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Shirley
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E-book308 pagine4 ore

Shirley

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Info su questo ebook

Al centro di questo avvincente romanzo troviamo due importanti figure del panorama letterario: la celebre Shirley Jackson, nota per il racconto La lotteria e per i romanzi L’incubo di Hill House e Abbiamo sempre vissuto nel castello, e suo marito, Stanley Edgar Hyman, critico letterario e professore del Bennington College. Quando un giovane dottorando e sua moglie incinta – Fred e Rose Nemser –, si trasferiscono a casa di Shirley e Stanley nell’autunno del 1964, non tardano a cadere preda del magnetico incantesimo esercitato dai loro ospiti brillanti e anticonformisti.

Mentre Fred è assorbito dai suoi impegni di insegnante, Rose stringe un’improbabile e turbolenta amicizia con l’enigmatica e imprevedibile Shirley. Incuriosita dall’esplosivo matrimonio degli Hyman e inesplicabilmente attratta dall’autrice, Rose intuisce comunque che qualcosa non va… qualcosa che ha a che fare con misteriose chiamate notturne e con l’inspiegabile scomparsa di una delle studentesse del campus. Denso di atmosfera e del fascino sinistro delle opere dell’autrice stessa, Shirley è un elegante thriller che ruota intorno a una delle più grandi autrici horror americane.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788831399579
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    Anteprima del libro

    Shirley - Susan Scarf Merrell

    1

    «I tuoi occhi sono verdi,» disse. Le passai il mio capo del lenzuolo e lei ne rimboccò con destrezza gli angoli, piegandoli una seconda volta per formare un quadrato ben teso, le dita nodose che svolgevano con rapidità un compito che io non avevo mai dovuto assolvere. A rifare i letti ero anche troppo brava ma, oh, il lusso di un secondo paio di lenzuola!

    «No, sono blu,» replicai.

    La porta dell’armadio si aprì docilmente per Shirley, signora di tutto il legno deformato di quell’eccentrica dimora. Ripose le lenzuola piegate e mi fece cenno di seguirla giù per l’angusta scala di servizio che portava in cucina. C’erano i piatti della colazione da fare. Lei li lavò, le mani arrossate dall’acqua insaponata. Io li asciugai. Poi, finalmente, rispose.

    «Invidia. È desiderare quello che hanno gli altri.»

    Be’, non aveva senso negare. Aggiunsi due piattini sbeccati alla pila sullo scaffale della credenza. Uno dei gatti neri, quello con la chiazza di pelo bianco sulla zampa, serpeggiò infastidito dietro le tazze, la coda tesa. Shirley svuotò il lavabo, spruzzando l’acqua che usciva dal rubinetto per eliminare gli ultimi residui di schiuma. «Io desidero solo quello che ho,» disse. «Ho esattamente ciò che voglio.» Si asciugò le mani con lo strofinaccio e si rinfilò la fede nuziale con una smorfia.

    «Sa chi ama,» commentai.

    Lei rise, come se avessi fatto un’affermazione molto arguta. Poi aggiunse: «Farò tutto il necessario per tenermi ciò che mi appartiene.»

    «Capisco.» Riuscivo quasi a vedere mia madre che aspettava oltre la recinzione del parco giochi quando ero una bambina, l’aria di chi si sentiva indesiderata – o indegna – mentre giocavo con i miei coetanei. Era l’amore a trattenerla lì? Non ne avevo idea. Faceva quel che era necessario, proprio come aveva appena detto Shirley. «Protegge ciò che è suo.»

    «Sì,» rispose lei con calma. «Esatto.» Indicò lo scatolone sul tavolo traballante della cucina. «L’ho portato giù per te. Cose per il bambino, tesori riesumati dalla soffitta. Puoi usare quello che vuoi.»

    Spiazzata, ma ansiosa di compiacerla, lo aprii. Dopo aver tirato fuori una palla di fogli di giornale stropicciati, dispiegai con cautela la carta sino a farne emergere una tazza per bambini. «Che carina!» Era facile mostrarsi entusiasta per quell’oggetto di solida porcellana, un coniglietto dagli occhi chiari dipinto su un lato. Un giorno, il figlio o la figlia che avrei messo al mondo avrebbe potuto stringere quella tazza tra le mani e non avrebbe mai saputo cosa significava vivere in un mondo senza ceramiche di Beatrix Potter, e guarda un po’, pigiato tra i piattini imballati, un maglione verde con un allegro orso polare dagli occhi a bottone cucito sul davanti. Sapevo già che il mio bambino sarebbe stato molto più fortunato di me.

    «Le tazze sono un regalo di mia madre.»

    «Una per ciascuno dei suoi figli?»

    «Ci avrebbe fatto comodo una mano per l’affitto, ma lei mandava porcellane e cucchiai d’argento. Tipico di Geraldine.»

    «Li adoro.» Il pensiero di una madre che elargiva doni come quelli mi lasciava senza fiato.

    «Abbiamo dovuto pagare i nostri figli a rate,» disse Shirley. «Non avevamo i soldi né per il medico né per l’ospedale. E lei mandava copertine. Per la culla che non potevamo permetterci. E vestiti da battesimo. Puoi immaginare quanto li gradisse Stanley.» La sua risata risuonò priva di allegria.

    Qualsiasi cosa Shirley avesse da recriminare a sua madre doveva essere niente rispetto a quello che era toccato a me, pensai. Se aveva voglia di darmeli, avrei accettato di buon grado le tazzine, i cucchiai d’argento, le copertine e i vestiti usati dai suoi quattro figli. Desideravo quegli oggetti, perché non avevo mai avuto niente. Tirai fuori un pezzo di giornale da una ciotola per i cereali, lo lisciai per bene e lo misi sul tavolo. «E questa chi è? Una studentessa scomparsa?»

    Shirley diede un’occhiata alla foto. «Oh cielo, sarà passata almeno una dozzina d’anni.»

    PAULA WELDEN SCOMPARSA DAL CAMPUS DA DOMENICA. ESTESA L’AREA DELLE RICERCHE. IL PADRE DELLA RAGAZZA È ARRIVATO DA STAMFORD. L’ULTIMA VOLTA CHE È STATA VISTA LA STUDENTESSA INDOSSAVA UN PARKA ROSSO, DEI BLUE JEANS E DELLE SCARPE DA TENNIS CON LA SUOLA ALTA.

    Diciotto, per la precisione. «Ti somiglia. Vero, Rose?»

    Un foro nella trama di un giorno qualunque e un nuovo punto in quella di un altro. Il mio sguardo vagò per la cucina, evitando di posarsi su Shirley: se fossi stata Paula Welden, avrei compiuto trentasei anni quella mattina di settembre. «L’hanno mai trovata?» Tutto a un tratto saperlo mi sembrava fondamentale. Non per via della nostra somiglianza; c’era qualcosa di più. Era importante, oh sì, era più importante di ogni altra cosa, poter credere che se una donna fosse stata in pericolo, ci sarebbe stato qualcuno a cercarla.

    Tremai, e sentii le pareti della cucina tremare con me come panni stesi a un filo che si agitavano in una giornata ventosa. Scostai una sedia traballante e mi sedetti. Non potei farne a meno.

    «L’hanno trovata, vero?»

    Shirley cominciò a scartare le altre tazze, allisciando una alla volta le pagine di giornale stropicciate. «No, mai. Ricordo che qualcuno pensava fosse scappata. Con un ragazzo. E l’operato della polizia locale fu sottoposto all’attento scrutinio dell’FBI.»

    Era una bella ragazza, i lisci capelli biondi che le sfioravano le spalle, il sorriso disinvolto. Proveniva dall’elegante cittadina di Stamford, in Connecticut – anni luce da South Philly – e suo padre era venuto fin lì per unirsi alle ricerche. Doveva averla amata. Se avessi visto la foto di Paula Welden senza sapere altro della sua sorte avrei voluto essere come lei.

    «Anch’io,» mormorò Shirley. Non ero sicura di aver parlato ad alta voce.

    «La conosceva?» chiesi.

    Un breve silenzio.

    Il gatto nero sul davanzale della finestra smise di leccarsi la zampa, la lingua che faceva capolino tra i minuscoli denti aguzzi. Anche la casa trattenne il respiro; nemmeno un’asse del pavimento osò scricchiolare. «Non l’ho mai incontrata,» disse infine Shirley, il tono leggero. «Nemmeno una volta.»

    Era una donna onesta, o così credevo. Ma può una persona che non fa altro che inventare storie essere dedita alla verità? Persino adesso la mia memoria torna a indugiare sugli eventi dell’anno che avevo trascorso in casa di Shirley Jackson, su ciò che avevo intuito a quel tempo e su quelli che ora so essere i fatti. Le circostanze reali hanno una luce peculiare, come macchie di sole sull’acqua o come il bagliore del ghiaccio su un masso erratico in un freddo pomeriggio del Vermont. Pensi di sapere dove ti trovi, sei sicura di ciò che hai vissuto, eppure, allo stesso tempo, sembra tutto un sogno.

    Forse perché così è più facile crederci.

    2

    Ma non è così che è cominciata. La mia storia inizia con una singola parola.

    Soldi.

    Vedete, non ne ho mai avuti, e sebbene Freddy fosse benestante per i miei standard – suo padre era proprietario di un piccolo negozio di dolciumi e la sua famiglia poteva permettersi tre pasti al giorno – non sapevamo niente della gente ricca salvo il poco che riuscivamo a carpire quando ci concedevamo il lusso di un pomeriggio al cinema. I miei non erano poveri in canna. Niente di così romantico. Eravamo dei poveri di città, il che significava che ero stata invisibile ogni singolo giorno della mia giovane vita. Invisibile per strada, a scuola, a casa. Invisibile, eccetto che nelle occasioni in cui i creditori si presentavano alla porta: il signor Hoffman della macelleria, Sam Rabinowitz il droghiere, la signora Schumann del negozio in cui mia madre rubava abitualmente la biancheria intima per me e mia sorella.

    Sì, aveva la mano lesta. Ma non era avida, e credo che i nostri vicini per lo più la rispettassero. D’altronde, in circostanze analoghe, quale altra madre non avrebbe sperato di saper tirar fuori una simile determinazione? La gente aveva lo stesso atteggiamento pragmatico anche nei confronti di mio padre. Certo, non era amato – forse temuto –, ma quando c’era bisogno dei suoi servizi, nessuno esitava più di tanto.

    A dispetto del modo in cui si arrabattavano per vivere, volevo bene ai miei genitori, ma non con la devota compassione filiale di Helen, mia sorella maggiore. Mi dispiaceva per lei. Quel che avevo sempre desiderato, dal momento in cui ero stata in grado di vedere la mia famiglia con chiarezza, era liberarmene. Non passava giorno senza che provassi due emozioni: paura e bramosia. Immagino fosse per questo che ero avida. Quando il cibo c’era, mangiavo troppo in fretta. Andavo a casa dei miei amici e desideravo i loro vestiti, i loro libri, gli abbracci delle loro madri. Non ero consapevole del mio senso di solitudine. Non pensavo esistesse un altro modo di vivere.

    Dopo il liceo, avevo lavorato come donna delle pulizie al Bellevue-Stratford, un hotel del centro abbastanza vicino alla stazione della metro di Broad Street da riuscire a essere lì subito dopo le lezioni alla Temple University. Passavo l’aspirapolvere, guardando sotto i letti in cerca di bottoni, calze dimenticate e spicci che consegnavo coscienziosamente al capo del personale. Mia madre guadagnava dieci dollari alla settimana, così non potevo far altro che restare nell’augusta cameretta che dividevo con mia sorella. Quando avevo comprato il mio primo paio di scarpe con i tacchi, avevo preso l’abitudine di portarmele dietro nello zaino per assicurarmi che nessun altro le prendesse in prestito. Un giorno sarei stata a capo di qualcosa, un negozio o una famiglia. Di una cosa qualsiasi. Sognavo decisioni ferme, inappuntabili nella loro correttezza.

    Nel frattempo, pulivo bagni e rifacevo letti. Tenevo gli occhi bassi. E, oh, leggevo ogni libro assegnatoci dal professore di letteratura, divorando tutto quel che potevo di Wharton, Dickens ed Elliot. Che vita conducevano le loro donne! E che scrittura! Districava la tragedia dalla vita di tutti i giorni, rendendola bellissima, elegante, degna. Come la Catherine Morland de L’abbazia di Northanger di Jane Austen, sapevo di essere un’eroina. Non c’era modo migliore di ripulire il lavandino dai capelli di uno sconosciuto che immaginare di essere una figura romantica su cui gravava il fardello di una complessa storia da dipanare…

    Avrei voluto seguire un corso di economia, ma la maggior parte delle ragazze di South Philly che conoscevo studiavano per diventare insegnanti, e quando ero andata a iscrivermi, la donna al banco mi aveva lanciato un’occhiataccia al di sopra degli occhiali da lettura e aveva commentato che scegliere economia era un espediente disonesto per trovare marito. Non potevo tollerare che quella grassa befana con il cardigan infeltrito si rendesse conto che mi sentivo meno femminile di lei. Indignata quasi al punto da star male, mi iscrissi a Letteratura.

    Ma Fred era l’assistente alla cattedra del corso sul romanzo inglese del XXI secolo, e venne fuori che quella astuta era la signora Feldman della segreteria.

    Ovviamente, lo conoscevo già. Avevamo frequentato scuole vicine. Tutti sapevano chi fossero i gemelli Nemser: il fratello di Fred, Lou, aveva vinto una gara di scrittura ed era stato assunto alla sezione di cronaca nera del Philadelphia Examiner appena finito il liceo, e Fred era l’editor di una rivista letteraria underground. Erano entrambi alti, magri e molto seri. Non proprio ribelli, ma capaci di sostenere una discussione. Le ragazze avevano un debole per Lou. Quando non ero che un’umile studentessa di seconda media e loro la facevano da padroni all’angolo di strada fuori dal negozio del padre, Lou era stato al centro delle mie fantasie. Dubito che mi avesse mai notata. Poi eravamo stati sfrattati dal nostro appartamento – l’ennesimo padrone di casa stufo di aspettare che pagassimo l’affitto – ed eravamo andati a vivere con il cugino di mio padre a Germantown, e io avevo cambiato scuola per la seconda volta. Ci eravamo trasferiti altre due volte prima della fine del mio terzo anno. Solo quando mio padre era andato via per sempre, io, mia madre e mia sorella eravamo riuscite a mettere radici in un posto.

    La prima volta che ero andata nel suo ufficio, Fred mi aveva accompagnato allo Stratford facendomi arrivare al lavoro con una buona mezz’ora di ritardo.

    Ora che frequentavo il college ed era il mio insegnante, mi rendevo conto che era lui il più bello dei due fratelli: più riservato, col naso più sottile, i denti un po’ storti, e quegli occhi dalle palpebre pesanti così insistenti nel loro interesse. Le sue dita dalla punta arrotondata avevano sfogliato il mio primo compito, una dissertazione sul punto di vista dell’autrice in Orgoglio e pregiudizio, e avevo avuto l’impressione che persino i fogli su cui avevo riversato la mia scrittura infantile apparissero belli mentre tormentava con l’unghia del pollice il bordo delle pagine, producendo un clic, clic, clic, e si complimentava dicendo che avevo un dono naturale per la critica letteraria. Voleva che riscrivessi le conclusioni del saggio, tracciando un parallelismo più netto tra la predisposizione all’autoconsapevolezza di Elizabeth Bennet e la narrazione intrusiva della Austen. Avevo annuito con entusiasmo, sentendo i capelli rimbalzare sulle spalle (andavo fiera della mia chioma liscia e bionda, un’anomalia non solo all’interno del ghetto ebraico di South Philly ma anche della mia famiglia), felice della approvazione.

    Doveva fare la mia stessa strada, aveva detto. E quando avevo spiegato che non stavo andando a casa, ma al lavoro allo Stratford, era arrossito. «Non importa,» aveva ribattuto. Sempre che a me non desse fastidio la sua compagnia.

    Non me ne dava.

    Avevamo tagliato per il campus, cercando di evitare la neve sporca che si ostinava ad accumularsi sui sentieri spalati di fresco, il ghiaccio che scricchiolava sotto i nostri stivali. Il mio cappotto blu scuro, quello che avevo ereditato dalla datrice di lavoro di mia sorella, era a malapena necessario. Il calore tra noi era imbarazzante, una nudità esibita in pubblico. A onor del vero, Fred aveva continuato a parlare, raccontando del suo interesse per il folklore e le canzoni popolari, della sua tesi, degli attestati di stima che aveva ricevuto da parte dei dipartimenti d’Inglese di università lontane come Syracuse e prestigiose come Harvard. Quando ci eravamo ritrovati a passare di fronte al club della facoltà, si era fermato a salutare il professor Bricklen, l’insegnante di scrittura creativa con cui avevo fatto lezione il semestre precedente. «Questa è Rose,» aveva detto. «Rose Klein.»

    In quel momento avevo quasi desiderato di essere invisibile. «Rose Klein, sì.» Il professore Bricklen mi aveva squadrato dalla testa ai piedi. Era uno di quegli uomini corpulenti con gli occhi porcini sepolti sotto le pieghe della fronte e delle guance, eppure il suo sguardo era stato feroce. «Ha frequentato il mio corso introduttivo, professor Nemser.» Io gli avevo tenuto testa, sostenendo silenziosamente il suo sguardo con quello che speravo sembrasse orgoglio, se non proprio aria di sfida. Certo che si ricordava di me. Era il classico tipo che ricordava le donne meglio di chiunque altro. «Spero solo che la sua etica del lavoro sia migliorata.»

    Fred mi aveva presa per un gomito. «Questa è la mia amica Rose.»

    Col senno di poi, sospetto che quello fu l’istante in cui avevamo superato barcollanti il confine dell’amore. Avevamo proseguito a passo regolare lungo Broad Street per mezzo isolato prima che mi venisse in mente di ringraziarlo. Ma non lo avevo fatto. Avevo finto che non fosse successo niente, e anche lui. Non gli avevo mai rivelato che al professor Bricklen piaceva che le studentesse si sedessero sulle sue cosce grasse mentre valutava i loro lavori. Avevo lasciato credere a Fred che Bricklen mi reputasse mediocre piuttosto che testarda.

    Cinque mesi dopo eravamo sposati. E io ero incinta di Natalie, anche se non lo sapevo ancora. Due mesi più tardi, ci trovavamo a North Bennington, in Vermont, in procinto di passare la nostra prima notte con Stanley Edgar Hyman e sua moglie, la romanziera Shirley Jackson, nella loro immensa e disordinata casa piena di libri e figli, in fondo alla collina sulla quale si ergeva il campus del Bennington College.

    Era una questione di soldi, perché adesso che avevo diciannove anni ed ero incinta ne avevamo bisogno. Era una questione di soldi, perché il dipartimento di Stanley era pronto ad assumere Fred, nonostante non avesse ancora discusso la tesi. Era una questione di soldi, perché il denaro era il nutrimento che mi era sempre stato negato e che sempre avrei bramato.

    Oh, perché mentire? Il denaro era quello che nella mia ignoranza pensavo di volere. Ma ovviamente si è sempre trattato d’amore.

    * * *

    Sapevo chi fosse Shirley, e avevo letto alcuni degli articoli e dei racconti che aveva pubblicato sul Ladies’ Home Journal e su altre riviste. Sapevo che la reputavano una strega, che aveva una nidiata di figli, ed ero convinta che fosse alta e magra e che avesse un senso dell’umorismo pungente e un taglio di capelli alla moda. Ero agitata durante il viaggio in treno, mentre cercavo di concentrarmi su un suo romanzo che avevo preso alla biblioteca della Temple University, un libro su una casa stregata e una stramba ragazza di nome Eleanor che andava a viverci. Eleanor detestava sua sorella, quello lo avevo capito, ma non riuscivo in alcun modo a identificarmi con il personaggio. Non aveva il minimo istinto di conservazione. Come potevo provare rispetto per una ragazza del genere? L’altro personaggio femminile, Theodora, era stramba in modo diverso, chiassosa e diretta, il genere di donna che metteva in imbarazzo chiunque le stesse intorno.

    La storia mi aveva dato il mal di testa. Ogni volta che chiudevo il libro, la frase iniziale irrompeva nei miei pensieri, oscura e irritante: «Nessun organismo vivente può mantenersi sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni».

    «Ma che significa?» domandai a Fred, spingendo il libro aperto sui fogli che aveva in grembo. Lui diede un’occhiata alle prime righe, scosse la testa, e recuperò il suo dattiloscritto, avvicinando le pagine al viso come se all’improvviso fosse diventato presbite.

    «Non ha senso,» ribadii con ostinazione.

    «Be’, non perdere tempo a scervellarti. Potrai chiederlo direttamente a lei quando saremo lì.»

    Buffo, a ripensarci. Non avevo mai confidato a mio marito quanto trovassi entusiasmante quell’avventura, quanto fossi elettrizzata all’idea d’incontrare una scrittrice famosa, di essere sua ospite. Nella mia mente, non stavo solo facendo un viaggio con Fred, ma alla volta di Shirley. Sì… un viaggio con Fred alla volta di Shirley. Come se sapessi già il peso che lei avrebbe avuto nella mia vita.

    Il vagone del treno era rumoroso e pieno di fumo, e Fred scribacchiava note a matita sui margini del dattiloscritto che voleva mostrare al professor Hyman, sospirando in un modo che non aiutava affatto la mia concentrazione.

    Gli diedi una pacca sul braccio. «Andrà bene,» dissi.

    Lui passò alla pagina successiva.

    «Fred. Fred, tesoro. Te la caverai.»

    «Non adesso,» rispose. Annotò qualcosa a bordo pagina, premendo il foglio sul ginocchio sollevato per avere una superficie più stabile.

    «Fred?» dissi. «E se non dovessi piacerle? Se pensasse che sono...» Lui mi prese la mano senza nemmeno alzare lo sguardo dal suo lavoro.

    «Tu piaci a tutti,» replicò in tono assente. Chiaramente doveva aver dimenticato quello che aveva borbottato sua madre quando avevamo annunciato che ci saremmo sposati. Trovati una ragazza migliore, Freddy. Qualcuno di cui essere fiero. Se davvero le piacevo, doveva ancora dimostrarlo.

    Guardai fuori dal finestrino. Dinanzi a me un sobbalzare di campi, le mucche pigre e i trattori arrugginiti come unico conforto in quell’infinita distesa di gambi di granturco ammassati di sbieco ora che l’estate volgeva al termine. Faceva caldo come a Philadelphia, ma l’afa era più densa e opprimente, come se le spore delle piante saturassero l’aria, restando invischiate ai finestrini aperti al nostro passaggio. Non sentivo la presenza dell’essere che cresceva nel mio ventre. Avevo a stento cognizione di me stessa, il ritmo del mio respiro un riecheggiare incerto di quello del treno. Eppure quella seconda vita avrebbe fatto sì che contassi qualcosa; avrebbe avuto bisogni che potevo soddisfare, conferito volume e peso alla mia presenza quasi insignificante. Appoggiai la testa al sedile, provai ancora una volta a chiudere gli occhi, ma fu inutile. I campi coltivati richiamavano la mia attenzione, confondendosi l’uno con l’altro mentre il tempo stesso si riduceva a una poltiglia informe finché, finalmente, non giungemmo alla stazione ferroviaria di North Bennington con un gran clamore di freni. Mio marito raccolse i fogli alla rinfusa, afferrò la nostra nuova valigia e con sollecitudine aiutò la sua neosposa a scendere dal treno.

    «Fred Nemser! Fred Nemser!» Stanley ci aspettava sulla banchina coperta della stazione, al riparo dal sole. Che tipo straordinario era! Basso, pingue e stempiato, con un sorriso a trentadue denti, gli occhiali e l’aria stropicciata. La perfetta sintesi di ogni singolo cliché sugli accademici, eppure c’era qualcosa di stranamente affascinante in lui. Persino adesso faccio fatica a spiegare cosa, so solo che quando mi aveva guardata avevo avuto la sensazione che mi vedesse davvero. E nel momento stesso in cui mi aveva vista, mi ero sentita degna.

    «E questa dev’essere la stimabile Rose. Benvenuti a Bennington! Venite a conoscere Shirley e il resto della famiglia.» Si caricò la nostra valigia sulla spalla grassoccia e ci scortò per un lungo tratto di strada, sino a una piccola piazza. Girammo a sinistra, inerpicandoci su per la collina, tutti ricoperti da una patina scintillante di sudore. Durante il tragitto, Stanley parlò delle lezioni che Fred avrebbe tenuto al posto suo. A quanto pareva, Shirley era stata poco bene, e lui sperava di alleggerirsi di parte delle sue responsabilità lavorative condividendo le mansioni richieste dal suo corso sul folklore. «È il corso più importante del college,» disse in tono piatto, come facevano gli uomini che fingevano di non dare peso a ciò di cui andavano più fieri.

    «Posso occuparmi delle ballate,» propose Fred.

    «Ho letto la bozza della tua tesi. Notevole. Ci sono delle intuizioni interessanti su Frazer e Il ramo d’oro, ma ti sono sfuggiti alcuni dei legami tra la canzone popolare e la mitologia popolare. Discuteremo sul da farsi.»

    «Grazie.»

    «Non c’è bisogno che mi ringrazi! È un piacere trovare un giovane con inclinazioni così nobili. Sei già un membro della fratellanza. Il nostro non è un lavoro adatto a chi è privo di coraggio. Ignora gli spiritual dei neri a tuo rischio e pericolo, amico mio! Ti farò leggere alcuni dei miei lavori sul jazz e il blues. Dovresti essere in grado di gestire tutto quel che concerne la musicologia.»

    Stanley era senza fiato. Fred diede un colpetto alla nostra valigia come per togliergliela dalla spalla sudata, ma era troppo tardi. «Eccoci,» annunciò il nostro ospite girando a sinistra, su un sentiero fiancheggiato da due siepi incolte di ligustro.

    Che casa. Un’enorme facciata che torreggiava imponente sulla proprietà, quattro colonne bianche schierate su un portico cadente. Le persiane dipinte, ma non di fresco. Biciclette rovesciate sui cespugli. Barattoli di ogni dimensione (impolverati, alcuni con

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