai fuori dalla tasca un pacchetto di fazzoletti. «Il tuo trucco è fantastico. Lasciamolo così com’è, okay?».

    Deborah, con una ciglia finta quasi staccata – alcune bugie sono necessarie – mi guardò sorpresa e versò altre lacrime sul viso già rigato. «Posso chiederti una cosa?».

    No, pensai. Ora i minuti di ritardo erano nove. Ad alta voce dissi: «Certamente».

    Fece un respiro vibrante, di quelli che si fanno solo dopo aver pianto tanto e a lungo. «Tu…». Fece una pausa mentre altre lacrime si formavano e cadevano giù portandosi dietro le ciglia posticce. «Tu credi che il vero amore possa davvero durare per sempre?».

    Qualcuno stava salendo le scale. Tuttavia, dal rumore – passi lunghi e goffi abbinati alla giusta quantità di affanno che già si riusciva a sentire – capii che non era William. «Il vero amore?»

    «Sì». Alzò la mano – Oddio, no!, pensai. Ma era troppo tardi per fermarla – e si stropicciò un occhio spalmandosi l’eyeliner fin sulla tempia. I passi diventarono più rumorosi; chiunque fosse, presto sarebbe stato qui. Intanto, Deborah mi guardava con gli occhi spalancati e supplichevoli, come se qualsiasi cosa stesse per accadere dipendesse interamente dalla mia risposta. «Ci credi?».

    Sapevo che voleva un sì o un no, qualcosa di breve e preciso, e se si fosse trattato di una qualsiasi altra domanda probabilmente avrei potuto risponderle così. E invece rimasi seduta lì, in silenzio, cercando di esprimere a parole l’immagine che avevo in mente: un ragazzo che ride su una spiaggia buia, la camicia bianca, la mano tesa verso di me.

    «Deborah Rachelle Bell!». Sentii una voce rimbombare alle nostre spalle. Un attimo dopo comparve suo padre, il reverendo Elijah Bell, riempiendo interamente lo spazio della porta. Aveva un abito stretto, il colletto della camicia sbottonato e un fazzoletto in mano, che premette subito sulla fronte sudata. «Che diamine state facendo? Giù la gente sta aspettando!».

    «Mi dispiace, papà», disse Deborah in tono lamentoso; e a quel punto vidi William salire le scale. Ma scomparve subito dalla vista, nascosto dalla circonferenza della vita del reverendo. «Avevo solo paura».

    «Bene, ricomponiti», le disse il padre entrando. Chiaramente senza fiato, fece una pausa prima di continuare: «Per questo matrimonio ho speso trentamila dollari non rimborsabili e guadagnati con grande fatica. Se adesso non scendi e attraversi quella navata, lo sposerò io, Lucas».

    Qui, Deborah scoppiò di nuovo in lacrime. Mentre io allungai una mano per darle affettuosi ma inutili colpetti sulla spalla, William riuscì a farsi largo, a superare il reverendo e ad avvicinarsi a noi. Calmo come sempre, non guardò me: aveva occhi solo per la sposa e si chinò per parlarle nell’orecchio. Lei sussurrò una risposta e lui iniziò a fare lenti movimenti circolari con la mano sulla sua schiena, come si fa con i bambini agitati.

    Non riuscii a sentire ciò che si dicevano, sentivo solo il reverendo che stava ancora prendendo fiato. Poi si udì il rumore di altri passi su per le scale: molto probabilmente erano le damigelle d’onore, i testimoni dello sposo e altri curiosi.

    Sembrava che a tutti piacesse prendere parte alla storia. Lo avrei capito una volta, ma adesso non più.

    Qualsiasi cosa William le avesse detto, Deborah sorrideva, sebbene lievemente. Ma era sufficiente; si lasciò sollevare per il gomito. Mentre lei abbassava lo sguardo sul suo vestito stropicciato e ne stirava le pieghe, lui andò verso il corridoio invitandola a scendere. Un attimo dopo, comparve la truccatrice con in mano l’astuccio dei cosmetici.

    «Okay, concediamo un attimo a Deborah per darsi una ritoccata», annunciò William proprio quando, difatti, prima una damigella e poi un’altra fecero capolino. «Reverendo, può andare a dire a tutti di prendere posto? Saremo giù tra un paio di minuti».

    «Lo spero proprio», disse il reverendo dandogli uno spintone per passare e sparpagliando le damigelle in uno sprazzo di lavanda. «Perché non salirò di nuovo queste scale».

    «Saremo proprio qui fuori», disse William a Deborah facendomi cenno di seguirlo. Gli andai dietro e chiusi la porta.

    «Mi dispiace», dissi subito. «Non era nelle mie capacità».

    «Sei stata brava», mi disse prendendo il cellulare. Persino da lontano capii che stava mandando un messaggio in codice a mia madre che garantiva rapidità e privacy. Un istante dopo, sentii la vibrazione quando lei rispose. Lui esaminò lo schermo e poi disse: «La gente è curiosa ma le congetture sono al minimo, almeno per ora. Andrà bene. Abbiamo la scusa delle ciglia».

    Guardai l’orologio. «Per riattaccare le ciglia ci vogliono quindici minuti?»

    «Può volerci un’ora, per quanto ne sappiano».

    Stirò una grinza sui pantaloni che non si vedeva neppure e sistemò il cravattino rosso. «Non avrei dovuto etichettarla come una fifona. Dimostra quanto ne so».

    «Cosa ti ha detto lì dentro?», gli chiesi.

    Ascoltava i rumori al di là della porta, attento, lo sapevo, a distinguere il suono di un pianto da quello della sistemazione del trucco. Dopo un istante, disse: «Ah, mi ha chiesto del vero amore. Se io ci credo e se dura. Le tipiche cose che si chiedono prima della cerimonia».

    «Tu cos’hai detto?».

    Mi guardò con un’espressione distaccata e sicura di sé, che rendeva, lui e mia madre, la miglior squadra di tutta Lakeview nel settore dei matrimoni. «Le ho detto certamente. Che non avrei potuto fare questo lavoro se non ci avessi creduto. Che l’amore è l’unica cosa che conta».

    Wow, pensai. «Lo pensi davvero?».

    Trasalì. «Oh, Dio, no».

    Proprio in quel momento, la porta si aprì e rivelò Deborah: il trucco sistemato, le ciglia al loro posto e il vestito in apparenza perfetto. Ci fece un sorriso nervoso, e sebbene ricambiai ero più cosciente di William, che aveva un sorriso radioso, che della mia espressione.

    «Sei bellissima», le disse. «Diamoci da fare».

    Le offrì la mano e lei la prese, lasciandosi guidare giù per le scale. Seguì la truccatrice che singhiozzava un po’ troppo forte e poi rimasi sola.

    Mia madre era nell’atrio della chiesa a posizionare le ultime cose per la cerimonia: aggiustare nastri e risvolti, rendere i bouquet vaporosi e raddrizzare i fiori all’occhiello. Mi girai a guardare nel vestibolo, dove era rimasto soltanto un mucchio di fazzoletti appallottolati. Li raccolsi in fretta chiedendomi quante altre spose si fossero sentite allo stesso modo in quel posto… in bilico tra il presente e il futuro… non ancora pronte a fare il salto. Potevo capirlo, ma solo fino a un certo punto. Perlomeno arrivavano a fare quella scelta autonomamente. Quando invece la scelta ti era imposta… be’, quello era davvero un motivo per cui piangere. A ogni modo, la musica dell’organo iniziò a diffondersi: che la festa avesse inizio. Chiusi la porta e scesi di sotto.

    Mia madre prese il suo bicchiere di vino. «Io dico sette anni. Il tempo necessario per avere un paio di bambini e una relazione extraconiugale».

    «Interessante», rispose William tenendo in alto il suo bicchiere ed esaminandolo per un istante. Poi disse: «Gli do tre anni. Niente figli, ma una separazione amichevole».

    «Tu credi?»

    «Ho solo avuto questa sensazione. Ti fai prendere così tanto dall’ansia e poi mi chiedi del vero amore?».

    Mia madre valutò la sua risposta, poi disse: «Hai ragione. Vincerai tu stavolta… Alla salute!».

    Fecero tintinnare i calici, si sedettero e fecero un sorso con solennità. Alla fine di ogni matrimonio, dopo che gli sposi erano andati via e tutti gli ospiti si erano dispersi tra le loro case e gli hotel, William e mia madre celebravano un ultimo rituale: bevevano un ultimo bicchierino, ricapitolavano l’evento e facevano scommesse sul matrimonio. L’accuratezza con cui preannunciavano sia i risultati che la durata era fuori dal comune. E, per essere sinceri, un po’ inquietante.

    Eppure, per me la vera prova era il momento della partenza: c’era qualcosa di significativo nell’istante in cui tutti si radunavano per salutare gli sposi che andavano via. Non era come durante la cerimonia, quando la gente era nervosa e nascondeva le cose, o durante il ricevimento, che di solito era abbastanza caotico da rendere confusi i dettagli. Con la partenza, alle spalle gli sposi si lasciavano mesi di preparativi e davanti a loro c’erano anni da trascorrere insieme. Perciò, ritenevo importante guardare i loro volti con molta attenzione, prendere atto della stanchezza, delle lacrime e degli accenni di irritazione. Più che fare scommesse, esprimevo un desiderio: mi era sempre piaciuto il lieto fine.

    I clienti non l’avrebbero mai saputo. Era il finale segreto di ciò che nella città di Lakeview era conosciuto come il matrimonio in stile Natalie Barrett, un’esperienza di così grande valore per i neofidanzati che, per essere presi in considerazione, gli si chiedeva di mettersi in lista d’attesa e sborsare una grossa somma. I prezzi di mia madre e William potevano essere alti, ma non venivano mai meno alle aspettative e i risultati del loro lavoro erano concentrati in quattro grossi album di cuoio goffrato, che tenevano nel salotto del loro ufficio. Erano pieni zeppi di foto di sposi raggianti che celebravano le nozze in tutti i modi possibili: sulla spiaggia a piedi nudi; sul lago, vestiti con abiti eleganti; nelle cantine; sulla cima di una montagna; nei loro cortili (favolosi, allestiti per l’occasione). C’erano feste nuziali enormi e altre piccole e intime. Molti vestiti erano bianchi, svolazzanti e con lo strascico, altri avevano colori e tagli diversi (indizio, avevo scoperto, di secondi e terzi matrimoni). La differenza tra un matrimonio normale e uno in stile Natalie Barrett era come quella tra un negozio di animali e un circo: un matrimonio era solo due persone che si sposavano; un matrimonio in stile Natalie Barrett era un’esperienza.

    Il matrimonio di Deborah Bell – era politica aziendale riferirsi a tutti gli eventi pianificati con il nome della sposa, dato che era il suo giorno – fu una cosa d’ordinaria amministrazione per noi. Il rito venne celebrato in chiesa e il ricevimento nella sala da ballo di un hotel lì vicino. C’erano cinque damigelle e cinque testimoni, un ragazzino che portava gli anelli e una bimba per i fiori. L’aver scelto una band che si esibisse dal vivo era una cosa sempre più rara (mia madre preferiva ingaggiare un

    DJ

    : meno erano le persone con cui litigare, meglio era) e lo stesso valeva per la cena servita dai camerieri (negli ultimi anni erano di moda l’angolo della carne, i buffet e il bancone dei dolci). La serata si era conclusa con i fuochi d’artificio, una richiesta sempre più popolare che aggiungeva qualche problemino di autorizzazione ma era letteralmente un finale col botto per la spesa del cliente. Nonostante le sceneggiate di prima, Deborah si era precipitata verso la limousine stringendo forte la mano di suo marito, eccitata, felice e con un grande sorriso. Si baciarono appena la porta fu chiusa alle loro spalle, per quanto ovviamente il reverendo non approvasse – anche se alla fine, quando gli sposi si allontanarono in macchina, si dovette tamponare gli occhi per fermare le lacrime, mentre sua moglie gli dava affettuose pacche sul braccio. Buona fortuna, pensai, mentre i fanali posteriori scomparivano alla vista. Che possiate sempre darvi una risposta alle domande più importanti.

    E poi il matrimonio finì, per loro, almeno. Non per noi. Innanzitutto, c’erano la ricapitolazione e le scommesse e poi anche un’ispezione finale per vedere se ci fossero oggetti smarriti, regali di nozze fuori posto e ospiti svenuti o, ehm… diversamente occupati (ne sareste sorpresi, io lo ero sempre). Poi riempivamo le macchine con le tavolette portablocco e i raccoglitori, l’occorrente da rammendo, nastro biadesivo, scatole di fazzolettini, prese multiple di scorta, caricabatterie, e Xanax (proprio così) e tornavamo a casa. Di solito avevamo esattamente un giorno per riprenderci, dopo di che eravamo di nuovo davanti all’enorme lavagna bianca di mia madre dove lei disegnava un grosso cerchio sul prossimo matrimonio e si ricominciava da capo.

    A parte il modo in cui mia madre e William scherzavano – spesso – amavano quel lavoro. Si trattava di una passione per loro ed erano bravi. Quella era stata la circostanza in cui, molto tempo prima, avevo deciso di essere troppo grande per lavorare con loro durante l’estate. Da bambina, coloravo dietro la gigantesca scrivania di mia madre mentre lei faceva riunioni con spose in ansia per la lista degli invitati e per la disposizione dei posti a sedere. Adesso, sedevo con loro, il blocchetto sulle gambe (con la rilegatura in pelle su cui era inciso

    NATALIE BARRETT MATRIMONI

    , ovviamente) e prendevo appunti. Quella transizione era prevista da sempre: era praticamente inevitabile. I matrimoni erano l’attività di famiglia e io ero l’unica famiglia che avesse mia madre. E se contiamo anche William, lo eravamo davvero, una famiglia.

    Si erano conosciuti sedici anni prima, quando io avevo due anni e mio padre ci aveva appena piantate in asso. In quel periodo, i miei genitori vivevano in una capanna in mezzo ai boschi a circa sedici chilometri da Lakeview. Lì allevavano i polli, curavano un orto e costruivano candele con cera d’api che vendevano al mercato contadino locale durante il fine settimana. Mio papà, che aveva solo ventidue anni, aveva la barba folta, di rado indossava le scarpe e stava lavorando a un opuscolo di poesie a tema ecologico, iniziato molto prima del mio concepimento. Mia mamma, di un anno più giovane, era completamente vegana, la sera faceva la cameriera nel bar di una cooperativa biologica nelle vicinanze e costruiva braccialetti di corda benedetti con l’energia della terra per arrotondare. Si erano conosciuti al college, durante una protesta contro il sistema dell’istruzione pubblica che, a quanto pareva, era oppressivo, misogino, sfruttava gli animali ed era malvagio. Questo era ciò che, testualmente, citava un volantino che avevo trovato in una scatola in fondo all’armadio di mia madre in cui c’erano le uniche cose che, oltre a me, aveva conservato di quel periodo. Al suo interno, oltre al volantino, c’erano una candela di cera d’api piuttosto brutta, una catenella di corda, l’anello del suo matrimonio (che si era svolto nel fango durante un festival musicale all’aperto ed era stato ufficiato da un loro amico che aveva firmato un certificato di matrimonio, anche quello era compreso, solo con Evviva il Re!) e una sola fotografia dei miei genitori, entrambi a piedi nudi e abbronzati, in un giardino con dei rastrelli in mano. Io ero seduta per terra vicino ai piedi di mia madre, intenta a esaminare una foglia di cavolo cappuccio, completamente nuda. Il mio nome, molto originale, è la commistione dei loro: Natalie e Louis. Il mio nome è Louna.

    La scatola nell’armadio che custodiva quelle cose era piccola per appartenere a qualcuno che un tempo aveva avuto ideali così grandi, e quel pensiero mi rendeva sempre un po’ triste. Comunque, mia madre ripensava a quel periodo solo quando i clienti si domandavano, ad alta voce, se valesse davvero la pena spendere un’indecente somma di denaro per il matrimonio dei loro sogni. «Be’, il mio matrimonio è stato celebrato in una pozza di fango da una persona sotto l’effetto di funghetti allucinogeni», diceva. «E penso che questo sia stato la nostra condanna sin dall’inizio. Ma questo vale per me». Poi faceva una pausa per un istante o due e dava ai clienti abbastanza tempo per provare a immaginarsi Natalie Barrett – con i suoi vestiti costosi e di sartoria, i capelli e il trucco perfetti e gli orecchini, l’anello e la collana di diamanti onnipresenti – come una sudicia hippie in un matrimonio infelice. Non riuscivano a immaginarselo, ma comunque non gli impediva di firmare a occhi chiusi il contratto per essere sicuri di non andare incontro allo stesso destino. La prudenza non è mai troppa.

    In verità, il motivo per cui finì il matrimonio dei miei genitori non fu la pozza di fango o l’ufficiante, ma mio padre. Dopo tre anni passati nel bosco a fare candele e a scrivere le sue poesie (mia madre sosteneva di non averlo mai visto prendere in mano carta e penna) era stanco di lottare. Non era una sorpresa. Cresciuto a San Francisco da un padre che possedeva più di una dozzina di concessionarie di auto di lusso, non era proprio il tipo che poteva vivere delle risorse della terra, a lungo andare. Fin da quando lui e la mamma si erano scambiati le promesse matrimoniali, suo padre gli aveva detto che se l’avesse lasciata – e, perciò, anche la bambina – avrebbe avuto la concessionaria della Porsche tutta per sé. Mia mamma era già convinta che il commercio fosse responsabile di tutti i mali della vita. Quando il suo vero amore accettò l’offerta, la cosa divenne personale. Tre anni dopo, disaffezionato da noi ormai da un pezzo, morì in un incidente d’auto. Non ricordo se mia madre abbia pianto o persino se abbia avuto una reazione, sebbene, in qualche maniera, deve averla avuta. Io no. Non si può sentire la mancanza di qualcuno che non si è mai conosciuto.

    E io conoscevo solo e soltanto mia madre. Non solo somigliavo a lei – stessi lineamenti, capelli scuri, pelle olivastra – ma a volte avevo la sensazione che fossimo la stessa persona. Principalmente, perché era stata rinnegata dai suoi stessi genitori opulenti e anziani nel periodo del matrimonio nella pozza di fango… perciò, c’eravamo soltanto noi. Dopo che mio padre ci aveva abbandonate, lei vendette la capanna e ci trasferimmo a Lakeview dove, dopo aver vagato da un ristorante all’altro, trovò un posto nel reparto cancelleria della Linens, Etc., la catena di articoli per la casa. All’apparenza, sembrava uno strano accoppiamento: era difficile trovare una convenzione sociale più commerciale dei matrimoni. Ma lei aveva una bambina da nutrire e, nella sua vita precedente, mia madre era stata una debuttante e aveva preso lezioni di galateo al circolo ricreativo e sportivo. Quel mondo avrebbe potuto disgustarla, ma lei lo sapeva bene. In breve tempo, le spose avevano iniziato a chiederle consigli in materia di servizi di porcellana o argenteria.

    Ai tempi dell’assunzione di William, un anno dopo, mia mamma aveva un largo seguito. Quando lo ebbe istruito e gli ebbe insegnato tutto ciò che sapeva, divennero migliori amici. Sul retro del negozio, trascorrevano molte ore con le spose, le ascoltavano parlare – e spesso lamentarsi – dell’organizzazione dei loro matrimoni. Dopo aver imparato quali venditori erano affidabili e quali no, iniziarono a compilare elenchi di numeri per i fiorai del posto, le ditte di catering e i

    DJ

    da consigliare. La cosa si ampliò e diedero sempre più consigli su eventi specifici fino a organizzare interamente alcuni matrimoni. Nel frattempo, durante la pausa pranzo e le cene o le bevute dopo il lavoro, iniziarono a parlare di mettersi in proprio: con una società sulla carta e un prestito da parte della madre di William, erano in affari.

    Mia mamma aveva la quota del cinquantuno percento, William del quarantanove, perciò lei ebbe il nome scritto sulla porta. Ma, in pratica, le questioni legali finirono lì. Non importava se un certo matrimonio fosse una trincea, erano entrambi coinvolti. Realizzavano sogni, dicevano a se stessi e a chiunque li ascoltasse, e non avevano torto. Comunque, quell’abilità non sconfinò mai nella loro vita sentimentale. Mia mamma era a malapena uscita con qualcuno da quando lei e papà si erano lasciati e, quando lo faceva, era molto attenta a scegliere qualcuno che non sarebbe rimasto – per eliminare qualsiasi incertezza, per dirlo con le sue parole. Intanto William, che si era dichiarato sin dall’età di otto anni, non aveva ancora incontrato nessun uomo in grado di soddisfare i suoi rigorosi requisiti. Affrontava quella situazione tendendo verso scelte poco vicine ai suoi ideali e che non avevano il potenziale di una relazione di lunga durata. Il vero amore non esiste, sostenevano, sebbene i loro mezzi di sussistenza erano basati proprio su quell’illusione. E allora, perché sprecare del tempo a cercarlo? E poi, avevano l’un l’altra.

    Persino da bambina, sapevo che era anomalo. Ma, sfortunatamente, ero stata indottrinata sin dalla tenera età con le visioni dure, ciniche e così spesso ripetute di mia mamma e di William sul romanticismo, sul per sempre, sull’amore e altre parole chiave. Era a dir poco disorientante. Da un lato, vivevo e respiravo il sogno del matrimonio, mi trascinavano in posti e cerimonie, ero al corrente degli incontri che riguardavano ogni tormentoso dettaglio, dalle partecipazioni alla decorazione della torta. Ma, lontano dai clienti e dal lavoro, c’era un continuo e ripetitivo commento su quanto fosse tutta una finzione, sul fatto che gli uomini per bene non esistevano e che si stava meglio da soli. Non c’era da meravigliarsi se, qualche anno prima, quando la mia migliore amica Jilly aveva iniziato a pensare solo ai ragazzi, io fossi restia a unirmi a lei. Ero una ragazzina di quattordici anni con lo stesso male di vivere di una donna divorziata nella sua amara mezza età e ripetevo come un mantra tutte le cose che avevo sentito più e più volte. «Be’, ti deluderà, perciò dovresti essere preparata», dicevo contrariata mentre lei messaggiava con qualche calciatore dal collo grosso. Oppure la mettevo in guardia: «Non dare via ciò che non sei pronta a perdere», quando lei valutava, con grande drammaticità, se confessare a un ragazzo che le piaceva. I miei coetanei flirtavano a coppie o in gruppo, ma io restavo in disparte, in senso figurato e letterale, ero la guastafeste sul finale delle commedie romantiche o dei ritornelli alla fine di una canzone d’amore. Dopotutto, avevo imparato dalla migliore. Non era colpa mia, ma questo non rendeva la situazione meno fastidiosa.

    Ma poi, l’estate scorsa, in una calda notte di agosto, tutto cambiò. All’improvviso ci ho creduto… almeno per un po’. Il risultato fu il cuore più spezzato che si possa immaginare e, a peggiorare tutto, la consapevolezza che non c’era nessuno a cui poter dare la colpa, se non a me stessa. Se solo fossi andata via… se avessi detto no due volte anziché solo una… se fossi tornata a casa, nel mio letto lasciandomi dietro quella distesa di stelle finché potevo. Oh, be’.

    Mia madre vuotò il calice e lo mise da parte. «È mezzanotte passata», notò dando un’occhiata all’orologio. «Siamo pronti?»

    «Facciamo un’ultima perlustrazione e poi saremo pronti», rispose William alzandosi in piedi e stirandosi l’abito. Di norma, per gli eventi ci vestivamo come se fossimo degli ospiti, ma ospiti decorosi. L’obiettivo era confondersi, ma non troppo. Come tutte le cose in quel lavoro: un delicato equilibrio. «Louna, tu va’ nell’ingresso e all’esterno. Io controllo qui e i bagni».

    Annuii e attraversai la sala da ballo dove ormai non c’era più nessuno eccetto alcuni camerieri che impilavano le sedie e che rimuovevano i bicchieri. La luce era intensa e, mentre camminavo, vidi petali di fiori e fazzoletti stropicciati sparsi sul pavimento e qua e là bicchieri e lattine di birra. Fuori, l’ingresso era deserto a parte alcuni ragazzi appoggiati alla porta mezzo aperta che fumavano il sigaro sotto il cartello

    VIETATO FUMARE

    .

    Proseguii verso l’ingresso principale, dove l’aria della notte era fresca. Anche il parcheggio era tranquillo, non c’era nessuno. O così pensai fin quando, mentre tornavo indietro, intravidi una delle damigelle di Deborah, una ragazza di colore, alta, con le trecce e un anellino al naso – Malika? Malina? – vicino a una fioriera. Aveva in mano un fazzoletto e si tamponava gli occhi, e io mi chiesi – e non era la prima volta – cos’era quella storia che i matrimoni rendevano tutto più commovente. Era come se le lacrime fossero contagiose.

    All’improvviso alzò lo sguardo e mi vide. Avevo un’espressione stupita e lei mi fece un sorriso triste scuotendo la testa: non aveva bisogno del mio aiuto. A volte si interveniva e altre no, e io avevo imparato quella differenza già da molto tempo. Ad alcune persone piace che la loro tristezza sia di dominio pubblico, ma la maggior parte preferisce piangere da sola. A meno che il mio lavoro non richiedesse di fare diversamente, le lasciavo fare.

    Capitolo 2

    «Sai», disse Jilly da dentro il mio armadio, «questo lavoro che fai spegne l’entusiasmo della vita sentimentale».

    «Lo dici sempre», le dissi.

    «E dico sempre sul serio». Ci fu un tonfo seguito dal rumore di qualcosa che cadeva. «Wow! Questo rosa è davvero senza spalline? Non è da te. Me lo provo. Crawford, dietrofront!».

    Guardai il suo fratellino di dieci anni, era seduto

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