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Strade Nascoste
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E-book810 pagine11 ore

Strade Nascoste

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Info su questo ebook

Gli uomini hanno dei limiti: è questa la benedizione e la maledizione della loro natura.
Sono le parole del Messo su cui riflette Ariarn durante la ricerca affidatagli. Una ricerca dove è coinvolto l'Ordine della Rivelazione, a cui i governi si sono rivolti per trovare una cura alla malattia che ha colpito le regioni di Asklivion; un male che si scoprirà essere peggiore di qualsiasi epidemia conosciuta e a cui forse non ci sarà rimedio finché esisterà l'uomo.
Con Periin, Ghendor, Reinor e Lerida si ritroverà ad affrontare una lotta contro un nemico di cui soltanto in pochi sono a conoscenza, che è rimasto a lungo nell’ombra dimenticato, ma che ora è pronto per mettere in atto il suo piano dopo aver a lungo aspettato che giungesse il suo momento. Macchinazioni architettate per una conquista che da tempo sta aspettando di trovare realizzazione, che porterà a molte battaglie e a un conflitto finale che lascerà molti dubbi e l'unica certezza che il vero nemico non sia stato quello affrontato ma qualcosa che è sempre stato al fianco e di cui non si sospettava.
Un nemico che in qualche modo l’uomo ha sempre protetto, che è la causa generatrice dei mostri con i quali si combatte. Un nemico in grado in qualsiasi momento di creare mostri di grande portata, come si ha avuto modo di vedere.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2015
ISBN9786050348750
Strade Nascoste

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    Anteprima del libro

    Strade Nascoste - Mirco Tondi

    Tondi

    A quanto, per strada,

    È andato perduto.

    A quanto è stato acquisito

    Dalla consapevolezza della perdita.

    Al Lampo che mi ha fatto vedere.

    Prefazione da parte dell’autore

    Chi ha avuto modo di seguire quanto scrivo su Le Strade dei Mondi ha potuto leggere una delle prime stesure di Strade Nascoste e ha anche potuto notare una piccola differenza con il titolo: il nome dell’opera in precedenza era Storie di Asklivion - Strade Nascoste. Cosa sta a indicare questa modifica?

    Innanzitutto vuole porre l’attenzione sulle vicende dell’opera, dalle quali il romanzo prende nome, mentre con il titolo precedente l’attenzione sembrava volersi porre su un quadro più ampio come suggerito da Storie di Asklivion. Strade Nascoste fa parte del ciclo narrante vicende appartenenti a un determinato periodo del mondo di Asklivion, questo è un fatto che non è cambiato, ma il punto focale dell’opera dev’essere solo questa storia narrata, non quanto avviene dopo: di questo se ne parlerà in altre occasioni.

    Ma vuole soprattutto indicare che nell’opera è avvenuto un cambiamento: sono cambiati i primi capitoli. In essi c’è stata una radicale modifica per quanto riguarda la struttura di narrazione e l’approccio con cui ora vengono posti; un cambiamento che ha permesso di far entrare nel vivo delle vicende fin da subito. Il lavoro di revisione e di riscrittura non si è limitato solo a questo, ma anche al resto del romanzo, seppure in maniera minore, mettendo in atto piccoli accorgimenti che hanno reso lo stile più scorrevole. Se questo è avvenuto, è stato merito sia dell’esperienza accumulata negli anni nello scrivere e leggere, sia dei suggerimenti di chi ha letto l’opera e ha espresso un parere, permettendo così di apportare migliorie al testo. Il mio ringraziamento pertanto va a tutte le persone che con il loro giudizio hanno contribuito a migliorare il romanzo.

    Quello di Strade Nascoste è stato un cammino lungo, iniziato verso la fine del 2001, e mi ha visto più volte tornare a viaggiare sui suoi sentieri per mettere in atto modifiche e migliorie; ora ritengo che il mio ruolo sia finito con quest’opera e lascio spazio alla storia e ai suoi personaggi, perché è il loro tempo di essere protagonisti.

    Mirco Tondi

    Gennaio 2015

    I. Assedio

    Dall’alto della palizzata, Ariarn osservava i movimenti degli animali oltre la doppia fila di pali davanti all’ampio fossato; la mandria che li aveva assaliti poche ore prima passeggiava nervosamente, lanciando cupe occhiate alle difese che la tenevano fuori da Womb Rendin.

    È così pazzesco pensò. Eppure non dovrei meravigliarmi dopo quanto visto ieri.

    Appostato sulle colline antistanti la cittadina, aveva osservato le bestie all’opera, unite in un branco inverosimile. Lupi, cervi, daini, orsi, puma: prede e predatori correvano insieme, uniti nell’assalto a Womb Rendin. I felini avevano superato il fossato e le fila di pali appuntiti, balzando contro la palizzata: gli artigli erano affondati nel legno e facendo forza su di essi erano riusciti a oltrepassarla. Le prime grida di allarme e di dolore erano risuonate nella cittadina e gli abitanti erano accorsi a respingere l’assalto. Indisturbati, gli orsi avevavo iniziato a divellere i pali, creando vuoti sempre più larghi nello sbarramento difensivo.

    La battaglia era infuriata frenetica sulla palizzata: i felini avevano tenuto impegnati gli uomini, impedendogli di occuparsi di quanto stava accadendo all’esterno della cittadina. Presto però la preponderanza numerica degli umani aveva avuto la meglio e i puma erano caduti sotto i colpi delle lance e delle spade. Senza più impedimenti, gli arcieri avevano abbattuto gli orsi, rendendo i loro corpi come istrici troppo cresciuti.

    Veloce com’era iniziato, l’attacco era cessato.

    Un’azione degna di un esercito organizzato.

    Ma quello non era stato il primo comportamento anomalo delle bestie. La mandria di bufali ora fuori dalla cittadina aveva attaccato la carovana di mercanti che li precedeva nel loro cammino. Solo la presenza di Reinor su uno dei carri, più che l’intervento suo e di Periin, aveva evitato il peggio: la barriera di fiamme che aveva levato grazie ai suoi poteri aveva messo in fuga le bestie. Questo però non era servito a evitare perdite: l’attacco era stato troppo veloce e improvviso perché non ci fossero vittime. Non c’era stato modo di portare via i caduti con tutti i carri andati distrutti: avevano dovuto seppellirli sul posto. In un giorno di primavera, dove nei boschi gli uccelli cantavano, i mercanti avevano pianto e seppellito i loro morti. I corpi erano stati adagiati in uno spiazzo verde, composti semplicemente, le braccia distese lungo i fianchi, in attesa che le fosse fossero scavate. Non c’erano stati canti ad alleviare i cuori, né fiori a decorare le tombe; i corpi non erano stati vestiti con gli abiti migliori, ma semplicemente il sangue era stato lavato dalle ferite prima d'essere avvolti in drappi bianchi. Non c’era stata cerimonia: solo il rispettoso depositare delle salme nella nuda terra che si riprendeva quanto era suo.

    Osservò un drappello di cervi e lupi che lo scrutava ferocemente a pochi metri dai pali appuntiti. Non sono stati colpiti da malattie o infezioni che li hanno fatti impazzire: fosse così, si sarebbero sbranati tra loro.

    Dopo essere sopravvissuti all’attacco della mandria, avevano trovato morto uno dei bufali, la lunga lingua penzoloni che poggiava sul terreno, gli occhi fissi a guardare lontano: una delle sue frecce era conficcata nel collo e dalla ferita un largo rivolo di sangue si era riversato sull’ampio torace. Aveva passato la mano sulla dura pelle del dorso, soffermandosi sulla testa: aveva sollevato lo spesso labbro, rivelando i grossi denti e le gengive. Stessa cosa aveva fatto con la palpebra dell’occhio, osservando i vasi capillari che scorrevano nel bianco bulbo: non c’era nessun segno di anomalie fisiche che avessero minato il loro comportamento.

    Come non c’è nessun indizio che spiega quello che sta succedendo alla terra.

    Il sopraluogo effettuato nelle zone visitate non aveva rivelato niente di cui non fosse già a conoscenza. I superiori lo avevano avvisato dell’inutilità di un altro controllo, ma aveva nutrito la speranza di scovare qualcosa sfuggito alle precedenti ricerche.

    Si era sbagliato.

    Davanti ai suoi occhi aveva ancora il paesaggio spettrale dei villaggi abbandonati di Lamer e Samhe. Le case avevano porte e finestre sprangate, i sentieri erano invasi dalle erbacce. Ad accoglierlo non c’erano stati i suoni del lavoro dei contadini, né le grida dei bambini che giocavano: solo il vento che sibilava sulla devastazione inflitta alle colture nella speranza di arrestare la piaga abbattutasi sulla zona. Gli alberi da frutto erano stati tagliati e bruciati; un gesto disperato che aveva portato a distruggere quanto con cura era stato fatto crescere per salvare qualcosa. I contadini di quei paesi erano simili a un paziente cui il medico aveva riscontrato una cancrena a un arto e per aver salva la vita si era trovato costretto a farselo amputare; solo per scoprire che non era servito a niente e la cancrena si era estesa al resto del corpo. Come ulteriore prova, vicino a un’abitazione aveva trovato un piccolo melo carico di frutti prossimi alla maturazione e ne aveva assaggiato uno: non aveva alcun gusto, proprio come riportato dai rapporti letti, secondo i quali qualsiasi frutto della terra coltivato dall’uomo perdeva la sua funzione di sostentamento.

    Stessa sorte era toccata ai campi di grano: dove un tempo c’erano distese dorate, ora c’era solo terra annerita dalle fiamme.

    Il soggiorno nei due villaggi era stato breve. Se li era lasciati presto alle spalle, ma la sensazione d’angoscia non aveva voluto abbandonarlo, com’era successo a Rashe; in quel villaggio però era riuscito a fare qualcosa e alla sua partenza la sensazione sgradevole era svanita.

    Ritornò con la mente agli eventi intercorsi in quel paesino e al tempo perso sulla tabella di marcia. Tempo già fin troppo limitato e prezioso, che tuttavia non aveva esitato a usare. La missione assegnatagli aveva la priorità su ogni altra necessità: questo gli era ben chiaro. Eppure non si era tirato indietro dal fare quello che aveva fatto. La gioia delle persone che riabbracciavano i loro cari gli aveva dato ragione della scelta fatta, la giusta ricompensa per quanto sacrificato, la rispota al giuramento pronunciato quando era entrato nell'ordine cui apparteneva

    Dare la caccia al male in ogni sua forma, in ogni luogo: la prima regola che esso insegnava. Tutto gli ruotava attorno, era l’anima di chi lavorava nell’ombra per proteggere l’umanità, lasciando che continuasse a vivere nella sua quotidianità. Era meglio per le persone restare all’oscuro della lotta in atto da tempi immemori tra le due fazioni dai più dimenticate: non molti erano abbastanza forti da continuare a vivere con la consapevolezza di essere a fianco della bocca dell’inferno in qualsiasi momento. Ne aveva avuto dimostrazione in passato: chi aveva avuto la sfortuna di trovarsi di fronte a tale realtà, non era più riuscito a trovare una vita normale, vivendo sempre preda della paura; alcuni erano impazziti, altri si erano suicidati. L’esperienza secolare del loro ordine e la dura conoscenza data preparavano i suoi membri a combattere con efficacia gli effetti del male, ma chi non vi apparteneva non poteva comprendere quella realtà nascosta, come non poteva comprendere il loro restare saldi dinanzi a una lotta avvolta nel più buio mistero, senza un indizio sulla sua origine.

    Anche se abituato a simili circostanze, vedendo le bestie sotto di lui aveva la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di mai visto prima. La malattia che sta investendo le regioni è solo una facciata di quanto si sta muovendo nell'ombra.

    Si allontanò dagli spalti di legno, scendendo la scala e avviandosi verso le vie di Womb Rendin piene di accampati. Come avevano costatato da subito, non erano i primi a essere stati accolti all’interno delle mura. Dovunque incontravano tende o rifugi improvvisati, gente stretta attorno a fuochi da campo: la situazione si protraeva in quella maniera da settimane. Da qualche tempo gli attacchi a viandanti e contadini da parte delle bestie selvagge si erano fatti frequenti. L’aumentare degli assalti e il verificarsi delle prime vittime avevano fatto asserragliare la gente nella cittadina, innalzando delle difese. Ogni contatto con il mondo esterno era cessato. La pianura si era trasformata in un mattatoio per chi si avventurava in essa; i pochi che riuscivano a sfuggire alle grinfie delle bestie, trovavano riparo a Womb Rendin e non ne uscivano più. Ogni tentativo di cercare soccorso era fallito: erano abbandonati al loro destino, impossibilitati a fare qualsiasi cosa, salvo sopravvivere. Dietro le mura erano al sicuro, ma non sarebbero vissuti a lungo: la repentinità di quanto accaduto non aveva dato modo di approvvigionarsi. In un assedio, significava la fine per i difensori.

    Entrare in città non è stata la migliore delle idee. Ma restare fuori delle mura avrebbe portato a morte certa i mercanti. Andare a sud o a est li avrebbe fatti rimanere in campo aperto, esposti all’assalto delle bestie. Stessa cosa tornare indietro. E inoltrarsi nel Bosco delle Paludi non era una scelta migliore delle altre.

    Attraversò vicoli secondari, osservando lo scorrere della folla e la vita della cittadina.

    Nelle strade, il caldo sole primaverile accompagnava i passanti. La voce dei mercanti risuonava nell’aria decantando la qualità della merce in vendita. Uomini e donne si accalcavano davanti agli ingressi dei negozi. Madri di famiglia erano occupate a scegliere la frutta e la verdura per preparare il pranzo; bambini recalcitranti le seguivano, cercando di trovare occasioni di svago. Il ritmico clangore del martello e lo sfrigolio delle lame roventi immerse nei barili d’acqua accompagnavano le voci di contadini e soldati intenti a contrattare con i fabbri. L'odore di ferro battuto e di spezie si perdeva avvicinandosi al centro della cittadina, sostituito dall'aroma del pane appena sfornato.

    Le persone ancora non si rendevano conto di quanto realmente stava accadendo: al riparo delle mura mantenevano una certa tranquillità, vivendo nella speranza che presto la situazione si sarebbe risolta. Si sentivano al sicuro e non volevano che niente mettesse in pericolo la loro incolumità; per questo, come aveva scoperto, nonostante le guardie avessero ricevuto il messaggio e l'avessero consegnato alle autorità, quando erano riusciti a sfondare le linee degli animali e ad arrivare nei pressi della cittadina, non li avevano aiutati. Non fosse stato per gli strali d'energia di Reinor che avevano tenuto a bada gli animali e la prontezza di Periin, che aveva scavalcato il fossato e, arrampicatosi sulla palizzata, aperto le porte, probabilmente sarebbero tutti morti.

    Lanciò uno sguardo alle case e alle vie. Tutto ora pareva tranquillo, le minacce distanti. La gente voleva vivere nelle certezze, ma non poteva andare avanti ancora per molto. Se i suoi sospetti erano fondati e i pezzi d’informazione raccolti ascoltando le conversazioni erano giusti, si sarebbe giunti a un quadro della situazione di difficile soluzione.

    Aiutare quella gente sarebbe stata un'impresa ardua, anche per chi, come lui, era addestrato ad affrontare certe evenienze. Lui, il guardiano silenzioso e invisibile, pronto a intervenire qualora ce ne fosse stato bisogno.

    Un pensiero davvero poetico.

    Ariarn sorrise tra sé. Doveva aver preso quel lato della personalità dal padre, l’uomo dei racconti romanzeschi e delle gesta eroiche; con le sue parole teneva le persone incollate alla storia, le faceva sentire parte integrante di essa, perse nel luogo e nel tempo dove si svolgevano le vicende narrate. Quante avventure aveva vissuto in quella maniera con i suoi amici, ma mai aveva desiderato essere uno dei protagonisti delle storie fantastiche: aveva già suo padre da ammirare.

    Il genitore non ne parlava mai, ma le gesta che si raccontavano sul suo conto non erano inferiori di quelle degli eroi immaginati; molti parlavano di lui con rispetto. Da piccolo aveva creduto che questo dipendesse dal valore delle sue azioni, dalla forza nel combattere ma crescendo aveva capito che era più di questo: il segreto del rispetto era celato nel modo di vivere quotidiano. Una parola gentile per tutti, una disponibilità senza distinzioni, una ferrea fedeltà ai principi in cui credeva, la dignità della persona in primo piano: questo aveva fatto del padre l’uomo di valore che la gente stimava e amava.

    Un giorno, da adolescente, quando cominciava a conoscere il mondo, gli aveva chiesto come facesse, con la sua carica, a restare incontaminato dalla corruzione cui molti erano soggetti. Il genitore gli aveva spiegato che ricoprire cariche di responsabilità e potere non era un modo per avere dominio sugli altri e farsi servire, ma l’opportunità di avere una maggiore possibilità di mettersi a disposizione di chi aveva bisogno. Gli aveva spiegato anche, dietro sua richiesta, che lui non parlava mai delle sue gesta perché erano altri i valori cui dare importanza; ciò che conferiva spessore a un uomo non era la prova di sé che dava in alcuni momenti, ma come viveva ogni istante della sua vita.

    Quanti insegnamenti mi ha dato pensò mentre un velo di tristezza sfiorava i suoi ricordi.

    Raggiunse il piccolo cortile circondato da case dove gli altri si erano sistemati mentre lui si occupava dei mercanti: abituate alla situazione, le autorità di Womb Rendin avevano sistemato tutto in breve tempo. Dalle conversazioni sentite in giro, aveva anche scoperto che da alcuni giorni nella cittadina era arrivato una specie di guaritore. Dovrò fargli visita: ho delle domande da porgli.

    Trovò Lerida accanto a Reinor di nuovo cosciente, intento a massaggiarsi una spalla. Di Periin nessuna traccia.

    Sembra che l’Usufruitore si sia ripreso costatò tenendosi a breve distanza dai due. E sembra che anche lei ora stia bene, ma le ferite che ha patito sono di quelle che non lasciano traccia sul fisico.

    «Come ti senti?» chiese sedendosi accanto all’Usufruitore.

    «Qualche ammaccatura, ma niente di grave.» Una smorfia percorse il viso di Reinor mentre muoveva il braccio.

    «In città c’è un guaritore» asserì Ariarn. «Faresti bene a farti visitare.»

    «Non ne ho bisogno. Come ho detto, non è niente di preoccupante» si schernì Reinor.

    «Non avrai per caso paura do lui?» lo canzonò Lerida divertita.

    Reinor sollevò le sopracciglia.

    Lerida si portò una mano davanti alla bocca, cercando di nascondere un sorriso.

    «È inutile perdere tempo per dei lividi» rispose semplicemente l’Usufruitore.

    «Hai per caso impegni urgenti?» lo stuzzicò la donna piegando leggermente la testa di lato, ammiccando.

    «No.» Reinor la guardò perplesso, cercando il supporto di Ariarn, che però guardava volutamente da un’altra parte.

    «Allora non ci sono problemi se facciamo un controllino?» Lerida si avvicinò flessuosa. «Se ti senti più sicuro, posso accompagnarti io.»

    Reinor continuò a guardarla confuso.

    Di fronte alla sua espressione, Lerida non si trattenne più dal ridere, seguita a ruota da Ariarn.

    «Mi avete preso in mezzo» Reinor cercò di mantenersi serio. «Non è il momento adatto per fare scherzi.»

    Ariarn si calmò un istante. «Ma tu ci vai davvero a farti controllare» disse riprendendo a ridere insieme a Lerida.

    Reinor questa volta non poté fare a meno di unirsi alle loro risate.

    Accucciato nell’ombra di una delle case circostanti, Periin assisteva alla scena senza farsi vedere.

    Risate.

    Chiuse gli occhi, lasciandosi andare al suono che riecheggiava nel piccolo spiazzo.

    Risate.

    Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che ne aveva udita una. Un disagio conosciuto cominciò a risvegliarsi. Dal buio profondo della sua anima un’immagine cominciò a delinearsi: come una bolla di sapone pronta a scoppiare al minimo spirare di vento, il ricordo prese a salire. Una fioca luce illuminava la tenebra, una piccola candela che brillava tenue, lontana, tanto piccola da sembrare una stella nel firmamento. L’immagine prese a farsi più grande e nitida e intorno a lui non fu più oscurità, ma una luce crescente che rendeva bianco ciò che era nero: era quella di un falò acceso in una foresta di pini avvolta nel soffuso candore lunare.

    Ancora lontano, vedeva delle ombre attorno alle guizzanti fiamme. In volo planato si avvicinò, cominciando a distinguere i lineamenti delle figure. Vide i volti delle persone strette attorno al falò. Riassaporò l’atmosfera creata dalla scena, se ne fece permeare: quanta libertà, quanta spensieratezza e assenza di pesi e preoccupazioni.

    Lentamente cominciò ad allontanarsi da quella che ormai era solo un’illusione. La bolla del ricordo prese a inabissarsi, tornando a essere ingoiata dal buio. L’eco delle risate passate si smorzò, sostituito da quelle presenti. Riaprì gli occhi, l’impassibilità di sempre di nuovo sul volto.

    Continuò a guardare i tre mentre le fibbie dell'armatura interiore si serravano di nuovo. Il Periin che fu si dissolse dalla sua mente, lasciando campo libero a quello che l’aveva sostituito. Quello che ero non esiste più. Che cosa sono, allora? Con la mano sfiorò l’elsa di una delle spade alla cinta. È bastata una sola esperienza per domandarmi che cosa so di me, quando credevo di aver risolto le ombre del mio passato?

    Sapeva occuparsi di se stesso, era un esperto nell’arte della sopravvivenza, ma non sapeva prendersi cura degli altri: lo avevano dimostrato le difficoltà avute nei tre giorni in cui si era dovuto occupare di Lerida. Il suo addestramento non l’aveva mai contemplato. Ma anche se fosse stato abituato, non sarebbe stato pronto a quanto affrontato.

    La fuga dal maniero abbandonato non era stata un problema, con l’unica preoccupazione di tenere in sella la donna incapace di reagire a qualsiasi stimolo. Ma la notte era stata un continuo essere all'erta: bastava un nonnulla per scatenare la pazzia della mente distrutta di Lerida. Esplodeva improvvisa con urla e deliri di frasi sconnesse, un’invocazione continua d’aiuto. Fughe disperate che lo costringevano a inseguirla e riportarla al campo. Davanti al falò si calmava, ma mai del tutto. Una volta era arrivata a tentare di gettarsi nel fuoco, urlando di lasciarla fare perché se fosse diventata una torcia, il mostro l’avrebbe lasciata stare.

    Dopo quel fatto si era trovato a legarla mani e piedi, per evitare che si ferisse da sola; c’era stato il rischio di traumatizzarla ancora di più, ma non aveva trovato altra soluzione. La fortuna era girata quando avevano raggiunto il centro abitato, incontrando Ariarn. E l'intuizione che aveva avuto si era rivelata corretta.

    Quell’uomo però rimaneva avvolto nel mistero; come il medaglione che nascondeva sotto la tunica. Per gli istanti in cui era rimasto sotto i suoi occhi, aveva creduto di essere al cospetto di uno dell’Ordine della Rivelazione. Forma, materiale, incisioni: tutto pareva risalire all’ente religioso. Eppure era diverso. Il sole era lo stesso, ma il resto dell’immagine non apparteneva ai Messaggeri. Su una piccola cunetta, adagiata ai piedi di una croce, stava deposta una spada. Un piccolo corso d’acqua le passava accanto, lambendone la lama e l’elsa; non era chiaro, ma sembrava che il ruscelletto nascesse nel punto in cui la croce era conficcata nel terreno. Tre fiamme erano poste sopra la croce.

    Era la prima volta che vedeva quel simbolo: tra i Messaggeri non c'era niente del genere. Questo poteva far sì che Ariarn non avesse nulla a che fare con l'Ordine. Eppure c’erano due elementi che gli lasciavano dei dubbi. Uno era la raffigurazione sul medaglione del sole, lo stesso riportato su quelli dei religiosi. Il secondo era una frase pronunciata dall’uomo la prima volta che si erano incontrati: Seguiamo la stessa fede, aveva detto dopo lo scontro con gli orchi riferendosi a Ghendor, il Messaggero che faceva parte della carovana.

    Il suo sguardo fu attirato da un gatto che zampettava sopra uno dei tetti che gli stavano di fronte. Anche dopo il passaggio della bestia continuò a fissare le sagome squadrate delle case contro il cielo azzurro.

    Incupito più di quanto volesse ammettere, avvertiva una nera e sgradevole sensazione che strisciando voleva insinuarsi nei meandri della mente.

    Tu non sei come loro gli era stato detto dall’essere dell’oscurità. È troppo per un uomo. Forse hai superato questo stadio? Detto da una creatura che sembrava umana, pareva uno scherzo.

    Cosa aveva voluto dire? Era riferito al fatto di non essere schiavo delle emozioni e dei sentimenti?

    Era vero. Aveva sradicato e cancellato ogni forma di sentimenti, eliminando qualsiasi elemento che intralciava la sua strada: restrizioni, obblighi, legami, patti. Tutti creatori di vincoli e illusioni che limitavano la libertà e mettevano in pericolo la capacità di sopravvivenza. Niente doveva avere importanza. Neppure le parole di quel mostro.

    Allora perché ne era rimasto colpito?

    Tu non sei come loro. Innervosito, cambiò posizione alle gambe.

    Perché quella singola frase lo tormentava?

    Forse perché era la verità. Questo però lo sapeva, l’aveva sempre saputo.

    Allora perché quell’insinuante sensazione non se ne andava e lo lasciava in pace?

    Vide la sua faccia riflessa sul vetro della finestra vicino a lui: fissò i suoi occhi, pezzi di ghiaccio che non rivelavano alcuna emozione. Per una frazione di secondo ebbe l’impressione di vedere un volto ferino affiancarsi al suo, aprendosi in un selvaggio sorriso. Un battito di palpebre e l’immagine svanì. È solo un ricordo.

    Uscì dall’ombra, sopraggiungendo alle spalle del gruppo. «Cosa faremo adesso? Non possiamo restare sempre nel villaggio.»

    L’atmosfera spensierata e allegra sparì.

    «Partiremo, ma non subito. Abbiamo bisogno di riprenderci e di avere un quadro migliore della situazione» gli rispose Ariarn.

    Periin asserì con il capo. «Ma sia il prima possibile.» Si sedette con gli altri vicino al fuoco. «Quale sarà la prossima mossa?» chiese ignorando le furiose occhiate di Lerida.

    «C’è un guaritore in città: andremo a fargli visita per Reinor. Dopo cercheremo di raccogliere informazioni su quanto sta accadendo, soprattutto tra le persone che non sono di Womb Rendin: dobbiamo scoprire se ci sono vie più sicure per lasciare la città.»

    Periin guardò l’Usufruitore. «Vuoi farlo visitare per qualche contusione?»

    «Le precauzioni non guastano, ma è un pretesto. Voglio parlare con il guaritore: è arrivato poco prima di noi e può darci notizie più dettagliate della gente che è qui da settimane. E poi si dice che al guaritore si racconta sempre tutto: magari possiamo ottenere più informazioni che andare in giro a fare domande.» Ariarn si alzò in piedi, imitato da Lerida e Reinor.

    «Vieni con noi?» gli domandò l’Usufruitore.

    Periin li seguì. «Non credo ci sia qualcosa di meglio da fare qui.»

    Il quartetto si addentrò in una serie di vie costeggiate da ripari di fortuna e gente addormentata sul ciglio della strada.

    Cercando di non farsi notare, Lerida lanciava continue occhiate verso Periin. Non riesco proprio a capirlo. Dice che non gli importa nulla degli altri, eppure ha aiutato sia me, sia i mercanti senza che gli venisse chiesto nulla. Ripensò a quando lei e gli uomini della scorta erano caduti nell’imboscata dei banditi: loro uccisi e lei catturata. Non era stato uno scontro: si era trattato di un massacro. La fine dei sei uomini non era stata veloce, i loro corpi straziati da numerose ferite. La difesa era stata tenace: avevano combattuto fino all’ultimo respiro, ma inutilmente. Lei era stata catturata, con la convinzione che avrebbe aperto la preziosa scatola dell’Ordine che le era stata assegnata, consegnando il prezioso contenuto. Imbavagliata, le caviglie immobilizzate da pesanti ceppi e le braccia legate dietro la schiena, era stata completamente in balia dei banditi nel loro covo in mezzo alla foresta. Poi era arrivato lui di notte a liberarla, senza sapere chi fosse, senza che avesse un motivo per aiutarla, risoluto a tirarla fuori dal guaio in cui era finita, pronto a sostenerla, ma alle sue condizioni.

    La pelle si accapponò al ricordo di quella notte. Fa venire i brividi, anche se devo a lui il mio essere ancora viva. Serrò le labbra. È stato il mio salvatore, eppure non ha esitato alla prima occasione a scaricarmi al primo incontrato. Un giudizio ingiusto nei confronti di Ariarn, che si era dimostrato di tutt’altra specie, ma il modo di fare di Periin non le era andato proprio giù.

    Attraversate diverse vie affollate, raggiunsero l’ospedale improvvisato, un fienile ripulito e adibito a ricovero per i feriti. La porta di legno era aperta. L’interno era illuminato da una sola lampada a olio, una fioca luce che non disturbava il sonno dei convalescenti; i giacigli, coperte distese su uno strato di paglia, erano disposti ordinatamente in due file lungo le pareti. In fondo alla sala si trovava una scala di legno.

    Uno dei ricoverati si sollevò dal giaciglio, osservandoli avvicinarsi; parlandogli a voce bassa, Ariarn s’informò dove trovare il guaritore. L’uomo indicò il piano superiore.

    Le assi di legno mandarono sottili scricchiolii sotto il loro peso. Una figura nei pressi dell'ingresso era inginocchiata accanto a uno dei pazienti, una sacca vicino ai suoi piedi.

    «Guaritore» si fece garbatamente avanti Ariarn. «Avremmo bisogno dei tuoi servigi. Siamo stati assaliti dalle bestie fuori città e un nostro compagno ha bisogno di una visita; niente di grave, ma la precauzione non è mai troppa.»

    L’uomo si apprestò a stringere la fasciatura del ferito. «Un attimo solo. Finisco la medicazione e sono da voi.»

    Un barlume di riconoscimento comparve sul volto di Periin, ma sparì prima che gli altri se ne accorgessero.

    Il guaritore richiuse la sacca e si alzò in piedi, girandosi verso di loro.

    Gli uomini si scambiarono occhiate sorprese. L’unico a rimanere indifferente fu Periin.

    «È un piacere rincontrarti, Ghendor» Ariarn porse la mano al Messaggero.

    Ghendor gliela strinse d’istinto, salutando allo stesso modo Reinor. Periin se ne restò in disparte a braccia incrociate, intento a fissare qualcosa nell’ombra che aveva attirato la sua attenzione. Lerida seguì l’esempio di Ariarn, sorridendo cordialmente.

    «Allora chi ha bisogno dei servigi del guaritore?» chiese il Messaggero.

    Allontanatisi dalle persone addormentate, si ritirarono nell’angolo adibito a giaciglio del Messaggero.

    La visita fu breve e Reinor fu dichiarato in buone condizioni, a parte qualche ammaccatura. La fioca luce della lampada riuscì appena a sfiorare i contorni di Periin appoggiato a una colonna a pochi passi dal gruppetto.

    «Da quanto tempo sei qui?» domandò Ariarn.

    «Non più di tre giorni.»

    «Inutile domandare come ci sei finito» interloquì Reinor.

    Ghendor sospirò. «Come tutti quelli che sono giunti fin qui ho avuto fortuna. Viaggiavo solo e per caso non ho incontrato le bestie, altrimenti sarei uno di quei corpi che punteggiano la pianura» pronunciò le parole con una vena di tristezza. «Quando gli animali si sono accorti della mia presenza, ero vicino a Womb Rendin e ho avuto modo di mettermi in salvo. Adesso sono imprigionato quaggiù; come tutti del resto.»

    «Nessuno ha tentato di andarsene?» chiese Lerida.

    Ghendor scosse la testa. «Chi si è salvato, ha visto cosa c’è ad attenderlo se tornasse fuori e non ha intenzione di correre il pericolo di finire sbranato.»

    Le assi scricchiolarono e i quattro si voltarono verso la fonte del rumore. Periin si era avviato verso le scale.

    «Dove stai andando?» gli domandò Lerida.

    «Ho qualcosa di meglio da fare.»

    «Avevi detto che qui non c’era niente ti potesse interessare» rimbrottò la donna.

    «Ho cambiato idea.» La sua voce si udì mentre spariva scendendo le scale.

    Di nuovo l’Ordine a intromettersi nella mia vita. Com’era beffardo il destino: aveva aiutato chi gli aveva causato tanti problemi. Avrei dovuto mollare tutto quando ne avevo l’occasione, lasciare ad altri i problemi di quei maestri di sfruttamento e dispensatori di danni. Invece ho voluto dare una mano a quella donna;un’idealista che si crede salvatrice dovevo salvare pensò irritato Periin lasciandosi alle spalle Lerida. Un tipo di persona che, spinta da quelle che crede essere buone intenzioni, fa più danno che utile. Ma più che altro ce l’aveva con se stesso. Perché mi sono fatto coinvolgere? Perché quando ho incontrato quei sei cadaveri sulla piana non sono andato oltre, invece di fermarmi a esaminarli? Perché ho seguito le impronte degli zoccoli che si dirigevano nella foresta accanto a quelle di un paio di stivali?

    Eppure, non era riuscito ad allontanarsi dalla zona, gli occhi che tornavano a guardare la pista che si dirigeva verso gli alberi.

    Non era stato senso del dovere a farlo muovere verso l’ignota meta, il cui muto canto aveva lo stesso potere delle sirene: lui non doveva niente a nessuno.

    Non era stato senso di giustizia a guidare i suoi passi nella direzione che la sua mente lo ammoniva di non prendere: di giusto al mondo esisteva solo la morte.

    Non era stata compassione a spingerlo in soccorso del prigioniero: la compassione era morta anni prima.

    Non era stata curiosità a indirizzarlo sulla pista: la curiosità aiutava ad accelerare l’incontro con la nera signora e anche se non la temeva, era da stupidi andare a cercarla prima del tempo.

    Non era stato per mettersi alla prova: un uomo che si metteva alla prova a ogni occasione non aveva fiducia nelle proprie capacità.

    Che cosa mi ha spinto ad agire?

    In un istante, un solo minuscolo istante, aveva avuto la sensazione di trovarsi nei pressi di qualcosa di troppo grande, come non aveva mai incontrato nella vita: come se un meccanismo immenso dovesse essere messo in moto per un’impellente necessità cui non ci si poteva esimere. L’inspiegabile sensazione era stata risucchiata via, sparendo com’era scaturita, lasciando l’urgenza incombente di agire.

    Eppure avrei dovuto aver imparato bene la lezione di badare solo a me stesso. Si mise a osservare il traffico.

    Nel via vai di gente anonima e sconosciuta, una figura attirò la sua attenzione, appartenente a una delle più misere classi del cosiddetto mondo civilizzato, oltre alla più indifesa e sfruttata dell’ambiente della strada: quella degli orfani, finiti in mano a chi sfruttava e organizzava la malavita nei bassifondi. Il bambino, di non più di nove anni, vagabondava per la via, la mano protesa a mendicare l’elemosina, ricevendo indifferenza, insulti e spintoni. Una vita magra, fatta solo di briciole.

    Gli occhi fissi non lo videro più, ritornati indietro di anni.

    Nascosto nell’ombra di un angolo di una via, stava in attesa del tutore, osservando la gente passare. Da tempo quella era la sua vita e anche se si era imposto di farcela da solo, senza l’aiuto di nessuno, la sua risoluzione si era scontrata con la realtà, piegandosi alla legge della strada e accettando la protezione dell'uomo che l'aveva preso con sé.

    Aveva imparato in fretta le lezioni sulla sopravvivenza, ma c’era un prezzo da pagare. Presto aveva raggiunto il limite della sopportazione: non voleva vivere di sotterfugi, ingannando e colpendo la gente alle spalle per procurarsi da mangiare.

    Era stanco e aveva riferito la decisione al tutore, affrontandolo a muso duro, deciso a cambiare le carte in tavola, sicuro che esistesse un altro modo per sopravvivere. Aveva sfogato tutta la sua rabbia e frustrazione, conscio della punizione che il tutore poteva infliggergli.

    Invece non era accaduto nulla.

    Il tutore l’aveva ascoltato senza nessuna obiezione, lasciandolo parlare. Se n’era andato senza proferire parola quando aveva finito.

    Erano trascorsi due giorni dal discorso quando il tutore lo prese con sé, portandolo in una via conosciuta nel loro campo come la zona dei mendicanti: bambini, vecchi, storpi frequentavano in gran numero quella parte della città.

    Non aveva capito perché erano lì; forse era dovuto al fatto che durante il loro incontro aveva detto che il mendicare era di gran lunga migliore del loro modo di vivere. Forse il tutore voleva fargli cambiare idea mostrandogli le umiliazioni subite a seguire quella scelta. A un suo cenno, al giungere della sera, si erano mossi. In silenzio avevano camminato lungo vicoli oscuri e deserti, fermandosi al riparo di un vecchio androne.

    Erano trascorsi solo pochi minuti quando nella via era comparso un ragazzo minuto e macilento: riconobbe in lui uno dei mendicanti che aveva osservato durante la giornata. Quando fu vicino a un edificio a tre piani con porte e infissi scardinati e pendenti, gli si pararono davanti due figure sbucate dalle ombre circostanti. Senza proferire parola il ragazzino aveva estratto da sotto gli abiti un sacchetto e lo aveva consegnato a uno dei due. Slegati i lacci, l’uomo lasciò cadere sul palmo della mano le monete che conteneva.

    Il giovane parve farsi più piccolo sotto lo sguardo accusatore dell’uomo, incapace di proferire la benché minima parola.

    Senza aprire bocca l’uomo si voltò, allontanandosi con passi lenti e misurati. Il giovincello lo inseguì, prendendolo per un lembo del vestito e pregandolo insistentemente. Con uno scatto l’adulto si liberò e disse qualcosa al compagno. L’altro afferrò il giovinetto per una spalla e lo costrinse a girarsi: la spada corta si piantò nell’addome fino all’impugnatura.

    In uno stupore attonito, il ragazzino morì dissanguato al suolo, osservando quelli che considerava i suoi protettori allontanarsi nella sera.

    Era la prima volta che vedeva morire qualcuno: paralizzato, era rimasto a guardare il ragazzino agonizzante. Non poté fare niente per aiutarlo, dato che il tutore non glielo permise: lo costrinse a osservare fino alla fine, anche dopo che la morte si era portata via la vita dal corpicino esile.

    «Questo è quanto succede a chi si affida agli altri e non è in grado di badare a se stesso» furono le dure parole rivoltegli. «Ti sto insegnando a non aver bisogno di nessuno: è molto di più di quello che potresti ottenere da solo o con individui di quella specie. È uno schifo, è vero, ma è meglio che vivere in quel modo.»

    La risposta al suo moto di rivolta e sdegno. Consapevole di non avere ancora i mezzi per fare diversamente, strinse i denti e continuò a seguire il tutore. Ciò che gli permetteva di sopportare quella vita era la speranza un giorno che le cose sarebbero cambiate e lui non avrebbe avuto più niente di cui avere paura.

    Alla fine c'era riuscito, divenendo ciò che era.

    Quanti di questi ragazzi seguirebbero la mia stessa strada per riuscire a sopravvivere? pensò mentre si avviava verso un vicolo laterale.

    Il ritmico respiro degli addormentati nella penombra accompagnava la discussione dei quattro.

    «Come siete giunti fin qui posso immaginarlo, ma come mai vi trovate insieme?» Fu la volta di Ghendor fare domande. «Dopo Nhal credevo che ciascuno avesse preso la propria strada.»

    Ariarn e Reinor si scambiarono un’occhiata. «Infatti, è andata così, ma a quanto pare si sono intrecciate di nuovo e abbiamo fatto un nuovo acquisto» sorrise guardando Lerida. «Merito di Periin: quando l’ho incontrato era già in sua compagnia.»

    Lerida si guardò i piedi, a disagio nel dover tornare di nuovo sull’argomento. «Se non fosse stata per la missione dell’Ordine e per l’imboscata in cui sono caduta, non ci saremmo mai incontrati. E non credo che ne avrei sentito la mancanza» aggiunse con una certa amarezza.

    «Che missione ti ha affidato l’Ordine?» s’informò Ghendor.

    La donna parve titubante nel rivelare informazioni a riguardo. Il fatto però che fosse stato un Messaggero a fargli quella domanda allentò i lacci della sua guardia. «Non conosco i dettagli: mi è stato semplicemente detto che la missiva da consegnare a Hatieven ha priorità assoluta e che da essa dipende la sorte di centinaia di vite» chinò il capo sconsolata. «Ma ora sono bloccata qui.»

    Ghendor assunse un’espressione seria ascoltando le sue parole. Comprendeva i sentimenti della donna, ma lei ignorava la fortuna di cui godeva: non aveva il peso della conoscenza di come stavano realmente le cose; alla fine della missione avrebbe potuto avere la soddisfazione di essere stata d’aiuto per le persone in pericolo e questo avrebbe alleviato le pene e le tribolazioni patite nell’adempimento del suo dovere. Per lui questo non era possibile, data la vastità delle informazioni in possesso. All’arrivo a Hatieven non avrebbe goduto della ricompensa di sentirsi d’aiuto nella missione; non sapeva neanche se sarebbe stato d'alcun giovamento nella ricerca. Sapere che gli sforzi profusi potevano essere inutili era un ulteriore fardello da portare.

    Ariarn si alzò in piedi. «Per questa sera non risolveremo i nostri problemi. È stata una giornata provante; domani vedremo di trovare una soluzione. Possiamo alloggiare qui?»

    «Nessun problema. Nell’angolo troverete paglia, coperte e cuscini» rispose il Messaggero.

    Reinor salutò e, procuratosi il materiale, si preparò la sistemazione per la notte. Lerida seguì il suo esempio.

    Solo Ariarn e Ghendor rimasero ancora alzati, anche se la lampada fu spenta.

    Gli occhi si adattarono presto alla stanza; la luce lunare che filtrava tra le crepe del muro e delle fessure in alto creava chiazze argentee nella stanza, facendola sembrare il manto di un felino maculato. Guardando le bianche scie luminose rimasero in silenziosa meditazione, ognuno assorto nei suoi pensieri. I gemiti del sonno agitato di un ferito li riportarono alla realtà.

    Un profondo respiro si alzò dal torace di Ghendor. «Tutta questa situazione è irreale; come fa a esserci una spiegazione logica a quanto sta accadendo?» disse sussurrando tra sé. «Sembra di vivere i sogni di una mente posseduta dalla pazzia.»

    «La realtà è fatta anche di pazzia, solo che a volte non ce ne rendiamo conto, fino a che non esplode in tutta la sua forza. I semi della follia sono sparsi ovunque e quando emergono non si è preparati alla loro irrazionale crescita» rispose piano Ariarn. «Proprio com’è successo quando ci siamo incontrati per la prima volta nella carovana diretta a Nhal e siamo stati attaccati dagli orchi: non si sono mai viste così tante di quelle creature operare insieme. Soprattutto, non si sono mai visti orchi così organizzati, come se fossero stati addestrati.» Giocherellò con uno stelo di paglia. «La gente mormora di presagi di sfortuna e malattia; ha paura ad andare in certe regioni, come il Maliadan. Pensa che il mondo stia impazzendo.»

    «Posso comprendere la pazzia, la storia è piena di esempi: guerre, tirannie e ogni cosa deplorevole legata all’uomo. Ma quanto sta accadendo è diverso» Ghendor si voltò a guardare un ferito che si era rivoltato nel suo giaciglio. «Non è la prima volta che gli uomini vengono assaliti dagli animali, ma mai con una simile ferocia e mai prede e predatori hanno cacciato insieme. Non è neanche una caccia: li dilaniano, ma non si cibano di loro, li lasciano dove li hanno uccisi. Sembrano diventati umani: solo l’uomo uccide per il gusto di farlo.» Strinse i pugni. «La gente fa finta di condurre ancora una vita normale, ma se la guardi in faccia, vedi il suo smarrimento; è terrorizzata e ha ragione di esserlo» sospirò. «Non capisco perché gli animali si accaniscono tanto contro l’uomo e non si sbranino tra loro. Quale malattia può farli impazzire fino a questo punto?»

    Quasi un sussurro, la voce di Ariarn scivolò nella notte. «Nessuna malattia è in grado di farlo.»

    Ghendor rimase stupito dall’affermazione. «Come hai detto?»

    Il tono di Ariarn si mantenne lieve, come se le sue parole potessero risvegliare i presenti. «Le malattie indeboliscono e deperiscono i corpi, portandoli al collasso. Non ci troviamo di fronte a una di esse.»

    «Come fai a dirlo?»

    Ariarn fissò il pulviscolo che danzava nella luce lunare. «Ho visitato una delle bestie morte: nessun segno di deperimento. Il corpo era in ottima forma: nessun indebolimento dei muscoli che rivelasse l’incedere di un morbo o qualsiasi altro elemento che potesse indicare presenze anomale nell'organismo. La bestia uccisa era sana.» Inspirò l'aria della notte. «Se fosse una malattia a far impazzire gli animali, a quest’ora si sarebbero uccisi tra loro, come hai già notato tu, e non si accanirebbero contro l’uomo in un’assurda alleanza. Nessuna malattia fa sviluppare comportamenti simili; è qualcosa che va oltre la comprensione e conoscenza umana.»

    «C’è qualcosa che tu sai di tutta questa faccenda?» chiese Ghendor dopo aver riflettuto sulle sue parole.

    «Non ho risposta a quanto sta accadendo, né spiegazione.» Ariarn si alzò in piedi. «Credo sia meglio cercare di dormire.»

    Guidato dalla luce lunare si diresse a prepararsi il suo giaciglio. «Lasciamo i pensieri per l’indomani e vediamo se il nuovo giorno porterà buone nuove.»

    Ghendor rimase al suo posto, non convinto dalle parole appena udite. C’è qualcosa che non vuole dire. Proprio come ha fatto l’Ordine. Almeno fino a quando non è stato costretto a rivelare quanto sta succedendo.

    Per quanto sentisse il bisogno di riflettere sull’argomento, decise di distendersi sotto la coperta e attendere l’arrivo del sonno. Poco dopo le palpebre si abbassarono, avvolgendo la mente in un riposo senza pensieri.

    II. Via di fuga

    Ghendor uscì dall’ospedale improvvisato, andando per le strade piene di profughi che giorno dopo giorno si riempivano sempre più di sporcizia e di puzza. Non è come quando uscivo dal complesso del Tempio e mi avviavo verso casa, percorrendo vie sempre meno affollate fino ad arrivare alle porte della città, dove l’aperta campagna spaziava con alberi e declivi e i campi biondeggiavano di grano pronto a essere mietuto.

    Il ricordo delle passeggiate fatte da bambino con la madre nei luoghi dove era nato riaffiorò alla memoria. Rammentò le camminate nelle giornate primaverili con la miriade di colori e profumi che spuntavano da ogni dove e quelle dei freddi giorni invernali, infagottato sotto una coltre di abiti pesanti; passeggiate sempre limitate dallo studio che vedeva come un nemico cui sottrarsi. Ogni ora passata sui libri era tempo rubato all’aria aperta; più di una volta era stato richiamato dalla madre a non distrarsi quando era trovato a guardare fuori della finestra con sguardo perso, desideroso di correre libero.

    Attraversando un incrocio affollato e voltando nella via alla sua destra, rammentò della svolta che affiancava un piccolo boschetto di querce prima d’essere in vista del suo villaggio. I dolci declivi che da lì si vedevano erano un misto di coltivazioni e natura libera che si alternavano senza uno schema preciso, inframmezzate dai riflessi argentei dei ruscelli che parevano fare l’occhiolino. Poco distante c’era un piccolo stagno all’ombra di alberi slanciati. Specie d’inverno, quando gli alberi non più coperti di foglie si stagliavano contro lo sfondo del cielo limpido e lui era bambino, si fermava a giocare nei pressi del piccolo specchio d’acqua. Il suo passatempo preferito era scagliare sassi contro la crosta ghiacciata: tondi, appuntiti, alcuni talmente pesanti che riusciva a malapena a sollevarli. Li lanciava contro di essa, sempre con lo stesso risultato: il ghiaccio si crepava, formando sottili linee simili alla tela di un ragno, ma non si rompeva. E lui determinato ripartiva alla ricerca del sasso che avrebbe sfondato la dura superficie; era troppo ostinato per capire che lo spessore del ghiaccio era oltre le sue forze di bambino, convinto che provando e riprovando sarebbe riuscito a farlo cedere. La madre lo richiamava quando era accaldato e sudato, riprendendo il cammino verso casa per timore che prendesse un malanno. L’incontro con il lago era rimandato alla volta successiva, quando era sicuro che avrebbe trovato il modo di averla vinta. Per anni era andato avanti con quel gioco e alla fine di ogni inverno la superficie ghiacciata era sempre coperta di sassi; con tutti quelli che aveva lanciato, il laghetto doveva essersi riempito. Sorrise al pensiero.

    Il sorriso svanì dinanzi a un gruppo di mendicanti che chiedeva la carità. Non posso fare nulla per loro, se non trovare una soluzione a quanto sta accadendo. Ma come posso farlo, se non so nemmeno da dove cominciare? Il senso d’impotenza lo incalzò opprimente. Ultimamente non riesco a fare proprio niente per gli altri.

    Davanti agli occhi aveva ancora i volti dei due uomini colpiti mortalmente dagli orchi durante il viaggio di ritorno a Nhal.

    Uno era molto giovane, partito alla ricerca di fortuna e ansioso di vedere il mondo, di scoprirne i suoi segreti. E il mondo, senza permettergli di assaporarne altri, gli aveva rivelato l’ultimo. Nel freddo abbraccio della nera signora, che lo cullava per farlo addormentare nel sonno eterno, il giovane aveva invocato la propria madre, come un bambino piccolo che aveva paura del buio. Nessuna parola di conforto era riuscita a raggiungerlo, perso com'era nel delirio dal quale non vi era ritorno.

    Con senso d’impotenza, non aveva potuto fare altro che chiudere gli occhi fissi, pietrificati nello stupore e nel senso di perdita di qualcosa che non si sarebbe mai potuto godere.

    L’altro ferito aveva assistito alla scena guardandolo con triste consapevolezza. «Non te la prendere per noi: è la vita di chi ha scelto di usare le armi» aveva detto l’uomo di mezza età.

    Le condizioni del ragazzo erano disperate per poterlo riportare indietro dal luogo dove si stava recando, ma per l’altro c’erano ancora possibilità di salvezza. Fino a quando non aveva udito la sua richiesta: voleva essere lasciato morire.

    Nonostante il pronto diniego, il moribondo aveva insistito, stringendogli il braccio con una forza che non riteneva possibile viste le condizioni in cui versava; prima che potesse replicare, si era ritrovato ad ascoltare una storia di dolore e di tristezza.

    Dalle sue parole aveva capito che possedeva un animo sensibile, non rude e senza scrupoli come ci si poteva aspettare da un mercenario. L’uomo, di cui non conobbe mai il nome, gli aveva confidato che non erano i soldi il motivo per cui si era arruolato: cercava la morte. Non riusciva a sopportare di vivere dopo aver perso tutte le persone care, ad andare avanti da solo; troppo grande il peso da portare. Ma non aveva il coraggio di togliersi la vita da solo.

    «La vita è sacra» aveva asserito. «Potrò sembrare ipocrita a dire una cosa simile, visto il lavoro scelto, ma lascia che ti confidi una cosa: non ho mai ucciso nessuno. Ho visto troppe volte la morte per diventare un suo collaboratore. Non sono mai stato un uomo di fede, ma ho sempre pensato all’aldilà come un luogo di pace in cui stare con i propri cari. E i miei sono là che mi stanno aspettando. Ti prego, lasciami andare» aveva parlato in tono stanco ma calmo.

    Nell’ascoltarlo non si era accorto del tempo che passava e così l’uomo aveva ottenuto quello che cercava.

    «Grazie» aveva sentito dire mentre cercava delle erbe nella sua borsa. Quando si era voltato, l’uomo aveva lo sguardo fisso, un debole sorriso sulle labbra. Il suo desiderio si era avverato: aveva lasciato quel mondo che non sentiva più suo.

    Tutta questa sofferenza… ce n’è troppa… Si affrettò ad attraversare le vie, raggiungendo il tempio della cittadina. Attraversò la piccola piazza affollata di profughi, dirigendosi verso la porta della parete meridionale; provò un senso di sollievo mentre varcava la soglia, lasciandosi il vociare delle persone alle spalle.

    Passando nello spazio tra le panche di legno lucido e i cancelletti di ferro battuto delle cappelle laterali, si soffermò a guardare le pareti spoglie da dipinti: non era come il tempio di Nhal, ricco d’immagini delle manifestazioni dei Messi, venuti per guidare l’umanità e rivelare al mondo la verità sul regno superiore.

    Ghendor si sedette su una panca. Sarebbe bello se in questo momento tornassero a manifestarsi sospirò. Sappiamo così poco di loro, malgrado tutte le tracce che hanno lasciato per giungere alla Rivelazione. Potrebbero essere i portavoce di una o più entità superiori; oppure essere proprio quell’entità superiore venuta a sostegno degli uomini in passato. Quale che sia la verità, una loro mano adesso farebbe veramente comodo.

    Fissò la parete spoglia in penombra, rischiarata dalla luce di candele accese dai fedeli. Osservando le fiammelle, ripensò al dipinto di una donna su un terreno roccioso con il volto alzato a guardare una sfera luminosa a poche spanne dal suo capo, poi quello di un giovane seduto su una panchina di pietra con accanto una bellissima dama dai lineamenti fini e delicati: il ragazzo aveva lo sguardo triste, ma la donna con una mano appoggiata sulla spalla sembrava rinfrancarlo con la sua presenza.

    Piacerebbe anche a me qualcuno in grado di rincuorarmi, ma sono solo a fronteggiare questa situazione: non c’è nessuna guida a indicarmi la via. D’istinto il pensiero andò al dipinto del tempio di Nhal che preferiva. Un vero e proprio cimelio: alcune leggende narravano di come il dipinto fosse presente in quel luogo ancor prima che l’edificio e la città stessa esistessero; si diceva anche che da quando era sorto il tempio non avesse mai avuto bisogno di un restauro. Ciò che colpiva era la bellezza magnetica che catturava lo sguardo: era come se le figure non fossero dipinte, ma congelate, non aspettando altro che il momento del risveglio. A un primo impatto sembrava la rappresentazione di uno dei più cupi incubi dell’uomo: in una foresta avvolta nelle tenebre della notte stavano in agguato figure oscure, la loro presenza svelata da occhi rossi tra arbusti scheletrici, zampe artigliate posate sulle rocce; persino gli alberi contorti sembravano possedere fauci pronte a dilaniare.

    Tuttavia non erano la paura e il terrore a prevalere. Le immagini nere parevano allontanarsi quando lo sguardo si posava sulla luminosa parte centrale del dipinto. Un bambino, vestito di luce calda e amorevole, guidava per mano un vecchio, incurante di quello che li circondava, come se i mostri non potessero nuocergli. La dolcezza irradiata dal volto innocente rasserenavano l'animo, facendo calare una quiete profonda, che riecheggiava di una promessa di pace dalle difficoltà e dai pericoli incontrati lungo il cammino da affrontare. Era come se il bambino celestiale sussurrasse che tutto andava bene, che c'era sempre qualcuno al fianco disposto ad aiutare.

    Peccato che non sia così. Perché se c’è una qualche presenza invisibile che ci osserva e ci guida, io non riesco a percepirla lasciò che lo sguardo vagasse sull’interno del tempio. Dovrebbe essere un luogo di conforto, ma riesco a percepire solo la freddezza della pietra che mi circonda. Mi sembra così… spoglio. Non è come a Nhal.

    Gli occhi si posarono sulle due statue che stavano davanti all’altare, soffermandosi su quella che stava alla sua destra. Ecco St. Harphel, il Primo Messaggero. Il primo cui erano apparsi i Messi, grazie al quale la religione era stata riscoperta. Secondo la testimonianza del sant’uomo di quanto le entità misteriose avevano rivelato, prima della civiltà in cui vivevano n’era esistita un’altra più evoluta, alla quale era stata donata tutta la conoscenza del mondo; fu proprio la troppa conoscenza, la causa dell'evento apocalittico che la spazzò via: gli uomini di quel periodo non avevano saputo comprenderla, facendone un pessimo uso. Per evitare il ripetersi della sciagura, i Messi avevano cambiato modo d'agire: doveva essere l’uomo con la sua ricerca ad arrivare a scoprire e conoscere il Divino. Per questo era sorto l’Ordine della Rivelazione.

    Restò a osservare il volto scolpito del Primo dei Messaggeri. La storia narrava di una vita piena di difficoltà e tribolazioni, d’abbandono e solitudine a causa di quanto professato. Preso per pazzo, rischiando spesso la vita, aveva sempre perseguito la via della verità. Molti aneddoti raccontavano di come le forze dell’aldilà intercedevano per mano sua, concedendogli la facoltà di operare miracoli. In questo momento farebbero molto comodo. Un pensiero infantile, che se fosse stato tramutato in parole e udito dai suoi superiori gli avrebbe portato una severa reprimenda: l’Ordine non faceva nulla per smentire simili racconti, tollerandoli perché utili per avvicinare la gente al messaggio della Rivelazione, ma non credeva che fossero reali, ritenendoli semplici metafore del percorso intrapreso dal sant’uomo.

    A una distanza di pochi metri stava la figura marmorea di St. Gjanallar, con uno scudo sotto i piedi e una mazza assicurata alla cintura: il primo fra i Messaggeri a impugnare le armi per difendere la causa della Rivelazione. Una storia la sua che non aveva nulla da invidiare ai sogni più gloriosi: uno dei migliori strateghi e condottieri del suo tempo, conteso a peso d'oro dai regnanti d'ogni nazione, una leggenda per l'epoca in cui era vissuto. Fama, successo, gloria: tutto era stato nelle sue mani. Nessuno seppe spiegare quel che accadde a un certo punto della sua vita, ma in breve tempo rinunciò a quanto aveva per unirsi allo sparuto gruppo di Messaggeri che andava formando l'Ordine della Rivelazione. Dietro la sua scelta c’era la presenza dei Messi: gli avevano mostrato una visione nuova del mondo, donando un senso a una vita che non stava dandogli più nulla. In un periodo in cui i Messaggeri venivano scacciati, messi a tacere e uccisi dai più forti, St. Gjanallar insegnò loro come forza e abilità nelle armi potevano essere poste al servizio della Rivelazione, perché anche verità e giustizia avevano bisogno di mezzi per difendersi e colpire la malvagità e le iniquità del mondo. Per questo tutti i Messaggeri da quel momento furono addestrati anche al combattimento: una scelta che poteva non piacere, ma necessaria.

    Dovrebbero esserci uomini come lui in questa situazione, non io. Che cosa posso fare in questo caos? Che cosa posso fare con questo male che sta colpendo così tante persone? sospirò. Eppure ci sono solo io: nessun eroe, nessun Messo che venga in aiuto.

    «Se il Divino è in tutte le cose, allora è anche nel male: se è così, allora è lui che permette che avvengano tutte le cose brutte che capitano.»

    Se fosse così, saremmo veramente nei guai pensò ricordandosi della frase di uno dei ragazzi più grandi cui insegnava.

    «Il male esiste perché è l’uomo ad aver permesso la sua esistenza. Ed è avvenuto a causa della paura, di un modo distorto di vedere le cose. È così che si hanno le manifestazioni più elevate di male: omicidi, stragi, guerre. Chi si lascia possedere dalla paura perde la propria identità, divenendo uno strumento di ciò che l'ha posseduto» aveva risposto al ragazzo. Poi aveva tirato in ballo il libero arbitrio, la responsabilità delle scelte; aveva paragonato il bene e il male con acqua che scorre e acqua stagnante e la consapevolezza a un sole che illumina: tutte immagini che credeva aiutassero la classe cui insegnava, ma che ora si accorgeva essere solo cose vuote. Ora comprendo quello che voleva dire Lient.

    «Non si tratta di avere le idee confuse: è qualcosa di più profondo. È qualcosa che ti cresce dentro, lentamente; all’inizio non te ne accorgi, avverti un piccolo disagio in qualche rara occasione, anche la più banale; non ci dai alcun peso, ritenendola un’emozione momentanea destinata a passare. Con il tempo si affaccia sempre di più nella tua vita, fino a quando diventa la tua vita, prende possesso di te e non ti lascia più. Ogni giorno che passa diventa più pesante trovare uno stimolo per andare avanti, finché è solo l’inerzia a trascinarti dietro di sé. L’esistenza diventa vuota, tutto perde di significato. È questo che ho dentro. Perciò è meglio mollare tutto: non sono d’aiuto a nessuno, continuerei solo a seguire una scelta un tempo valida, che ora non lo è più»

    Vorrei anch’io poter mollare tutto strinse le mani a pugno. E invece sono qui, come se dovessi recarmi in un posto di cui non so nulla. Nessuno sa dare indicazioni, occorre andare alla cieca, provando e riprovando, sperando di trovare quelle strade nascoste che conducono alla meta.

    Più pensava e più gli pareva assurdo che un simile compito fosse stato affidato proprio a lui.

    Non si era mai sentito così fragile come in quel momento: solo allora si rese conto quanto della sicurezza posseduta dipendesse dalle radici che la terra natia aveva piantato nel suo cuore. I luoghi in cui era cresciuto, la gente che conosceva, le rassicuranti e piacevoli abitudini perpetrate nel tempo, gliel'avevano fatta acquistare. Ora tutto questo era venuto a mancare.

    Tirò fuori da sotto la tunica il medaglione datogli dalla madre. Lo sollevò fino all’altezza del volto, lasciando che la catenella fluisse tra le sue dita: era fatta di un metallo a lui sconosciuto, ma l’ottima fattura del materiale non lasciava dubbi sulla resistenza di quella che doveva essere una lega speciale. Passò le dita lungo il bordo del medaglione, sentendo le scritte intagliate in una lingua sconosciuta; sembrava che fossero poste a protezione del simbolo abilmente cesellato al centro: una spada con la punta piantata nel terreno accarezzata dai raggi del sole che spuntavano da dietro le montagne. Sull’elsa con fattezze di giglio era posata una colomba.

    Rimaneva sempre stupito della ricchezza e dalla cura dei particolari con cui l’oggetto era realizzato, ma erano la spada e il volatile quelli che lo colpivano di più. Elsa e lama non erano due parti separate che formavano un intero, ma un tutt’uno, uno strano quanto mai affascinante ibrido, che in sé racchiudeva la delicata gentilezza del fiore e la forte durezza dell’arma. La dolce colomba non era posata sull’elsa per riposarsi dopo un lungo volo, ma dava l’impressione d'essere la guardiana dell’arma. Gli occhi indagavano in profondità, come a voler oltrepassare le semplici apparenze.

    Ripose il medaglione sotto la tunica. Tutte le volte che lo osservava aveva l’insinuante sensazione di essere sottoposto a giudizio, ritrovandosi immerso in un’atmosfera surreale, quasi onirica, con lo sguardo che si addentrava sempre più nel disegno dell’amuleto e i suoi dettagli che si facevano più vividi, fino a quando non aveva l’alienante sensazione che l’oggetto avesse raggiunto le sue stesse dimensioni. Sospirò, allontando simili riflessioni e ripensando all'ultima frase che la madre gli aveva rivolto.

    «Vedrai, la separazione non sarà lunga come pensi: fra non molto saremo di nuovo riuniti».

    Non credo che potrò tornare a casa tanto presto. La parentesi di pausa dalla missione a Markal era stata troppo breve. Erano stati giorni di quiete e di serenità, guidati dai lavori della quotidianità e dalle chiacchiere scambiate con le persone che conosceva da una vita: dopo una lunga assenza dalla terra natale, il ritrovarsi immerso di nuovo in quella realtà era stata una manna discesa dal cielo. Lontano dalle grandi città, il suo villaggio, un insediamento che sorgeva al centro di un piccolo avvallamento tra le colline, sviluppandosi attorno al pozzo dal quale la gente attingeva l’acqua, era un piccolo paradiso. Non era nulla d’eccezionale: un paesino che dava ai suoi abitanti il necessario per condurre una vita dignitosa, che non attirava avidi sguardi, permettendo di vivere un’esistenza serena, anche se forse monotona. Ma a lui piaceva così, non l’avrebbe scambiato con nulla al mondo. Come non avrebbe scambiato la sua casa. Costruita in sassi, aveva muri spessi che tenevano freschi gli ambienti d’estate e caldi d’inverno. Il tetto, ricoperto da tegole di color ocra spento, spioveva dolcemente, con la grossa trave su cui poggiava che sporgeva dalla facciata. Una piccola finestrella ovale posta sotto di esso portava luce alla bassa soffitta che fungeva da ripostiglio per attrezzi. Fiori e pianticelle profumate crescevano in vasi sui davanzali delle finestre.

    Gli mancava casa sua, ma soprattutto gli mancava il profumo del pane appena sfornato, il poter tenere tra le mani le pagnotte calde e inspirare avidamente il fragrante aroma che si levava nell’aria quando le spezzava.

    Il peso della situazione lo riportò alla durezza della realtà, acuita dalla paura che durante

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