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Senza nessun segreto
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E-book368 pagine5 ore

Senza nessun segreto

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Info su questo ebook

Bestseller del New York Times e di USA Today

Autrice bestseller del New York Times

Un normale giorno di shopping sta per trasformarsi in un incubo per Skye Sedgewick. A un passo dalla sua macchina nel parcheggio viene rapita e narcotizzata. Poco dopo sembra arrivata la sua fine: lo sconosciuto la costringe a inginocchiarsi e le tiene puntata una pistola alla tempia. Skye aspetta che parta il colpo mentre recita la preghiera che l’aiutava a dormire da bambina, ma riceve solo un fortissimo colpo alla testa che la tramortisce. Al suo risveglio, l’incubo è ancora al suo fianco, ha i lineamenti scolpiti e uno sguardo impenetrabile. Chi è quest’uomo e perché le è così familiare? Questo è solo l’inizio di una storia sconvolgente, una tempesta di emozioni violente e di sentimenti che travolgono il lettore sin dalle prime pagine. Un romanzo d’amore epico, oscuro e indimenticabile.

Una storia d’amore epica
Un successo del passaparola

Bestseller del New York Times e di USA Today

«Una scrittura potente e al tempo stesso raffinata sono gli ingredienti di questo magnifico romanzo.» 

«Prosa deliziosa e trama intrigante, questo romanzo mi ha rapita sin dalla prima pagina.» 

«Ricco di suspense, avvincente. Una lettura splendida.»
Leylah Attar
È autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today». Scrive storie d’amore turbolente, e nei suoi romanzi non manca mai un colpo di scena finale.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2017
ISBN9788822709936
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    Anteprima del libro

    Senza nessun segreto - Leylah Attar

    1674

    Titolo originale: The Paper Swan

    Copyright © 2015 by Leylah Attar

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Marta Lanfranco

    Prima edizione ebook: luglio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0993-6

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Leylah Attar

    Senza nessun segreto

    Newton Compton editori

    Indice

    Parte prima Skye

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Parte seconda Esteban

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Parte terza Skye

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Parte quarta Damian

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Parte quinta Skye

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Epilogo

    Parte prima

    Skye

    Capitolo 1

    Era il giorno perfetto per indossare delle Louboutin. Non avevo programmato di morire sui tacchi a spillo, ma se proprio dovevo essere uccisa da qualche pazzo psicopatico assetato di sangue, almeno sarei caduta a terra con un paio di scarpe dalle suole rosse, che avrebbero urlato al mio assassino: «Fottiti!».

    Già, fottiti, stronzo, per avermi trasformato nella vittima di un crimine senza senso. Fottiti per non avere avuto nemmeno il coraggio di mostrarmi il tuo viso prima di farmi saltare il cervello. Fottiti per le fascette che mi stringono così tanto i polsi da tagliarmi la pelle e farmi sanguinare. Ma soprattutto, fottiti perché nessuna bionda vuole morire il giorno del proprio ventiquattresimo compleanno, dopo essere appena stata dal parrucchiere, avere fatto una manicure perfetta, al rientro da un appuntamento con quello che potrebbe essere l’uomo giusto.

    Avevo stabilito che la mia vita sarebbe stata una serie di successi: laurea, matrimonio, una casa degna di finire sulla copertina delle riviste, due bellissimi bambini. Eppure eccomi qui, in ginocchio, con un sacco di iuta in testa e la fredda canna di una pistola puntata alla base del cranio. La cosa peggiore, però, era ignorare cosa mi stesse succedendo, perché stessi per morire. Ma, in fondo, come possono avere senso assassinio, violenza, tortura e abusi di vario genere, anche se dietro c’è una ragione? Siamo davvero in grado di comprendere a fondo il perché, o semplicemente abbiamo bisogno di etichettare ogni cosa che è fuori dal nostro controllo?

    Arricchimento.

    Disordine mentale.

    Estremismo.

    Odio nei riguardi delle stronze dalle unghie finte.

    Qual era il movente del mio assassino?

    Basta, Skye. Non sei ancora morta. Continua a respirare. Pensa. Pensa.

    L’odore acre della tela di iuta mi riempì le narici, mentre la barca oscillava nell’acqua.

    Che fai, Skye?. Le parole di Esteban mi risuonarono nella testa come un campanello.

    "Combatto.

    Combatto con tutta me stessa".

    Mi sfuggì una risata triste.

    Avevo cercato di allontanare Esteban per così tanto tempo, eppure eccolo lì, dentro la mia testa, nel momento meno indicato, a minare la mia coscienza come quando mi osservava dalla finestra della mia camera.

    Ricordai di avere fatto un quiz on-line quella mattina:

    A chi pensi prima di dormire?.

    Click.

    È la persona che ami di più al mondo.

    Io penso ad Armani, Jimmy Choo, Calvin Klein e Christian Dior. Non a Esteban. Mai a Esteban. A differenza degli amici d’infanzia, gli stilisti rimangono per tutta la vita. Mi seducono, mi regalano le loro scintillanti creazioni e, quando vado a letto, so che il giorno dopo saranno ancora lì per me. Quella mattina non sapevo se scegliere le sensuali Louboutin fucsia con lacci di seta alle caviglie o quelle dorate tagliate con il laser. Ero contenta di avere optato per queste ultime. Avevano dei tacchi a spillo molto appuntiti. M’immaginai il titolo in prima pagina: L’assassina delle scarpe.

    Sotto ci sarebbe stata la foto del mio assalitore morto con un tacco laccato in oro conficcato nel petto.

    Sì, sarebbe andata proprio così, dissi a me stessa.

    Respira, Skye. Respira.

    Ma l’aria dentro al mio cappuccio era pesante e sapeva di muffa e i miei polmoni stavano per abbandonarmi in preda a una terribile paura. Tutto questo stava accadendo. Era reale.

    Quando hai vissuto una vita meravigliosa, subentra qualcosa che ha lo scopo di proteggerti dallo shock, una specie di senso di autorità, come se anche di questo si dovesse tener conto. Mi aggrappai a quella sensazione di fiducia e sicurezza. Ero amata, stimata, importante. Di sicuro qualcuno sarebbe venuto a salvarmi, giusto? Giusto?

    Udii scattare il grilletto della pistola, sentii la canna ferma premere sulla mia nuca.

    «Aspetta!». La gola mi bruciava, ma quando mi ero ritrovata legata come un maiale nel baule della mia auto avevo comunque urlato a squarciagola. Ero certa che si trattasse della mia auto perché sapeva di tuberosa e sandalo, il profumo che vi avevo versato qualche settimana prima.

    Mi aveva catturata nel parcheggio, mentre stavo per salire sulla mia cabriolet azzurra; mi aveva spinta e sbattuta a faccia in giù e, poi, mi aveva messo il cappuccio. Avevo pensato che mi avrebbe rubato la borsa, il portafoglio, le chiavi e l’auto. Forse si tratta di un istinto di protezione: si pensa a quello che si vorrebbe che avvenisse.

    Prendi tutto quel che vuoi e vattene.

    Ma non è quello che è accaduto. Non voleva né la borsa, né il portafoglio, né le chiavi, né l’auto. Voleva me.

    Si dice che sia meglio urlare Al fuoco! piuttosto che Aiuto!, ma io non avevo potuto pronunciare una sola parola, perché ero stata quasi soffocata con uno straccio zuppo di cloroformio che qualcuno mi aveva premuto contro il naso e la bocca. A differenza di quanto si pensa, il cloroformio non ti fa svenire subito, almeno non come avviene al cinema. Avevo scalciato e lottato per quella che a me era parsa un’eternità prima che le mie braccia e le mie gambe si intorpidissero, prima che piombassi nell’oscurità.

    Non avrei dovuto gridare quando ero rinvenuta. Non avrei dovuto cercare la leva del baule né spingere in fuori le luci dei freni né fare qualcosa che i giornalisti vogliono sentirsi dire quando intervistano la vittima di un crimine. Ma è impossibile non farsi prendere dal panico. È una stronza che urla, si agita e vuole scappare.

    Il mio rapitore era fuori di sé. Me n’ero accorta non appena aveva aperto il baule. Ero rimasta accecata dalla fredda luce del lampione alle sue spalle, ma quello l’avevo percepito. Così, per farmi capire chi comandava, mi aveva trascinato fuori dalla macchina, tirandomi per i capelli, e mi aveva tappato la bocca con lo straccio imbevuto di cloroformio.

    Perciò, quando mi aveva spinta sul molo, ero imbavagliata con le mani legate dietro la schiena. Il dolce e pungente odore del cloroformio non era più così efficace, ma era riuscito comunque a intontirmi. Stavo per soffocare nel mio stesso vomito, quando aveva gettato a terra lo straccio per tapparmi la testa con il sacco di iuta. Non urlavo più. Avrebbe potuto freddarmi in qualsiasi momento, invece mi voleva viva, almeno finché non avesse ottenuto quello che desiderava. Perché mi aveva rapita? Voleva violentarmi? Mantenermi in cattività? Chiedere un riscatto? Nella mia mente scorrevano orrende immagini di telegiornali e quotidiani. Quando mi ci imbattevo per sbaglio, provavo un indiscutibile moto di compassione per le vittime, ma non dovevo fare altro che cambiare canale oppure voltare pagina per scacciare l’orrore.

    Purtroppo ora non potevo farlo. Potevo convincermi che si trattava soltanto di un incubo piuttosto realistico, ma il mio scalpo, nei punti in cui mi aveva strappato i capelli, pulsava orribilmente. Il dolore però era positivo, perché mi faceva sentire viva. E finché sarei stata viva, ci sarebbe stata una speranza.

    «Aspetta», dissi quando mi obbligò a inginocchiarmi. «Non so cosa tu voglia, ma, per favore… non uccidermi».

    Mi sbagliavo. Non mi voleva viva. Non mi avrebbe rinchiusa da qualche parte e non avrebbe richiesto un riscatto. Non mi avrebbe strappato i vestiti di dosso, né avrebbe tratto piacere vedendomi soffrire. Aveva semplicemente voluto portarmi in questo posto, ovunque questo posto si trovasse. Era qui che voleva uccidermi, e non avrebbe perso altro tempo.

    «Ti prego», lo implorai. «Lasciami guardare il cielo un’ultima volta».

    Dovevo guadagnare tempo per escogitare una via di fuga. E se invece la mia fine era giunta, non volevo morire nell’oscurità, soffocata dalla paura e dalla disperazione. Volevo poter respirare liberamente un’ultima volta, sentire l’odore dell’oceano e della brezza marina. Desideravo chiudere gli occhi e far finta che fosse domenica pomeriggio e che io fossi una bambina senza denti, intenta a raccogliere le conchiglie con MaMaLu.

    Ci fu un momento di sospensione. Non sapevo che voce avesse il mio rapitore, né come fosse il suo volto; non mi ero fatta alcuna idea sul suo conto. Per me era soltanto un’oscura presenza che mi minacciava come un cobra gigante, pronto a colpirmi alle spalle.

    Trattenni il fiato.

    Alzò il cappuccio e la brezza notturna sferzò il mio viso. Gli occhi c’impiegarono un po’ ad adeguarsi alla nuova situazione e a individuare la luna. Eccola là, perfetta, una falce argentata, la stessa luna che ero abituata a guardare da piccola prima di addormentarmi, mentre ascoltavo le storie di MaMaLu.

    «Tu sei nata in un giorno con nuvole cariche di pioggia», mi diceva la mia tata accarezzandomi i capelli. «Ci aspettavamo una tempesta, invece alla fine il sole è apparso nel cielo. Tua madre, affacciata alla finestra, notò per la prima volta le pagliuzze dorate nei tuoi occhi grigi. Avevano il colore del cielo di quel giorno. Per questo ti hanno chiamata Skye, amorcito».

    Erano anni che non pensavo a mia madre. Non avevo molti ricordi, perché era morta quando ero solo una bambina. Non so perché mi venne in mente proprio in quel momento. Forse perché presto l’avrei raggiunta.

    A quel pensiero, le mie budella si attorcigliarono. Mi domandai se avrei visto mia madre dall’altra parte. Mi sarebbe venuta incontro, come sostengono le persone alla televisione, quelli che dicono di essere stati nell’aldilà? Mi chiesi se ci fosse davvero un aldilà.

    Riuscii a scorgere le luci tremolanti dei condomini antistanti il porto, dei lampioni che costeggiavano la strada disegnando un serpente rosso lungo la costa. Ci trovavamo da qualche parte nella marina della baia di San Diego. Pensai a mio padre, che avevo convinto a non preoccuparsi per me, a lasciarmi finalmente respirare e vivere. Ero figlia unica e lui aveva già perso mia madre.

    Mi domandai se stesse cenando nel patio affacciato sulla calma baia di La Jolla. Era diventato bravo a bere il vino rosso senza sporcarsi i baffi. Beveva dal labbro inferiore, inclinando leggermente la testa. Mi sarebbero mancati i suoi folti baffi grigi, anche se protestavo ogni volta che mi dava un bacio. Tre volte sulle guance. Sinistra, destra, sinistra. Sempre. Sia quando scendevo per fare colazione sia quando stavo per partire per un viaggio dall’altra parte del mondo. Avevo armadi pieni di scarpe firmate, di borse e accessori, ma questo era ciò che mi sarebbe mancato di più. I tre baci ispidi di Warren Sedgewick.

    «Mio padre ti darà qualsiasi cosa tu voglia», dissi. «Non farà storie». Lo stavo implorando, stavo contrattando per avere salva la vita. È naturale quando si sta per morire.

    Non ricevetti alcuna risposta, a parte una spinta che mi costrinse ad abbassare la testa.

    Il mio assassino sapeva il fatto suo. Mi aveva fatto inginocchiare su un enorme telone che copriva la barca quasi per intero. Gli angoli erano assicurati con delle corde. Vidi chiaramente il mio corpo morto mentre veniva arrotolato e gettato da qualche parte in mezzo all’oceano.

    La mia mente si ribellò a quell’immagine, ma il mio cuore… il mio cuore sapeva.

    «Signore, benedici la mia anima e vigila su papà, MaMaLu ed Esteban». Era la preghiera che da piccola recitavo sempre prima di andare a letto. Da molti anni avevo smesso di recitarla, eppure quelle parole si formarono spontaneamente e caddero una alla volta dalle mie labbra come piccole perle portatrici di conforto.

    In quel momento realizzai che in fondo le ferite, i dispiaceri e le scuse non sono altro che apparizioni galleggianti, che vagano come fantasmi pallidi di fronte alle persone che amiamo e che, a loro volta, ci amano. Alla fine la mia vita si riduceva a tre baci e tre volti: mio padre, la mia tata e suo figlio. Gli ultimi due non li vedevo da quando insieme avevamo percorso per l’ultima volta l’arido vialetto polveroso di Casa Paloma.

    Chi sono le ultime persone a cui pensi prima di morire?.

    Chiusi gli occhi, in attesa di quel click che inevitabilmente mi avrebbe portato alla fredda morte.

    Quelle sono le persone che ami di più al mondo.

    Capitolo 2

    Era buio, dannatamente buio. L’oscurità era quasi surreale… profonda, immobile e immensa. Ero come sospesa nel vuoto, una particella di consapevolezza senza mani, né piedi, né capelli, né labbra. Mi sentivo pervasa da una strana sensazione di pace, malgrado il pulsare sordo che andava e veniva. Mi colpiva a ondate sempre più forti, sempre più penetranti, finché si trasformava in uno schianto, in un martellare incessante.

    Dolore.

    Sbattei le palpebre, ma mi accorsi che gli occhi erano già aperti. Non c’era nulla intorno a me, nulla sopra né sotto… soltanto dolore, che pulsava nella mia testa. Sbattei di nuovo le palpebre. Una, due, tre volte. Niente. Nessuna sagoma, nessun’ombra, nessuna forma indistinta. Soltanto l’assoluto, fagocitante buio.

    Di colpo mi raddrizzai.

    Nella mia mente.

    In realtà non accadde nulla. Era come se il mio cervello fosse separato dal resto del corpo. Non ero in grado di percepire le braccia, le gambe, la lingua, le dita. Però riuscivo a sentire. Cristo santo, riuscivo a sentire, anche se alle mie orecchie giungeva un unico suono: quello del mio cuore che batteva all’impazzata, come se volesse uscire dal petto. Ogni doloroso battito veniva amplificato nella mia testa, come se tutti i miei nervi terminassero lì, in una pulsante pozza di sangue.

    "Riesci a sentire.

    Riesci a respirare.

    Forse hai perso la vista, ma sei viva.

    No.

    No!!!

    Preferisco morire piuttosto che essere in suo potere.

    Che diavolo mi ha fatto?

    Dove mi trovo?".

    Mi ero preparata a ricevere il proiettile, ma dopo la mia preghiera c’era stato silenzio. Aveva afferrato una ciocca dei miei capelli e l’aveva accarezzata delicatamente, quasi con deferenza. Poi mi aveva colpito con la canna della pistola, un colpo secco che mi aveva spaccato il cranio, o almeno quella era stata l’impressione. Lo skyline di San Diego aveva tremolato e piano piano era stato divorato da buchi neri.

    «Non ti ho dato il permesso di parlare», mi aveva detto, mentre crollavo a terra. La mia faccia colpì il ponte in modo violento e rapido, ma a me parve che la scena si svolgesse al rallentatore.

    Di sfuggita vidi le sue scarpe prima di chiudere gli occhi.

    Morbide scarpe in pelle prodotte in Italia.

    Conoscevo le scarpe, in giro non se ne vedevano molte di quel genere.

    Perché non ha premuto il grilletto?, mi domandai mentre perdevo i sensi.

    Non so dire quanto rimasi incosciente. Quell’unica domanda rimase lì, sospesa, come un drago in una grotta che si rifiuta di muoversi, ma che è pronto a sputare il fuoco di tutte le mostruose possibilità che sono peggiori della morte.

    Perché non ha premuto il grilletto?.

    Forse aveva intenzione di tenermi al buio, drogata, legata accanto a sé.

    Forse voleva farmi a pezzi e vendere i miei organi.

    Forse mi aveva già aperta ed era soltanto questione di tempo: l’anestesia avrebbe smesso di fare effetto.

    Forse pensava di avermi ucciso, invece mi aveva sepolta viva.

    A ogni nuovo scenario, il dolore si trasformava in terrore e, lasciatemelo dire, il terrore è più infido del panico. Il terrore ti annienta.

    Mi sentii risucchiata nella sua gola profonda.

    Annusai il terrore.

    Respirai il terrore.

    Il terrore mi stava divorando viva.

    Sapevo che il mio assalitore mi aveva somministrato qualcosa, ma ignoravo se la paralisi sarebbe stata temporanea oppure permanente.

    Non sapevo se mi avrebbe violentata, picchiata oppure orribilmente mutilata.

    Non sapevo se lo volessi scoprire.

    Non sapevo se sarebbe tornato.

    Se sì, non sapevo se questo, qualunque fosse il maledetto stato in cui mi trovavo, fosse da preferire, perché più sicuro, più facile da affrontare.

    Il terrore era onnipresente nel labirinto della mia mente, ma c’era un posto in cui non avrebbe mai potuto raggiungermi, un luogo in cui sarei stata salva. Cercai quell’angolo nella mia testa e chiusi fuori il mondo esterno, concentrandomi sulla ninnananna di MaMaLu.

    Non era esattamente una ninnananna. Era piuttosto una canzone che parlava di banditi armati, paura e pericolo, ma il modo in cui MaMaLu la cantava, dolce e melodioso, riusciva sempre a calmarmi. La cantava in spagnolo, ma ricordo perfettamente il significato delle parole.

    Dalla Sierra Morena,

    cielito lindo,

    vengono giù

    un paio di occhi neri,

    cielito lindo,

    sono banditi…

    Mi rividi sdraiata su un’amaca, il cielo sopra di me, Esteban che ogni tanto mi spingeva con sguardo assente, mentre MaMaLu cantava, appendendo i panni ad asciugare. Quei sonnellini pomeridiani nel giardino di Casa Paloma, con la mia tata e suo figlio, erano i miei primi ricordi.

    I colibrì volavano tra gli ibisco rossi e gialli e la buganvillea, che fioriva rigogliosa e selvaggia.

    Ahi, ahi, ahi, ahi,

    canta e non piangere,

    perché il canto,

    cielito lindo,

    risolleva i cuori…

    MaMaLu cantava quando io o Esteban ci facevamo male. Cantava quando non riusciva a dormire. Cantava quando era felice e cantava quand’era triste.

    Canta y no llores.

    Canta e non piangere.

    Ma le lacrime sgorgarono lo stesso. Piansi perché non potevo cantare. Piansi perché la mia lingua non poteva articolare delle parole. Piansi perché MaMaLu, il cielo e i colibrì stavano sfidando l’oscurità. Piansi, aggrappandomi a loro, e lentamente il terrore svanì.

    Aprii gli occhi e respirai a fondo. Ero ancora avvolta nell’oscurità, ma ero cosciente di un movimento ondulatorio. Forse i miei sensi stavano cominciando di nuovo a funzionare. Provai a muovere le dita.

    "Per favore.

    Reagite.

    Muovetevi".

    Nulla.

    La mia testa continuava a martellare nel punto in cui ero stata colpita, ma oltre quel boom-boom-boom riuscivo a distinguere delle voci ed erano vicine.

    «Viene spesso a Ensenada?». Una voce di donna.

    Non udii la risposta, ma compresi che a parlare era un uomo. «…non sono mai stato fermato prima d’ora», stava dicendo.

    La voce del mio rapitore si fissò nel mio cervello insieme alle sue scarpe.

    «Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Si tratta soltanto di un normale controllo di routine al confine». La voce della donna stava svanendo. «Devo assicurarmi che il numero di serie della barca coincida con quello del motore».

    Il confine.

    Ensenada.

    Merda.

    Capii che cos’era il movimento ondulatorio. Ero ancora sulla barca, probabilmente sempre la stessa. Ci trovavamo a Ensenada, il porto d’ingresso al Messico, a circa settanta miglia a sud di San Diego, e con ogni probabilità la donna era un ufficiale di dogana.

    Il mio cuore riprese a palpitare.

    Eccola. La tua occasione di fuga, Skye. Attira la sua attenzione. Devi assolutamente attirare la sua attenzione!.

    Urlai e urlai, ma senza emettere alcun suono. La sostanza che avevo in corpo mi aveva paralizzato le corde vocali.

    Udii dei passi provenire da sopra di me, il che mi fece intuire che quasi certamente mi trovavo nel magazzino sottocoperta.

    «Devo verificare la sua identità. Lei è Damien Caballero?», domandò la donna.

    «Damian», la corresse lui.

    «Be’, pare che sia tutto a posto. Mi appunto il suo numero d’identificazione e poi la lascio andare».

    No! La mia occasione mi stava scivolando tra le dita.

    Non riuscivo a scalciare né a urlare, ma scoprii di poter rotolare, perciò questo è ciò che feci. Sinistra, destra, sinistra, destra. Oscillai sempre più forte, sempre più velocemente, ignorando se stessi urtando qualcosa, ignorando se ciò mi sarebbe stato di alcun aiuto. Alla sesta o settima volta, udii qualcosa grattare sopra di me, come se del legno stesse sfregando contro dell’altro legno.

    Oh, ti prego! Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego.

    Insistetti con tutte le mie forze, anche se la testa cominciava a girarmi.

    Qualcosa si ruppe. Un colpo secco. E improvvisamente non fu più buio.

    «Che cos’è stato?», domandò la donna.

    «Io non ho sentito nulla».

    «Mi è parso che provenisse da sotto. Le dispiace se do un’occhiata?».

    Sì!.

    «Che cosa tiene lì sotto?». La sua voce era sempre più chiara.

    Era vicina.

    Davvero vicina.

    «Corde, catene, canne da pesca…».

    Iniziai a vedere delle deboli righe verticali a qualche centimetro dal mio viso.

    Sì. Posso vedere! I miei occhi stanno bene!.

    Udii una serratura scattare e poi la stanza fu inondata da una meravigliosa luce accecante, e per poco non scoppiai a piangere.

    Provai a concentrarmi sui buchi che lasciavano filtrare quella luce. Capii di essere intrappolata dentro una cassa di legno.

    La sagoma di un uomo apparve sulle scale, alle sue spalle un’altra figura.

    Sono qui.

    Ricominciai a rotolare con furia.

    «Pare che una delle sue casse sia caduta», dichiarò l’ufficiale della dogana.

    Sono stata io. Sono qui. Ti prego, trovami.

    «Già». Lo osservai avanzare verso di me. «Devo assicurarle meglio». Mise una gamba contro la mia cassa per bloccarla.

    Riuscivo a vedere la donna attraverso le fessure del coperchio, non tutta, solo le mani e il busto. Aveva in mano dei documenti e un walkie-talkie appeso alla cintura.

    "Sono qui.

    Solleva lo sguardo dai fogli. Vedrai la luce riflessa nei miei occhi.

    Ancora un passo e non potrai fare a meno di vedermi.

    Un solo stupido passo".

    «Ha bisogno di aiuto?», domandò, mentre l’uomo sollevava la cassa che ero riuscita a spostare per piazzarla di nuovo sopra di me.

    Sì! Aiuto! Aiutami, maledetta idiota!.

    «Già fatto», rispose lui. «Basterà dare un giro di corda. Ecco. Ora è assicurata alla perfezione».

    «Ha delle casse davvero grandi. Si aspetta una ricca pesca?». Udii i suoi passi sulle scale.

    No! Torna indietro. Mi dispiace di averti dato dell’idiota. Non lasciarmi. ti prego. non lasciarmi!.

    «A volte la pesca mi dà grandi soddisfazioni», rispose lui.

    Il compiacimento nella sua voce mi fece rabbrividire.

    Poi chiuse la porta e io ripiombai nella più completa, assoluta oscurità.

    Capitolo 3

    Stavo attraversando un tunnel di carta vetrata. Ogni volta che mi muovevo in avanti, la mia pelle sfregava contro la dura, secca superficie.

    Scratch, scratch, scratch.

    Il suono delle mie cellule epiteliali che venivano consumate strato dopo strato. Le mie ginocchia erano nude, la mia schiena era nuda, le mie spalle erano nude, ma riuscivo a sentire il calore del sole. Sapevo che, se avessi continuato ad allungare una mano verso quel calore, sarei stata in grado di venirne fuori. Mi portai più avanti e presto ebbi spazio sufficiente per alzarmi in piedi. C’era ghiaia intorno a me.

    I miei talloni sprofondarono nei ciottoli.

    Crunch, crunch, crunch.

    Continuai a camminare. Provavo dolore in ogni recesso del mio corpo, e tuttavia non smettevo di trascinarmi verso la luce. All’improvviso mi pervase, mi circondò, e io socchiusi gli occhi dinanzi a quel fulgore. Sbattei le palpebre e mi svegliai, emettendo un profondo respiro.

    Wow! Questo sì che era un incubo agghiacciante. Mi trovavo sana e salva nel mio letto, illuminato dal sole che penetrava dalla finestra. Sospirai e m’infilai completamente sotto la coperta. Un paio di minuti ancora e poi sarei scesa di sotto a ricevere i tre baci di mio padre, pronto per andare a lavorare. Non li avrei mai più dati per scontati.

    Crunch, crunch, crunch.

    Aggrottai le sopracciglia.

    Quel suono non avrebbe dovuto seguirmi nella realtà.

    Chiusi gli occhi.

    La coperta mi sembrò diversa, dura e ispida, non come il mio morbido, setoso piumone.

    La finestra, che avevo intravisto appena, era piccola e rotonda. Pareva l’oblò di una barca.

    E provavo dolore. Ora me ne accorgevo. Provavo dolore ovunque. La mia testa era pesante e la mia lingua attaccata al palato.

    Crunch, crunch, crunch.

    Sapevo che, qualunque cosa fosse, quel suono non prometteva nulla di buono. Proveniva da dietro di me e io ero cosciente che si trattava di qualcosa di malvagio, che mi avrebbe trascinato all’inferno.

    «Finalmente!», disse.

    Cazzo, cazzo, cazzo!

    Damian.

    Damian Tira-capelli, Sfonda-cranio, Induci-coma Caballero.

    In carne e ossa. Reale. Qui.

    Strizzai gli occhi più forte che potei. Ero sicura che mi sarebbe sfuggita una lacrima, ma gli occhi erano così asciutti che le mie palpebre parevano carta vetrata. Avevo l’impressione che tutto, dentro e fuori di me, fosse nudo e graffiato. Non c’era da stupirsi che io avessi sognato di essere in un tunnel di carta vetrata. Probabilmente ero disidratata. Chissà per quanto tempo ero rimasta incosciente. Chissà quali erano gli effetti collaterali della sostanza che mi era stata somministrata.

    «Che cosa… che cosa mi hai fatto?». La mia voce era strana, ma ero comunque grata di averla ancora. Lo stesso valeva per le mie braccia, per le mie gambe e per il resto del corpo. La testa mi faceva male, le ossa mi facevano male, ma ero ancora intera. Non avrei mai più odiato la mia pancia, il mio sedere, né la cellulite sulle mie cosce.

    Damian non rispose. Era dietro di me, fuori dalla mia portata, e continuava a fare quello stramaledetto rumore.

    Crunch, crunch, crunch.

    Incominciai a tremare, ma riuscii a soffocare in tempo il sussulto.

    Si trattava di una tortura psicologica: lui aveva il pieno potere e io ignoravo che cosa mi sarebbe accaduto, quando, dove e perché.

    Trasalii quando trascinò uno sgabello accanto a me. Aveva una ciotola con qualcosa di stufato dentro, un pezzo di pane che pareva fosse stato spezzato con le mani (nessun coltello, nessuna educazione) e una bottiglia d’acqua. Il mio stomaco brontolò alla vista del cibo. Avevo l’impressione di non mangiare da giorni, perciò, malgrado il mio unico desiderio fosse quello di sputargli addosso, morivo di fame. Sollevai la testa, ma la abbassai quasi subito. Il movimento, combinato al beccheggiare della barca, mi fece girare la testa, confondendomi. Provai di nuovo, questa volta più lentamente, a sollevarmi sui gomiti, per poi mettermi a sedere.

    Crunch, crunch, crunch.

    Che diavolo era?

    «Non mi girerei se fossi in te», disse.

    Interessante. Non voleva che lo vedessi in faccia. Se aveva intenzione di uccidermi, perché preoccuparsene? Il suo comportamento aveva senso soltanto se non voleva che io fossi in grado di identificarlo.

    Mi voltai. Tutto cominciò a girare intorno a me e divenne sfocato, ma io mi voltai lo stesso. Forse ero una pazza incosciente, ma volevo vedere il suo volto. Volevo memorizzarne ogni dettaglio, in modo da poterlo incastrare, se ne avessi avuto l’occasione. E se mi

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