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La città dei lupi (Romulus Vol. 3)
La città dei lupi (Romulus Vol. 3)
La città dei lupi (Romulus Vol. 3)
E-book333 pagine4 ore

La città dei lupi (Romulus Vol. 3)

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Info su questo ebook

Lazio, Terre dei Trenta. VIII secolo a. C.
Un popolo sperduto vaga senza meta per le Terre dei Trenta. Tutto ciò che possedeva è arso tra le fiamme che hanno divorato il bosco sacro alla Dea Rumia.

Spezzati e annientati nello spirito, i Ruminales hanno un’unica scelta davanti a loro: vivere o morire.

Wiros è riuscito a condurre con sé un drappello di disperati.
Sono stanchi e affamati, e ancora non sanno cosa fare di quella vita. Tornare a nascondersi nei boschi o lottare per il futuro?

Yemos, invece, separato dal resto del branco, è trascinato in catene a Velia assieme alla Lupa. Lo attende la morte per mano di un terribile e acerrimo nemico, Spurius, signore della città.

Mentre il destino dei lupi sta per compiersi, Amulius, re di Alba Longa e della Lega Albana, sembra aver già vinto i suoi nemici. Il Fato, però, è un minaccioso rivale. Gli Dei non rispondono più alle preghiere del re e Gala, la regina, è affetta da un male che le dà incubi e visioni.
La guerra è alle porte, e sarà un confitto epocale pronto a stravolgere le Terre dei Trenta. Accecata dall’odio nei confronti di Yemos, Ilia – la vestale rinnegata, la guerriera ribelle – è pronta a tutto pur di placare la furia che ha nel cuore. Anche a chiudere gli occhi davanti alla verità.
Gli eserciti sono schierati, le donne e gli uomini in campo. Gli Dei stanno per scendere in battaglia. Da questo scontro, nel fuoco e nel sangue, sorgerà una città destinata a regnare sul mondo.

La città promessa. La città eterna. La città dei lupi.

Con La città dei lupi si conclude la grande trilogia storica che riscrive le origini di Roma, raccontando il mito della sua fondazione come non era mai stato fatto prima, unendo l’accuratezza della ricostruzione, lo stile contemporaneo della scrittura e l’epos della leggenda.
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2021
ISBN9788830524293
La città dei lupi (Romulus Vol. 3)

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    Anteprima del libro

    La città dei lupi (Romulus Vol. 3) - Luca Azzolini

    (N.d.A.)

    PROLOGO

    Cava dei Morti, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Brucia! Il bosco sacro brucia! La bambina si agitò nel sonno e i sogni la trascinarono con loro oltre gli alberi che aveva sempre chiamato casa. Aveva ancora l’odore del fumo fra i capelli chiari come latte. Riusciva persino a vedere la cenere diluviare sul mondo. Da giorni le fiamme non le davano tregua: poteva chiudere le palpebre, ma restavano sempre anche dietro i suoi occhi. Arrivavano al cielo distante e più su, fino alla dimora degli Dei, dove era in corso un’immane battaglia fra i Primitivi Numi e le Nuove Divinità: la guerra per il dominio sul mondo degli uomini.

    L’Oracolo – come l’avevano chiamata per via del suo innaturale aspetto, tanto bianca da sembrare un idolo di pietra – voltò le spalle al cielo frantumato dalla furia dei fulmini. Si tappò le orecchie e corse via dal tremore che spalancava la terra e dalle onde che volevano sommergerla. Non aveva mai posseduto altra casa che il vecchio bosco in cui era cresciuta. Non aveva mai avuto altra famiglia all’infuori del branco che l’aveva allevata. Non aveva mai avuto un padre, se non il lupo che era morto davanti ai suoi occhi, divorato dalle fiamme. Adesso non aveva più niente.

    La Bambina Bianca si sentì sola e smarrita. Non le rimase che affrettarsi in quella terra solcata dagli incubi, coperta di polvere nera e sabbia sottile che le graffiava gli occhi.

    Qualcuno, però, la seguiva. Poteva sentirne i passi. Lo aveva avvertito altre volte muoversi dentro i suoi sogni. Di solito accadeva quando si perdeva lungo la strada del ritorno. Le era capitato spesso, ma non ne aveva mai fatto parola con nessuno, nemmeno con il branco dei lupi. Perdersi nelle terre dei sogni e faticare per tornare nel mondo dei mortali, non era mai un buon segno. A volte si sentiva come intrappolata in quel luogo sospeso e senza tempo: la mente sveglia, il corpo non rispondeva però ai suoi richiami. Era in quei momenti che sprofondava fino a lui…

    L’Uomo Pallido della Cava dei Morti, urlarono i suoi pensieri. Non conosceva il suo vero nome, se ne aveva uno. Non conosceva la sua identità. Non ci aveva mai parlato. Ma rammentava bene il luogo in cui abitava, perché ci si era già persa più di una volta, e le metteva i brividi. Lui la chiamava e la bramava come un trofeo. Stava in una palude dalle acque opache simili a liquame. Gli alberi avevano i rami ritorti a terra come se il cielo li avesse ripudiati per un oscuro motivo. L’odore era rivoltante: sapeva di cose marce e vite decomposte. Dopo un sentiero di malta che sembrava separare i tronchi come una cicatrice, e oltre un cimitero di ossa esposte, si trovava un minuscolo capanno. Il tetto era coperto da pelli luride con la carne ancora attaccata, sanguinolenta, che attirava nugoli d’insetti e bestie a banchettare fra le esalazioni di quel nefasto pantano.

    La Bambina Bianca provò a non pensare a quel luogo. Tentò di scacciare l’idea della Cava dei Morti dai propri pensieri. Vedere qualcosa nel mondo dei sogni, tuttavia, era come averla già lì sotto gli occhi. E poi lo avvertiva in ogni parte del suo fragile essere: l’Uomo Pallido la stava chiamando. Sapeva che cosa era successo nel bosco sacro. Sapeva che era debole e sola. Sapeva di poterla avere tutta per sé. La Bambina Bianca smise di correre e si ritrovò alla fine del sentiero di fango, proprio davanti al suo capanno immerso nella nebbia. L’Uomo Pallido era dietro la tenda tesa davanti all’ingresso. Riusciva ad avvertirne la presenza anche se non poteva ancora vederlo.

    Ma è qui, pensò la Bambina Bianca. Sentì qualcosa di caldo colare fra le gambe. Vuole che io entri nella sua dimora… È là dietro! Guardò in basso. I piedi erano immersi nel fango e nell’urina. Un refolo d’aria tiepida la fece rabbrividire davanti al capanno, quando i suoi occhi colsero un lampo di carne grigia. Una gamba cerea innaturalmente lunga. Un corpo nudo acquattato nella penombra. Vide dita ossute, magre, dalle unghie assottigliate e sporche. Riusciva a sentirlo respirare: era un rantolio sottile. C’erano parole in una lingua antica dentro quel respiro; parole che l’Oracolo riuscì ad afferrare con fatica tanto erano lontane. «Divorerò il tuo cuore» sussurrava rauco. «E mai sorgerà. Mai si edificherà. Berrò il tuo sangue. Ciechi vi muoverete su questa terra. E mai avrete una Patria. E mai la Madre dei Lupi avrà un suo regno.»

    La tenda fu strappata via dal vento.

    Dita pallide trascinarono la bambina nel capanno.

    E il grido di Rumia straziò il mondo.

    I

    CINERES PATRIAE

    Bosco di Velia, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    Della sua nuova Patria non restava altro che cenere grigia, e Yemos la portava addosso. Gli ingombrava le spalle come un mantello troppo pesante da indossare. Erano memorie, ed erano voci dimenticate. Non aveva altro che questo, perché tutto il suo mondo era bruciato per colpa dei Latini. Aveva dovuto nascondersi dalle fiamme e dai nemici che lo inseguivano con spade, lance e reti. Lo stesso avevano fatto anche gli altri lupi del branco, quei pochi che erano sopravvissuti agli incendi. Erano stati braccati come animali; era diventata una caccia, niente meno di questo. E poi la notte era caduta sulla selva con i suoi orrori. Aveva visto la Lupa finire dentro una rete tesa da due guerrieri di Velia, l’aveva vista sparire nel fumo soffocante mentre gridava il suo nome per metterlo in guardia.

    Yemos, fuggi!

    Erano state le sue ultime parole, e gli risuonavano ancora in testa. Non aveva potuto fare nulla per salvarla e si sentiva responsabile per ciò che era accaduto. Lui era un latino, in fin dei conti. Anche se aveva rinnegato il suo popolo unendosi ai Ruminales, aveva sangue di Alba Longa che gli scorreva nelle vene. Eppure, dopo quella furia cieca e rabbiosa, stentava a crederci. Da quando la mia gente si comporta in questo modo? Da quando danno alle fiamme un bosco sacro agli Dei pur di mettere fine alla vita di centinaia di uomini e donne che hanno lottato solo per la loro libertà? Una voce rise in fondo al suo cuore e gli rispose dura come il ferro delle lame che aveva posto fine alle vite di molti di loro. Da quando corri con un branco di lupi pronti a massacrare la tua gente. Da quando un tiranno siede sul trono che avresti dovuto conquistare tu. E poi, ancora più feroce, ancora più sferzante e malevola: Da quando hai voltato le spalle agli uomini e alle donne che ti hanno visto nascere, Yemos di Alba Longa. Tu sei colpevole come tutti loro! Guardati le mani: sono lorde del sangue di entrambe le parti…

    Non seppe mai, Yemos, di chi fosse quella voce, se sua o di suo fratello, o magari di suo padre. Se lo chiese nascosto nell’incavo di un tronco. Con la testa china sulle ginocchia, era rimasto a vegliare il corpo di uno dei Ruminales arso dalle fiamme e non faceva che domandarsi se la colpa fosse sua. Aveva tradito le genti che lo avevano accolto? Cos’era quella furia che avevano nell’anima gli uomini di Velia? Furia di dominare il mondo, e di piegare e spezzare usando solo la forza. Furia di ottenere e conquistare, nel sangue, le Terre dei Trenta. Non riuscivano a vedere oltre.

    Sollevò il viso nell’alba fosca e fredda, uscì dal rifugio scavato nel tronco e riprese a zoppicare fra i rami inceneriti. Si era bruciato le piante dei piedi, aveva un lungo taglio sul braccio destro e una brutta contusione alla stessa gamba. Per il resto, gli era andata meglio che a molti altri. La tana dei lupi era distrutta: non esisteva più nulla. Dal grande arco di accesso si levava ancora un fumo soffocante. Sembrava un’apertura scavata fin dentro l’Averno.

    Yemos si guardò attorno spaesato. Era sopravvissuto anche qualcun altro? Se sì, non ne vide traccia. Attorno a lui c’erano soltanto gli spiriti senza casa e senza pace del bosco. Quanta devastazione, fu costretto a pensare. Dei che abitate i cieli, se ci siete e potete udirmi, provate pietà per noi. Non sappiamo cosa facciamo. I mortali non si rendono conto… Era un campo invaso dalla cenere: una necropoli che si stendeva a perdita d’occhio su quel bosco un tempo fertile. La fuliggine cadeva dal cielo e sembrava neve grigia. Non poteva essere l’unico a essersi salvato. E Wiros? E Deftri? Si guardò alle spalle, e dal vuoto arrivò un suono. Aggrottò la fronte, poi in mezzo a tutto quel grigio vide stagliarsi delle sagome. Indietreggiò e si tenne a un tronco nero, la corteccia calda. Delle ombre si aggiravano fra i rami inceneriti e le carcasse di uomini e animali. Sono lupi? Si portò una mano al viso. Aveva la fronte sporca di fuliggine e gli occhi semichiusi per un impasto di sudore e sangue. Non aveva più niente per cui lottare, nemmeno le vite delle persone che amava riuscivano a rincuorarlo. Ma non erano loro che si aggiravano per quei boschi. «Li voglio vivi!» gridò la voce autoritaria di un latino.

    Yemos avvertì il brivido ghiacciato di quelle parole corrergli lungo la schiena. Erano gli uomini di Velia pronti a fare dei prigionieri. Yemos non voleva scoprire cosa ne sarebbe stato di lui se lo avessero trovato. Il nipote di re Numitor. L’erede di Alba Longa. Il fratricida del gemello Enitos. Si voltò pronto a scappare, ma dietro di lui si tese una rete che lo travolse cadendo dall’alto. Due soldati Velienses lo avevano circondato senza farsi sentire e Yemos era finito scaraventato a terra.

    Provò a tagliare la rete usando il guanto dagli artigli d’osso che gli aveva donato la Lupa, ma il guerriero più vicino sollevò il pesante scudo di legno e cuoio e con quello lo colpì alla testa tanto forte da tramortirlo. Yemos vide il bosco farsi profondo come se la notte lo avesse inghiottito. Provò a trascinarsi in mezzo alla cenere, facendo forza sulle braccia scheletriche, ma un secondo colpo lo fece crollare al suolo. Il buio fu subito sopra e dentro di lui. Non c’era modo di sfuggire a quei giorni di cenere.

    La cenere era ovunque.

    Anche dentro i suoi pensieri.

    *

    Velia. Yemos la vide mentre varcavano le mura della città in cima alla collina. Si trovava dentro un carro assieme ad altri tre o quattro Ruminales che erano stati catturati nella selva. Non avrebbe saputo dirne i nomi. Non conosceva molti di loro, ma sapeva che quelli non erano guerrieri della Lupa. Vide una vecchia che la pietà degli Dei avrebbe fatto meglio a portare via con sé viste le ustioni su tutto il corpo; un ragazzino magro come la morte le sedeva accanto. Si guardarono muti, senza trovare nulla da dirsi. Infine, una madre piangeva i figli bruciati vivi davanti ai suoi occhi, e non riusciva a darsi pace. Yemos spostò lo sguardo dal carro al luccichio del fiume Tevere. Le onde si riflessero negli occhi pesti del giovane guerriero. Troppa luce, pensò. Oggi il cielo dovrebbe piangere quello che abbiamo perso: la possibilità di cambiare questo mondo.

    Nascose la testa tra le braccia e annegò la voglia di mettersi a piangere in lunghi sospiri che sapevano di fumo. Non voleva vedere il resto del mondo che gioiva, e ancor meno voleva che lo vedessero. Spurius, signore di Velia, aveva già fatto ritorno alla città che dominava con pugno di ferro. Lo aveva sentito dire da alcuni soldati che si vantavano del fatto che avrebbero ottenuto elogi per aver catturato altre quattro di quelle bestie immonde. Bestie immonde… Yemos scosse la testa. Nessuno riesce a vedere che cosa siamo davvero: uomini e donne come loro.

    Il carro superò la palizzata a difesa di Velia e i soldati li guardarono con occhi feroci. Non gli fecero fare molta strada. Fra le stanghe di legno Yemos scorse una via sterrata, dei capanni su di un pianoro che ancora portava i segni della dura siccità dei mesi trascorsi, e le genti di Velia che li insultavano al loro passaggio. «Cani, a morte! A morte!» sputavano con rabbia. Ossa sepolte malamente spuntavano da terra come denti. Più in alto, in cima alla collina, si ergeva la casa del re. Ma loro non erano diretti alla dimora di Spurius e Altesia.

    Nel punto in cui fecero fermare il carro, infatti, c’era una fossa. Le usavano anche ad Alba Longa, ricordò. Era stata scavata nel terreno compatto e roccioso. Doveva essere piuttosto fonda, perché per realizzarla era stata smossa parecchia terra. Con la coda dell’occhio, Yemos la vide ammucchiata poco più in là. «Avanti, scendete!» Un guerriero colpì le sbarre del carro con la lancia e le fece correre fino al portello. Altri uomini li stavano aspettando per scortarli nella fossa. Yemos fu spinto avanti per primo.

    «E muoviti, cane!»

    Inciampò nei suoi stessi passi, ma non cadde.

    La fossa era stata chiusa da una grata di legno. Un guerriero gli tolse il guanto d’ossa e Yemos non fece alcuna resistenza. Non sarebbe servito a nulla, solo a farsi uccidere. Valutò se quella fosse una possibilità, ma comprese che non sarebbe stata una scelta onorevole.

    Poi si sporse e i Velienses aprirono la gabbia. Là sotto c’erano dei Ruminales, ma non ebbe modo di capire chi fossero. Ci fu spinto dentro prima ancora di rendersi conto che quella sarebbe stata, almeno per un po’, la sua nuova dimora.

    Era tornato al punto di partenza.

    Era ancora uno schiavo.

    *

    La Lupa era là, fu la prima persona che vide. Era impossibile non notarla. Una lama di luce cadeva dalla grata e lei ci sedeva sotto, pallida come una luna piena. Le donne e gli uomini del branco la fissavano come se attendessero una parola di conforto o anche solo un gesto per affrontare la prigionia. La fossa era sporca di liquami e terra fradicia. Puzzava di escrementi. Non c’era spazio per tutti loro. Una decina, forse qualcuno in più.

    Cercò i volti dei suoi compagni, ma a parte la Lupa non vide nessuno. Di Wiros, Deftri e degli altri non c’era traccia. Fuggiti? Morti? Non voleva chiedere a nessuno per non avere quel terribile responso. Meglio non sapere.

    Raggiunse la Lupa facendosi largo fra braccia ustionate, vesciche e bruciature che lasciavano esposta la carne viva. Si chinò accanto a lei e la sfiorò con il moncherino spoglio: niente più che della carne inutile.

    «Sei qui, allora ce l’hai fatta» le disse. «Credevo che ti avessero uccisa…»

    La Lupa non diede nemmeno segno di vederlo. Teneva gli occhi fissi sul corpo di una giovane Ruminalis che sembrava morta. Era Kaila. La riconobbe anche sotto tutta la fuliggine e il fango che la ricoprivano. Non mostrava segni evidenti di tagli o scottature, ma presto Yemos si accorse che chi le parlava non riceveva risposta. «Perché non dice niente?» E provò a scuoterla. Nemmeno la Lupa rispose a quelle domande. «Ma che cosa vi hanno fatto? Si può sapere?»

    Un bambino lo afferrò per un braccio. Era un cucciolo dei Ruminales: un non ancora lupo. Luvkis. Si ricordava che qualcuno giù alla tana lo aveva chiamato così. «La sta vegliando» spiegò sbrigativo il bambino, che portava su tutto il corpo segni di percosse. «Ma… ha perso la speranza. Tutti noi l’abbiamo persa da quando siamo qui. Non vedi?» Doveva avere undici o dodici anni, e non temeva la verità più nera. «Velia è la fine di tutto.» Yemos scrutò i soldati che li fissavano da sopra la grata. Uno di loro si sporse, scostò la tunica e tirò fuori il membro flaccido. Poi pisciò lento su tutti loro, ridendo.

    «Ci uccideranno?» chiese Yemos inorridito.

    «Così hanno detto.»

    «Quando?»

    Il bambino scrollò le spalle in modo vago. Non gli interessava. La morte sarebbe stata una grazia al confronto di quel buco scavato nella terra: una fossa in cui già ci si sentiva come i morti. Era solo questione di giorni.

    «Il re di Velia è già stato qui?» chiese ancora Yemos.

    «No, ma verrà presto.»

    «E tu come lo sai?»

    «L’hanno detto quelli» disse il piccolo indicando i guerrieri. «Vuole essere lui a ucciderci, con le sue mani. Aspetta il momento giusto per offrirci agli Dei della città e farlo sapere ai Latini. Il popolo dei lupi sarà presto solo un ricordo.»

    Yemos si augurò che avesse torto. Provò pietà per se stesso, per quel bambino triste e per tutta la gente dentro quella buca. Erano stati sconfitti dalla ferocia dei Latini e ora pregavano che arrivasse svelta la notte eterna. Non era giusto, Yemos lo sapeva. Guardò la Lupa che si ergeva fiera e terribile nonostante il suo silenzio. Era una statua minacciosa, ma riusciva a leggerglielo in quello sguardo immobile.

    Aveva perso fiducia nella loro Dea.

    Rumia li aveva abbandonati.

    II

    LA STIRPE DEI LUPI

    Bosco di Gabi, Terre dei Trenta, Lazio. VIII sec. a.C.

    La Bambina Bianca si era svegliata urlando. Solo un incubo, ma ancora una volta non aveva voluto farne parola con nessuno di loro. Per quanto Wiros si fosse affezionato a lei in quei giorni, non c’era stato modo di sapere cosa l’avesse sconvolta tanto. Pare che abbia visto la stessa Mors in faccia, non c’è altra spiegazione. Era rimasta muta ai margini della selva e non aveva voluto mangiare nulla. Nemmeno Deftri, dolce come la madre che l’Oracolo non aveva mai avuto, era riuscita a convincerla a prendere qualche mora o quel poco di carne che avevano racimolato.

    «È molto scossa» aveva detto Deftri tornando da Wiros con il cibo intatto. «Non vuole mangiare niente. Non vuole dirmi niente. Credo sia soltanto un brutto sogno, ma…» La giovane lupa aveva esitato, abbassando la voce perché gli altri non la sentissero. «… con l’Oracolo non si può mai dire dove finisca il sogno e inizi la realtà. Potrebbe aver visto qualcosa che non vuole rivelare.»

    Wiros aveva annuito. Era grato che ci fosse Deftri a prendersi cura della Bambina Bianca, nessuno degli altri sembrava più volerlo fare. Ci ha tradito. Ci ha condotto alla rovina. Lei non ci parla più. Erano state le voci che si erano rincorse fra i Ruminales superstiti. Ci ha mentito. Lasciamola nel bosco. Lasciamo un sacrificio ai veri Dei. Avevano tutti qualcosa da ridire su Rumia e il suo Oracolo. Ci ha spinto Lei alla battaglia, e guarda com’è andata a finire! Non sentiva altro che quelle parole cariche di astio.

    Si voltò verso l’anfratto scavato nella roccia in cui si erano rifugiati per la notte. C’era chi dormiva e chi si curava le ferite con l’aiuto di Adièis, chi non vedeva altro che la morte incombente. No, erano esuli senza una Patria. Era tutto ciò che Wiros sapeva.

    Si erano spostati senza sosta per due giorni. Avevano camminato lasciandosi alle spalle le cicatrici del fuoco. Avevano raggiunto un bosco verde e rigoglioso. Avevano trovato una sorgente e vi si erano immersi per lavare via dal corpo i segni della furia latina. Ma non era bastato: era lo spirito a essere intaccato da quella cenere profonda. Erano morte le radici che affondavano nel loro cuore. Erano stati estirpati i rami dei loro sogni.

    «Che cosa faremo, Wiros?» Deftri sembrava seguire sempre il corso dei suoi pensieri. I suoi occhi gialli come quelli dei lupi erano in grado di andare oltre ogni sua barriera.

    «Dobbiamo andarcene anche da qui» disse lui, «non è un posto che possiamo chiamare casa. Non possiamo ricominciare in questa caverna.»

    Deftri gli diede ragione. Quell’anfratto era troppo angusto per tutti loro. Per quanto pochi, erano ancora una trentina, i sopravvissuti, scampati al massacro dei Velienses.

    Wiros non andava fiero di quella cosa e nemmeno Herennèis, l’uomo che per molte stagioni era stato al comando del branco e dei suoi guerrieri per volere della Lupa. Il guerriero era furioso per com’erano andate le cose giù alla tana. A volte aveva quasi l’impressione che ce l’avesse con lui e ancora di più con Yemos, perché era stato dal loro arrivo che il mondo dei Ruminales era cambiato per sempre. Non ha tutti i torti. La loro vita non sarà più la stessa d’ora in avanti.

    Wiros scrutò ancora la Bambina Bianca. Adesso anche lei lo guardava. Lo stava tenendo d’occhio seduta ai margini della selva, là dove gli alberi si facevano più fitti e ombrosi. Mi ha detto di guardare te, sembravano dire quegli occhi. Mi ha detto di seguire te. La Dea ha detto questo. Si chiese ancora perché. Per quale motivo si era convinta di quella follia?

    «Dobbiamo muoverci» ribadì a Deftri, senza fare cenno a quei pensieri che lo tormentavano da giorni. «Dillo anche agli altri. Ci serve un posto sicuro in cui ricominciare.» Se era il volere della Dea, glielo avrebbe dimostrato.

    La stirpe dei lupi non era spezzata.

    Dovevano continuare a cercare.

    Non c’era altro che potessero fare.

    *

    Numitor si era addormentato da poco, ma sarebbe stato più corretto dire che era caduto in un dormiveglia agitato e pieno di sogni che solo il latte di papavero aveva quietato. Silvia detestava ricorrere a quella bevanda, perché lasciava suo padre sempre più debole. Ma cos’altro poteva fare? Quella sera aveva faticato a tenerlo nel letto di paglia che il buon Eùlinos aveva concesso loro. Mentre lei tentava di cambiargli le bende intrise di umori, Lausus lo aveva immobilizzato. Numitor aveva scalciato, imprecato, lanciato improperi agli Dei. Silvia era certa che il fuoco avesse infine intaccato anche la sua ragione. Solo il latte di papavero riusciva a calmarlo, ed era allora che iniziava il vero tormento per lei e chi accudiva il vecchio re di Alba Longa.

    «Uccidimi, figlia mia.» Nel delirio causatogli dalla bevanda, la pregava da giorni di mettere fine alle sue sofferenze. «Coraggio. Prendi la lama che hai portato con te… la gola! Trova la mia gola e affonda il colpo! Io sarò liberato da tutto.»

    Quale follia poteva fargli dire una cosa simile?

    «Taci, padre mio. Non parlare così. Tu devi vivere per me e per mio figlio, e per il trono di Alba Longa.»

    «Lasciami andare, Silvia.»

    «Stringi la mia mano, avanti…»

    «Oh, Silvia… lasciami!»

    «Sono qui accanto a te, non ti lascio.»

    «Silvia… Silvia…»

    «Dormi.»

    Solo quando il suo respiro si faceva regolare e il latte di papavero lo portava via con sé, Silvia trovava pace. Aveva già sentito di guerrieri che chiedevano la morte sul campo di battaglia per le ferite riportate. Era sempre stata sicura di cosa avrebbe fatto lei in una situazione simile. Una fine pietosa era di certo preferibile al più atroce dei tormenti. Ora che però era suo padre a chiedergliela, si scopriva pavida.

    Guardò il pagliericcio sporco, il pavimento di terra battuta pieno di bende coperte di sangue secco e siero giallo, sentì l’odore della carne corrotta nell’aria. Cos’altro doveva aspettare ancora? Che cosa stai aspettando, sciocca? Sai già cosa devi fare. Tu sai cosa è meglio per tuo padre. E allora fallo! Compi quel gesto. La pietà è una grazia che viene concessa dagli Dei in persona.

    Fece scorrere le dita sul tavolo di legno lì vicino. La lama era proprio lì. La teneva a portata d’occhio perché sapeva cosa avrebbe potuto e dovuto fare.

    Fu Lausus a fermarla. Non lo aveva sentito entrare nel capanno. Le prese la mano nella sua e scosse piano la testa. Silvia avvertì le lacrime salirle agli occhi.

    «È così difficile» mormorò.

    Lausus annuì. «Lo è sempre. Ma guarda: ora dorme.»

    «Ora sì, ma…»

    «Non sta a noi, Silvia.» Lei scosse piano la testa, fra i singhiozzi. «Preghiamo solo che gli Dei ci mandino un segno.»

    E così, sfinita, rimase in attesa.

    *

    Nel capanno di Eùlinos il fuoco nei bracieri ardeva caldo e vivo. L’autunno aveva colorato i boschi attorno a Gabi perché il freddo era arrivato presto quell’anno. La figlia di re Numitor fu fatta sedere accanto a un braciere. Lausus si prendeva cura di lei con grande attenzione e non la perdeva mai di vista. Sapeva cosa stava passando la donna. Suo padre non avrebbe visto ancora molte albe. Eùlinos le portò una coppa con del vino speziato, un gesto cortese per chi aveva la morte dentro il cuore.

    «È una specialità della mia terra, ti piacerà.»

    La donna annuì rigida come certe statue che aveva visto da ragazzo, scolpite

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