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Primordia. Lo squarcio del Velo
Primordia. Lo squarcio del Velo
Primordia. Lo squarcio del Velo
E-book316 pagine4 ore

Primordia. Lo squarcio del Velo

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Info su questo ebook

Un luogo oltre le soglie di un Velo: Primòrdia. Primòrdia e Umània, due mondi specchiati in una ricerca, quella dell’unità in una metafora esistenziale: il ricongiungimento al cuore. Il freddo è il preludio di una porta verso finestre magiche e labirinti-prigioni. Un passo nella neve per cominciare incredibili avventure in tre universi: Àdlivun, Nova Caeli e la Selva. Gli elementi primordiali - acqua, terra, aria e fuoco - vengo impiantati nei Capostipiti salvatori dei due mondi. Un manoscritto, il Leggendario Libro dell’Etere racchiude tutti i segreti, le più incredibili verità, incantesimi oscuri e manipolativi. Creature fantastiche si intrecciano in destini che si sciolgono solo verso la conclusione in concitate battaglie e rivelazioni senza un domani…

Eleonora Zanotto è nata a Milano, 16 marzo 1986.
Attualmente vive a Dumenza con il marito Jonathan e la figlia Alba. Sin dalla più tenera età coltiva una grande immaginazione ed eredita dal padre la passione per la scrittura. La sua morte la segna nel profondo, facendola cadere in una forte depressione. Dopo un passato burrascoso la sua rivincita è nella sua grandiosa fantasia, nel presentare il suo libro esordio: PRIMÒRDIA, Lo squarcio del Velo.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830679139
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    Anteprima del libro

    Primordia. Lo squarcio del Velo - Eleonora Zanotto

    cover01.jpg

    Eleonora Zanotto

    PRIMÒRDIA

    Lo squarcio del Velo

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7433-2

    I edizione febbraio 2023

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    PRIMÒRDIA

    Lo squarcio del Velo

    Dedicato a mia figlia Alba

    Andrà tutto bene.

    E. Z.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il professore Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London Canino e le vite dei santi.

    Una Vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    CAPITOLO 1

    Una rapina per gli addii

    Mi chiamo Abigail Wiccan e ciò che sto per raccontarvi cambierà completamente la vostra percezione della realtà.

    Mio padre morì in quello che tutti i giornali dell’epoca definirono una "semplice rapina finita male" e posso assicurarvi che così non fu. Io purtroppo c’ero, ero lì e anche se avevo solo sette anni, vi garantisco che la verità era ben lontana dalla scontata semplicità. La sera in cui gli tolsero la vita, fu la prima di una lunga lista di omicidi che si scatenarono in città, tutti nello stesso periodo dell’anno e tutti nelle medesime circostanze: il corpo dello sfortunato veniva trovato in una pozza di sangue.

    Il suo omicidio mi portò a soffrire di ansia e frequenti attacchi di panico. Non scorderò mai quella sera.

    Ancora riesco a sentire il profumo che aveva il locale di papà: il Wiccan’s Magic.

    L’aroma di caffè e brioche del mattino, il profumo più intenso dei cocktails e degli stuzzichini che emanava il forno la sera. Potevo sentirne il profumo già dall’ingresso, poi, una volta entrata dalla massiccia porta in rovere, venivo catturata da un’ondata di altre fragranze, finché non prendevo uno sgabello e mi accomodavo al bancone. Lì venivo rapita definitivamente dalla simpatia e cordialità di papà, ma quella volta, il locale si svuotò presto e rimanemmo solo noi due, quando verso l’ora di chiusura, entrò qualcuno. Papà mi aveva appena fatto un regalo che porto ancora con me. Andai dietro al bancone sorseggiando il mio amato frappè alla fragola e mi sedetti per terra appoggiandomi ai frigoriferi.

    «Buonasera…» mio padre lo salutò con il solito tono gentile ed allegro.

    «Ciao Patrick, ti ricordi di me?» un odore di bruciato e sandalo aleggiava attorno a quest’ultimo cliente.

    «Che cosa vuoi?» il suo tono cambiò di colpo quando capì con chi avesse a che fare.

    I due non sembravano essere amici, ma era chiaro che si conoscessero e che tra loro non corresse buon sangue.

    «Lo sai perché sono qui Patrick».

    «…».

    L’ultimo cliente cominciò a farneticare qualcosa di incomprensibile per me, ma non per papà.

    «Lei sta arrivando…» parlava molto veloce, troppo veloce.

    «Hellionor non può nascondersi per sempre! Lei la troverà e si riprenderà ciò che le appartiene, lo sai questo, Patrick?» la voce era sicura e ammaliante. Il suo profumo esotico, caldo e avvolgente di sandalo, si mischiava con l’odore di legno bruciato inondandomi le narici.

    «Tutto quel potere, quella magia, non è sua lo capisci Pat? Deve restituire ciò che ha preso» la voce era allegra come se fosse tutto uno scherzo.

    «É stato un incidente e tu lo sai!» la collera nella voce di papà si fece sempre più intensa e lui diventò paonazzo in viso.

    «La ucciderà Pat» il tono diventò serio e grave.

    «Non posso permetterglielo!» papà scese la pedana in gomma nera con una mazza da baseball che teneva nascosta sotto il bancone.

    «Uh, fai proprio sul serio!!!» lo schernì l’ultimo cliente. Papà ruotò le sue grandi spalle all’indietro e si scrocchiò il collo: «Non sai quanto!» sentii che picchiettava la mazza sul palmo dell’altra mano. «Non credo che finirà bene per te Pat, ma se mi consegni Hellionor e il Libro io potrei, come dire, fare un’eccezione e lasciarti andare» s’interruppe per un momento per far risuonare lo scrocchio delle dita. «Voi luridi umani vivete comunque con le gambe rotte? Beh, immagino che lo scopriremo presto» al suono di quelle parole frenai uno spasmo di stupore.

    I toni si facevano sempre più accesi e papà mi fece cenno di rimanere lì sotto al bancone e di non muovermi. «Andrà tutto bene vedrai» mi bisbigliò senza farsi vedere, poi mi sorrise di sfuggita. I suoi occhi appannati dalle lacrime mi offrirono una brutta sensazione.

    Ci fu una colluttazione; da quello che riuscivo a sentire, sembrava che si stessero picchiando, ma io non mi alzai mai per guardare: papà mi aveva detto di non farlo ed io non lo feci. Obbedii e rimasi lì in silenzio con la testa tra le ginocchia e le mani sulla nuca.

    «Non c’è regno nel quale lei possa fuggire al mio sguardo» la voce dell’ultimo cliente strabordava di egocentrismo e sfrontatezza, graffiante come gli artigli di un felino sulla preda. Sentii un tonfo, dopo il rumore della mazza da baseball che cadeva a terra. Il nulla subentrò nel locale appesantendone l’aria. Sentivo il battito del mio cuore farsi sempre più forte, quasi a sfondarmi il petto. Avevo paura che anche l’ultimo cliente riuscisse a sentirlo. Tirai su la testa. Mi affacciai dal lato del bancone e l’unica cosa che vidi fu il corpo senza vita di papà. Il suo cranio era spaccato e la ferita aveva la stessa forma della mazza da baseball che era di fianco a lui ricoperta di sangue. Le gambe avevano assunto una posizione innaturale, forse erano rotte. Portai entrambe le mani sulla bocca lasciando cadere il frappè. Mi si offuscò la vista dalla disperazione. Sbattei con rapidità le palpebre sperando di aver visto male. Trattenni il respiro mentre una morsa di dolore mi si strinse nel petto.

    Volevo alzarmi e andare da lui, ma avevo fatto una promessa a papà quindi rimasi lì ad aspettare, sola con l’ultimo cliente. Non potevo rischiare di farmi scoprire. Avevo paura, tremavo. Soffocai i gemiti di un pianto che, di lì a poco, sarebbe esploso rivelando così la mia presenza.

    «Mmh, mi sa che non sopravvivono con le gambe rotte» la sua voce era talmente vicina a me che mi si impregnarono i vestiti del suo odore.

    Infine, lo sentii mentre canticchiava il ritornello di una canzone che avevo sentito spesso passare in radio quando ero lì, poi la porta si aprì e si richiuse poco dopo. L’odore di bruciato e sandalo aleggiò nell’aria ancora per qualche minuto dopo la sua uscita finché una pozza di sangue e frappè alla fragola mi raggiunse.

    Passai la mia infanzia tra psicologi e psichiatri che assicuravano la mia completa ripresa, ma non fu così. La mia anima si era tagliata e la tragedia aveva lasciato un solco profondo su di essa. Poche cose riuscivano ad interessarmi e altrettante poche alleviavano la mia sofferenza. Una tra tante era il mio primo amore: la scrittura e l’altra il mio migliore amico Elias Gonzales. Ci conoscevamo sin dalla tenera età e mi fu accanto in ogni momento tragico della mia esistenza. Facemmo insieme tutte le scuole sin dall’asilo. Riusciva a farmi sorridere con quei suoi modi buffi e goffi, e aveva sempre una parola carina per me.

    Quando le parole non bastavano, lui mi si metteva accanto ad ammirare in silenzio il cielo di una limpida sera d’estate oppure a sorseggiare un tè caldo in un piovoso pomeriggio autunnale.

    Ora ho sedici anni. Fino a qualche tempo fa frequentavo la Hill City High School ed ero caporedattrice del giornale della scuola: il Goldenoir.

    Una delle mie più care amiche era Christina Tina Jackson. Io ed Elias la incontrammo quando avevamo all’incirca undici anni, durante una festa di compleanno di un amico in comune. La trovai subito interessante e spiritosa e quel momento sancì la nostra amicizia. Alla Hill City High School venne eletta rappresentante degli studenti e, oltre a questo, si occupava anche dell’organizzazione di tutti gli eventi extrascolastici. Chiunque avrebbe bisogno di un’amica come lei: comprensiva, disponibile, un vero angelo caduto dal cielo, ma con lo spirito combattivo di un guerriero.

    Lunghi capelli color caffè e pelle caramello, era di una bellezza estrema, ma tanto era umile da non rendersene conto.

    Riusciva persino a farmi piacere anche quella rompipalle di Sarah Miller che, da vera prima donna, non poteva che far parte della compagnia teatrale della scuola e anche di altri svariati corsi extrascolastici come: musical, coro, la banda della scuola eccetera, insomma tutto ciò che le permettesse di potersi esibire.

    Era la più bassa del gruppo e forse, proprio per questo, sapeva farsi valere con la sua inesauribile grinta, magari è una caratteristica delle rosse. Aveva lunghi ricci definiti con una cascata di boccoli rossi e degli occhi castani da cerbiatta, le guance morbide e leggere lentiggini sul naso. La pelle chiara le conferiva un aspetto etereo ed insieme alla sua voce era qualcosa di divino, tranne quando parlava, lì sembrava come un maglione di lana ispida sulla pelle nuda. La conobbi dopo la sua prima esibizione da solista e la intervistai per il Goldenoir.

    Alto, massiccio, una vera roccia. Elias era cresciuto tantissimo nel corso degli anni, non era più il bimbetto magrolino e goffo dell’asilo, ed io quasi non me n’ero accorta. Morbidi ricci castani gli cadevano sul viso ed un sorrisetto ammaliante, con fossette annesse, faceva impazzire ogni ragazza della scuola. Gli occhi scuri e pieni di gioia. La pelle dalle origini latine gli donava ancora più fascino. Con quel fisico atletico e muscoloso gli era presto stato offerto il ruolo di Quarterback negli Hornets, la squadra di football della scuola, rinomata per aver vinto vari campionati scolastici.

    E poi c’era lui, il solitario e misterioso Evan Wolf. Aveva un anno in più di me. Indossava sempre una giacca in pelle nera e lo si sentiva spesso suonare il violino sotto le scalinate degli spalti fuori da scuola. I capelli erano ribelli e mossi, lunghi fino agli zigomi, di un colore intenso e cupo come la notte. Gli cadevano dolcemente sul viso liscio e sbarbato, coprendo le sopracciglia perennemente aggrottate. I suoi occhi erano di un incantevole azzurro brillante, caratterizzati da sfumature e pagliuzze dorate. Lo sguardo magnetico e sprezzante di chi non ha paura di niente, mi aveva conquistata.

    Il destino fece la sua magia e i nostri mondi cambiarono per sempre quando ci incontrammo.

    Tu e soltanto tu sei l’unica persona che è riuscita a farmi vedere nuove sfumature di una vita passata in bianco e nero era solito ripetermi.

    Le cose però non cominciarono nel migliore dei modi tra noi, ma a lungo andare disinteresse reciproco si tramutò in qualcos’altro.

    Più di una volta i nostri occhi si incrociarono nei corridoi della scuola oppure tra la folla all’uscita e man mano che ciò accadeva, i nostri sguardi diventavano sempre meno duri e anche quel nomignolo che mi aveva appioppato Scheggia (soprannome che mi diede il giorno che mi ruppi il naso per la velocità che ebbi nel lasciare la palestra in tempo record) cominciava a darmi sempre meno fastidio.

    Iniziammo poco alla volta ad uscire insieme frequentandoci anche al di là della scuola.

    Passammo tanto tempo insieme restando anche notti intere a parlare. Lentamente imparammo molto l’uno dell’altra.

    Dopo alcuni mesi di frequentazione, Evan introdusse una nuova tradizione: quella di venire a prendermi per andare a scuola insieme. Per farlo era costretto ad alzarsi molto presto dato che abitava in una grande villa fuori dalla città di Hill City. Al contrario di tutti noi che eravamo nello stesso quartiere: io ed Elias eravamo vicini di casa, Tina viveva ad un paio di case di distanza mentre Sarah stava in una via parallela alla nostra.

    Una mattina battuta da un forte vento gelido, il mio piccolo naso a patata fuori dalla sciarpa, si era tutto arrossato mentre camminavo. Le raffiche fredde mi fecero volar via il cappellino rosso. Evan si chinò a terra per raccoglierlo. I miei lunghi capelli ricci e biondi si erano scompigliati. Evan ne spostò una ciocca e accarezzandomi il viso, la mise dietro all’orecchio. I nostri sguardi si intrecciarono come mai era accaduto prima d’ora.

    Era un momento importante per entrambi, ma per la prima volta Evan Wolf aveva paura di qualcosa. Paura di sbagliare, di fare la cosa giusta nel momento sbagliato oppure di fare quella sbagliata ma nel momento giusto. Non si era mai esposto così tanto e non sapeva cosa comportarsi, ma sapeva benissimo cosa volesse.

    Si chinò e mi baciò. Le sue labbra erano morbide e si sciolsero sulle mie. Ci abbracciammo stretti e nonostante le felpe ed i giubbotti imbottiti, riuscivo a sentire il battito irregolare e rapido del suo cuore. Le nostre anime si muovevano all’unisono.

    Ricambiai quel bacio con passione. Cavolo non aspettavo altro!

    Qualche mese dopo quel suggestivo bacio d’inverno, i nostri corpi si unirono come le nostre anime. Ricordo ancora con quanta dolcezza mi sfilò la maglietta e con quanta passione cominciò a baciarmi lungo il corpo. Fu una serata magica.

    Arrivò poi giugno che portò con sé la tanto agognata fine della scuola. Il caldo si faceva sentire. Gli studenti avevano già la testa altrove: chi in spiaggia, in montagna o in piscina. Tutti vestiti con magliette corte, pantaloncini, top e shorts.

    Evan smise di indossare la sua adorata giacca in pelle, il che lo rendeva strano ai miei occhi e mi sembrava che gli mancasse qualcosa. Quella giacca era proprio un’estensione di se stesso. Ora sfoggiava soltanto una semplice canottiera bianca. Era al settimo cielo e non vedeva l’ora di poter passare tutta l’estate insieme a me.

    Pensava già a cosa avremmo potuto fare: andare al mare oppure in montagna, in campeggio sotto le stelle ad ammirare la bellezza della luna o a fare escursioni o perché no, tutto quanto!

    Si sentiva pieno di vita, si vedeva e voleva farlo sapere a tutti.

    Era rinato.

    Arrivò il momento ed era quello giusto, lo sapeva.

    Aveva passato la sera prima a prepararsi un discorso, per non fare brutta figura ed aveva fatto diverse prove davanti allo specchio in camera sua.

    La sua classe uscì pochi minuti prima della mia e mi aspettò fuori appoggiato ad una colonna con le braccia incrociate facendogli risaltare i muscoli asciutti e le braccia venose.

    Mi vide arrivare e mi corse subito incontro.

    Nella sua testa si ripeteva in loop la dichiarazione che aveva scritto, voleva che fosse perfetta, per la persona che per lui era perfetta.

    Mi baciò sollevandomi. Sentivo le sue mani nervose sui fianchi, le sue labbra morbide che si appoggiavano sulle mie. Mi rimise con delicatezza a terra.

    «Devo dirti una cosa» tenni lo sguardo basso.

    «Anch’io Scheggia ma che succede?» con l’indice mi tirò su il viso con dolcezza, ma io mi scostai, non riuscivo a guardarlo negli occhi.

    «Dopo, dimmi tu prima» trattenni dentro di me il dolore che stavo provando in quel momento. Ero nervosa e l’ansia si stava prendendo gioco di me. Avevo il cuore a mille. Giocherellavo con il lembo della spalla dello zaino, arrotolandola e srotolandola sulle dita.

    «Non preoccuparti, troverò un altro momento, che succede Abigail?». Non lo aveva mai fatto, non mi chiamava mai con il nome di battesimo, neanche nelle nostre stupide litigate. Sembrava davvero preoccupato. Mi prese ancora il viso tra le mani guardandomi con quegli occhi splendidi. Non ce la feci più. I miei occhi si riempirono di lacrime. Un nodo alla gola mi bloccava quasi il respiro. Riuscì solo a dire due parole in un magone infinito: «Mi trasferisco Evan» avvertì il suo sangue raggelarsi nelle vene, il cuore saltare un battito. Lasciò cadere le braccia dal mio viso lungo i suoi fianchi.

    «Co... cos... cosa?» balbettò mentre il viso cominciò a cambiare espressione, facendo tornare di moda le sue famose sopracciglia corrugate. Alzò le braccia portandole alla nuca accompagnandosi i capelli indietro, ma che appena si abbassò verso di me, gli tornarono davanti al viso. «Dove?» la voce lieve e il tono profondo.

    «A Nameless» sussurrai tirando su col naso.

    Scoppiai in un pianto ininterrotto. Tremavo e singhiozzavo con fervore. Evan mi strinse forte a sé come per non farmi andare via. Una lacrima solcò il suo viso senza che se ne accorgesse. Il suo sguardo verso l’alto come per maledire il cielo.

    «Cosa volevi dirmi tu?» gli domandai senza staccarmi dal suo petto e dal battito del suo cuore.

    «Niente Scheggia, niente» mi rispose «non ha più importanza».

    Alzai il viso e lo vidi con gli occhi chiusi grondanti di lacrime. Le sue labbra in silenzio sillabavano le parole: "Ti amo scheggia".

    Riuscimmo a stare insieme ancora qualche settimana e nell’arco di quei giorni si fece sempre più distante. Non ne capivo il motivo. Forse per l’annuncio della mia partenza, ma la cosa gli stava sfuggendo di mano: iniziò a tornare lo stesso Evan che era una volta: menefreghista, freddo, scostante, stronzo. Avevamo perso il nostro giusto incastro e anche le cose di poca importanza diventarono ben presto una fonte di litigio. Quando non litigavamo rimanevamo in silenzio. Lui suonava il violino o componeva, io scrivevo. Sembrava tutto finito e la colpa era solo mia.

    Arrivò il giorno in cui me ne andai definitivamente.

    Il giorno della partenza c’erano tutti, tutti tranne lui.

    Sarah piangeva disperata portandosi le mani tremanti al viso. «Con chi litigherò adesso?» disse soffiandosi il naso con gli occhi castani che le luccicavano per le lacrime.

    Tina invece cercava di consolarmi facendomi mille raccomandazioni. Il suo sorriso mi rincuorava. «Promettimi che ti farai dei nuovi amici e non ti isolerai, stai attenta, scrivici se puoi e se qualcosa va storto, noi saremo sempre qui ad aspettarti. Ok?».

    Elias provava a fare il duro, senza riuscirci, trattenendo dentro sé, probabilmente, un mondo di flashback nei quali eravamo sempre insieme; ne avevamo combinate di tutti i colori insieme.

    «In tutti i miei ricordi più belli tu ci sei sempre» sorrise timidamente. La voce era rotta come se stesse perdendo per sempre una parte di sé.

    «…».

    «Abby, dobbiamo andare» mia madre sapeva quanto importanti fossero per me i miei amici ed aspettò fino all’ultimo, ma il momento della partenza era arrivato sul serio.

    «Abby, Evan non verrà, dice che non se la sente. Mi dispiace tanto tesoro» mi confidò Tina con una dolcezza disarmante, le labbra strette in un sorriso dispiaciuto. Mi accarezzò il viso ed io le sorrisi.

    «Il solito egoista, ma cosa ti aspettavi da lui?» esclamò Elias infuriato. Teneva le mani nelle tasche della giacca della squadra, lo sguardo arrabbiato, si mordeva il labbro.

    «Niente Eli, non mi aspettavo niente di diverso perché tutte le persone a cui tengo di più, ora sono qui con me» gli sorrisi e ci abbracciammo tutti insieme.

    Salii in macchina e facendo finta di nulla, mi girai per l’ultima volta mentre l’auto ormai era già partita, vidi Evan poco prima di girare l’angolo. Stava correndo dietro alla nostra macchina in mezzo al traffico. Mi alzai dal sedile sedendomi al contrario.

    Si muoveva rapidamente. Sembrava un ghepardo da quant’era veloce e agile nello schivare le macchine e scivolare suoi cofani bollenti mentre gli autisti infuriati gli strombazzavano il clacson a più non posso.

    A lui non interessava, il suo unico obbiettivo era raggiungermi.

    «Mamma ferma!» le intimai finendo senza accorgermene sui sedili posteriori.

    «Che c’è?» mi rispose con tono preoccupato intanto che scalava le marcie per fermarsi all’ultimo semaforo prima d’imboccare l’autostrada.

    «Evan» risposi tra le labbra serrate.

    Evan sembrava instancabile nella sua corsa contro il tempo, poteva farcela, era lì ad un passo da me. Saltò un paio di macchine che inchiodarono all’istante. Un macchinone nero per poco non lo investì, ma riuscì a schivarlo per un pelo. Sudato continuò a correre verso di me. Scattò il verde e noi partimmo. Un’automobile si interpose tra me e lui. Si fermò appena in tempo, questa volta sarebbe finito sotto.

    Appoggiò le mani sulle ginocchia e con il fiatone si spostò

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