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L'amico speciale
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E-book290 pagine4 ore

L'amico speciale

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Info su questo ebook

A Palermo si può diventare adulti in una notte

Tra i bambini della Tonnara, un quartiere povero di Palermo, Saro spicca per la sua intelligenza. Ha solo dieci anni ma sogna in grande: vuole fare il carabiniere come suo zio Mario, nonostante l’odio che il padre nutre per quell’uomo e per la divisa che indossa. Il migliore amico di Saro, Carmelo, detto ’u Cinese, è un tredicenne affetto da sindrome di Down, che vive in una povera casa insieme alla nonna. I loro giorni trascorrono in strada, tra giochi sotto il sole, le angherie dei ragazzi più grandi e piccoli furti, quando la fame si fa sentire. Finché una sera tutto cambia. In fuga da casa insieme con Carmelo, dopo aver assistito a una scena che lo ha sconvolto, Saro attraversa Palermo in un viaggio che dura una notte. Una notte costellata di incontri con chi inizia a vivere quando cala il buio: un professore costretto a lavori umilianti per pagare i suoi strozzini, una vecchia signora che ormai vive di fronte alle slot machine, una prostituta sola e sfruttata ma capace di regalare affetto ai due ragazzini. E mentre il quartiere si desta, preoccupato per la loro scomparsa, e ribolle per vecchi dissidi esplosi tra i suoi abitanti, Saro e Carmelo si trovano ad affrontare un evento più grande di loro. Una fuga iniziata anche per gioco può avere un epilogo tragico. In una Palermo affascinante e contraddittoria, in cui si stagliano personaggi violenti ma anche figure profondamente umane, la storia di un’amicizia intensa, capace dei gesti più eroici.

L'amicizia tra due ragazzi destinati a diventare troppo presto adulti, tra vicoli, strade e palazzi di una Palermo buia e violenta

«Uno dei romanzi più belli che leggerete quest’anno.»

«Un libro che risveglia il puro piacere della lettura, brillante, originale e sicuramente avvincente.»

«Racconta alla perfezione l’atmosfera del Sud Italia nelle sue varie sfaccettature. Da leggere assolutamente.»

Luca Guardabascio
È un regista e sceneggiatore italiano. Lavora tra l’Italia e gli Stati Uniti e le sue sceneggiature sono tradotte in tutto il mondo. Insegna Storia del cinema italiano in alcune università americane.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2019
ISBN9788822733009
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    L'amico speciale - Luca Guardabascio

    Capitolo 1

    Le creature della Tonnara

    In strada i pescatori discutevano degli incassi del giorno appena trascorso e cercavano di piazzare l’ultimo pescato regalandolo per pochi spicci alle donne del rione.

    I bimbi magri e abbronzati giocavano distraendosi sotto i raggi dorati del sole che li proteggeva e li accudiva; quei pupi erano come figli di nessuno, gridavano, si insultavano e ridevano per strappare ancora attimi di spensieratezza all’inevitabile miseria che di lì a poco li avrebbe soffocati.

    I bimbi della Tonnara di quel sole erano figli e della sua luce si nutrivano occhi e sorrisi macilenti.

    Erano tutte creature senza speranza di rincasare per riempirsi lo stomaco con le briciole.

    «Le briciole, scavando qua e là… si trovano sempre», raccontava un vecchio di passaggio mentre con una mano si riparava dai raggi del sole e con l’altra si toccava la pancia.

    Era quasi ora di pranzo. «I briciole, mangiamu i briciole», gridava il grosso Carmelo mentre gli altri bambini continuavano a rincorrersi senza prestargli ascolto.

    Carmelo era stupido, scimunito si diceva, e tutti lo chiamavano ’u Cinese a causa dei suoi particolarissimi tratti somatici.

    Le briciole, però, non riempiono le panze e proprio per questo motivo le creature bevevano tanta acqua.

    Le creature. Era proprio così che le vecchie del quartiere parlavano dei bambini della Tonnara.

    Erano più vispi di una trottola, mai domi nei piccoli giochi che quotidianamente regalavano alle loro giovani vite. Di tanto in tanto si fermavano in cerca di acqua per ricarburare e tornare a scatenarsi, forti della loro impavida incoscienza.

    Eccoli tutti in fila a tracannare a labbra aperte quella fresca e dissetante che sgorgava dalla cannula del fontanone, un piccolo tubo che spruzzava energia pura. Qualcuno teneva l’acqua in bocca e la sputava in faccia agli altri. Carmelo era una vittima designata di questi scherzi; a volte rideva, altre piangeva. Quel giorno, ad esempio, se ne restò fradicio e felice perché tutti decisero di schizzarlo. Carmelo amava le attenzioni anche se a volte gli procuravano malanni e dispiaceri.

    «Meglio non abituarsi a mangiare tanto, altrimenti si diventa viziati».

    «Lo stomaco più mangia più ne vuole e questo fa male al cervello».

    «Si sa che la panza piena ha sempre reso meno esperti e furbi gli uomini», motteggiavano i saggi del rione giocando a briscola su quei tavolinetti di legno accroccati davanti ai portoni.

    La piazzetta della Tonnara era un ammassarsi di teste canute o calve che passavano le giornate a sputare sentenze e dispensare insulsi consigli concludendo con la solita frase: Era megghiu quannu stavamu peggiu.

    Erano tutti ex pescatori cotti dal sole nella pelle e nelle idee, a cui i giovani lupi di mare, rispettosi di un passato glorioso, regalavano il pescato avanzato dopo ore di mercato.

    I saggi, in quel micromondo, se ne stavano tutto il giorno a babbiare e a scommettersi i pochi centesimi che le mogli o le figlie si erano sudate.

    Le donne, da par loro, lavoravano sino a tarda età.

    Rammendavano, cucinavano, vendevano cose. Raccoglievano pomodori o frutta nei campi e alcune di loro, nonostante vivessero al mare, conoscevano soltanto il rumore sinistro che l’acqua faceva in inverno. Gli altri uomini, quelli che si credevano furbi, tornavano dalla città verso il tramonto con la pancia già piena e la gola ben annaffiata dall’alcol. Avevano relazioni clandestine, affari da sbrigare, contatti da prendere o Gratta e Vinci da consumare con un pezzo da due centesimi.

    Le famiglie più fortunate facevano un pranzo completo una volta a settimana, al massimo due se c’era una festa particolare o una partita di calcio che i mariti avevano voglia di seguire a casa, davanti alla tv.

    I bambini erano belli, nonostante la fame e le escoriazioni che andavano ammucchiandosi di gioco in gioco su braccia e gambe. Le crosticine, dopo qualche giorno, prendevano il posto del sangue vivo e si tramutavano in miriadi di bassorilievi stampati su quelle carni giovani ed elastiche.

    Saro, dieci anni e ventisette denti in bocca, si distingueva dai suoi compagni perché amava lo studio ed era arrivato senza intoppi all’esame di quinta elementare prendendo un tondo distinto, tutta farina del suo sacco. Non era molto studioso, ma tra i suoi coetanei, di sicuro, era quello che brillava maggiormente per furbizia, intelligenza, curiosità e per il desiderio di vestire l’uniforme da carabiniere, come suo zio Mario.

    Mario, il fratello della mamma di Saro, era appena stato in guerra, almeno così raccontava il bambino confondendo una missione di pace con le battaglie pirotecniche che vedeva in tv nei film con Vin Diesel, Steven Seagal o Jean-Claude Van Damme.

    Ora però la madre aveva dovuto vendere l’apparecchio televisivo in cambio di due giorni di spesa al mercato.

    In assenza di immagini in movimento, il ragazzo non faceva altro che rileggere vecchie cartoline spedite dallo zio e stipate in un cassetto. In particolar modo si faceva rapire dalla foto che troneggiava su una parete dello stretto corridoio marroncino. Saro fissava quella foto come se tutto il resto per lui non avesse importanza. La luce polverosa e bianca filtrava dalle imposte in legno per infrangersi sulle gambe nude del ragazzino. I pescatori giù in strada gridavano ancora in cerca degli ultimi clienti.

    Molti chiamavano Saro con il soprannome di Napulione, non perché conoscessero il personaggio storico, ma perché il bimbo era nato all’ospedale Cardarelli di Napoli.

    La mamma era andata a trovare lo zio Mario, ferito in modo superficiale in uno scontro a fuoco; un po’ il viaggio, un po’ il clima o l’acqua del caffè di Napoli, Saro era venuto al mondo ventotto giorni prima della data prestabilita, con grande sorpresa da parte di amici e parenti.

    Come tutti i bambini della sua età che non sanno cosa desiderare veramente dal futuro, sognava semplicemente di diventare grande ed essere come lo zio Mario, il quale aveva ottenuto una medaglia per aver arrestato nella città partenopea il boss siciliano Garetta e il suo tirapiedi Mimì Cardullo.

    Da quel fatidico giorno, lo zio Mario non era più tornato a Palermo.

    Per la famiglia di Saro, tirare avanti con la consapevolezza di avere tra i congiunti un tutore dell’ordine, era diventato alquanto complicato. Ora però, nessuno ricordava più il boss Garetta, ucciso da un tumore al fegato tre anni dopo l’arresto.

    Saro aveva incontrato Mario solo una volta e, in quell’occasione, aveva ricevuto dallo zio dieci euro in regalo. Era stata una parentesi fugace, all’aeroporto di Catania, poco prima che lo zio partisse per l’Iraq. Nonostante la brevità dell’evento, il ragazzo non si era tolto mai dalla testa quello che lo zio gli aveva consigliato: «Mi raccomando Saro, studia e vattene da qui».

    Poco prima di Pasqua, il ragazzo aveva scritto un tema, Cosa farò da grande, in cui aveva citato lo zio carabiniere come esempio da seguire nella vita.

    La maestra era stata molto magnanima quel giorno e, nonostante qualche strafalcione, il tema di Saro era stato letto nelle altre classi come esempio di speranza e rettitudine. Ma quando era stato analizzato in casa, non aveva suscitato lo stesso effetto, anzi la voce di suo padre, Paolo Pianella, sembrava strozzata da un groppo in gola: «Carabiniere?». E dopo quella domanda l’uomo si era chiuso in un silenzio malinconico per diverse settimane.

    Il papà di Saro aveva una testa da toro e un collo più grande delle sue ginocchia, per questo era soprannominato Paolone. Era un povero diavolo, con la speranza che il figlio da grande potesse fare un mucchio di soldi senza andarsi a cacciare in affari da sbirri, che da tutti erano considerati disdicevoli, per usare un termine assonante al pensiero più diffuso.

    Paolone, del resto, odiava lo zio Mario in maniera a dir poco viscerale, come tutti quelli che avevano perso il posto in seguito all’arresto del boss Garetta.

    Da quando era venuto al mondo, Saro non aveva mai visto il padre lavorare per più di tre giorni consecutivi; fuggire da quel marasma, quindi, doveva essere l’unica condizione per garantirsi un futuro.

    Carmelo ’u Cinese, anni prima, aveva avuto a che fare con una rivoltella. Suo nonno gliela aveva mostrata in un cassonetto insieme a delle bende insanguinate. Allontanandosi da quella scena, il vecchio aveva intimato al nipote di guardarsi bene in futuro dal maneggiare simili affari.

    «Chidda è peggio ‘ra mieidda, è pericoloso, si chiama fierru», aveva concluso il brav’uomo. Carmelo, nel suo piccolo, era un ribelle: più aveva paura delle cose, più ne veniva incuriosito. Quando Saro gli parlava di armi, ad esempio, provava un senso di spavento misto a gioia. Il cuore gli saltava in gola per l’emozione che provava al ricordo di quello che il nonno gli aveva raccomandato. Eppure Carmelo era attirato da tutte le cose proibite.

    Il Cinese era un ragazzino talmente curioso che prima di capire che una cosa fosse davvero pericolosa o disgustosa, doveva assaggiarla. Per ben due volte aveva masticato del veleno per topi e in tredici anni di vita aveva già collezionato nove lavande gastriche.

    Carmelo e Saro erano amici da troppo tempo per ricordarsene. La loro amicizia si era consolidata proprio quando Saro aveva conosciuto lo zio Mario. Era stato dal racconto di quell’avvenimento che il Cinese aveva iniziato ad ammirare Napulione.

    Ogni maledettissimo giorno che i due si incrociavano, Carmelo ripeteva sempre la stessa domanda, «’u fierru?», e Saro sorrideva e si inorgogliva sognando un futuro da carabiniere.

    Da quando il padre era tornato in carcere, Saro aveva appeso la foto dello zio Mario al muro. Un uomo, agli occhi del ragazzo, grande e irraggiungibile come un supereroe.

    Nello scatto zio Mario imbracciava una mitraglietta, felice e fiero come tutti quelli che amano il proprio lavoro. Almeno così si ripeteva Saro.

    In quello scatto la pistola si vedeva appena, scendeva lungo un fianco, brillava nel sole a picco di un deserto arabico.

    «Saro…».

    La voce di mamma Lucia risuonò nel corridoio.

    «Io esco a fare la spesa, tu che fai?», chiese Lucia.

    «A casa».

    «Non esci con gli amici? Ti chiamano».

    In effetti, in una mattina afosa come tante, tra una scazzottata e l’altra, Luigi il Rosso, Aldo lo Sfregiato, Ninì Faccia i Surciu gridavano a squarciagola il nome di Saro.

    Le loro urla si confondevano con il vociare grosso e invadente di pescatori e clienti per disperdersi oltre il respiro del mare. Solo Carmelo, negli attimi di silenzio, riusciva a portare la sua litania fin sopra l’appartamento di Napulione e, a ogni tre volte che ripeteva: «Saro…», aggiungeva: «’u fierru!», quindi rideva battendo le mani.

    «Carmelo, statti zitto», urlò una vecchia rugosa e vestita di nero dall’antro del suo portone. La vecchia rammendava la federa gialla e arancio di un cuscino già consunto; che altro poteva fare quella donna per ammazzare il tempo? Avrebbe rammendato tutte le cose appartenenti al passato almeno finché il tempo non avesse consunto per sempre anche lei.

    La madre di Saro, scarna in volto e dagli occhi profondi, celava nello sguardo la malinconia di chi è dovuto crescere troppo in fretta, costretta a tirare su un ragazzino quando avrebbe dovuto ancora giocare, sposare un uomo per non restare sola. La donnina entrò nel triste corridoio della loro bassa casetta di trenta metri quadri sita al numero 14 di via della Tonnara e osservò il figlio restando con le mani lungo i fianchi.

    «Mamma?»

    «Che?»

    «Me la porti la mortadella?».

    La donna scosse il capo ma non riuscì a guardare il figlio negli occhi. Saro rimirò la foto dello zio e chiese, accendendosi in viso come una lampadina: «Quando torna?».

    La madre si irrigidì corrucciata, osservò la foto per un attimo e rimase in silenzio.

    Saro riprese: «Allora, quando torna?»

    «Allora che? Quando torna… torna. Mica quello torna da noi».

    «Lo telefoni?»

    «Dove lo telefono, nel deserto?».

    Saro allora tirò fuori dai calzoni un foglio stropicciato e lo consegnò alla madre. I due si avvicinarono pian piano.

    «Che fu?»

    «La lettera dello zio, disse che tornava in questo mese».

    «Quando arrivò?»

    «Sempre quella è! L’ultima».

    «Quella quale? La prima?», domandò la donna evitando di toccare il foglio, nemmeno fosse maledetto.

    «Sempre una è! Il numero è qua! Ora lo puoi chiamare».

    «E cu c’u dice a to pà?»

    «Papà?», gracchiò il ragazzo con aria di sufficienza. «Papà se voleva non si faceva mittiri rintra».

    Lucia attese un millesimo di secondo, cercò di capire se il figlio avesse detto sul serio quello che aveva sentito quindi, rossa in volto, sferrò al monello un ceffone che risuonò sordo nell’appartamento. Il ragazzo aggrottò semplicemente le sopracciglia, ma restò ritto e immobile con gli occhi fissi sulla madre.

    «Si fici mittiri rintra pi’ ttia», urlò Lucia cercando di placare la rabbia.

    Proprio così: Saro, più di una settimana prima, aveva rubato al mercato del rione un bel po’ di roba tra cui una mortadella e due galline che avevano perso piume sino allo scrostato portoncino color cachi di via della Tonnara numero 14. Una volta portato a casa il bottino, il padre era parso orgoglioso: «’U picciriddu non sarà mai come a chiddu dà», si era esaltato con la moglie.

    «’U picciriddu rubò! Lo devono mittiri rintra a dieci anni?», aveva esclamato la donna disperata.

    «Chiste non sunnu rubberie, chisti sunnu prestiti», aveva risposto l’uomo all’esile moglie mentre Saro scavava con il dito nel mattoncino di mortadella e si rimpinzava leccandosi il grasso dalle dita.

    A Saro non interessava quello che il padre aveva appena detto, aveva fame e basta. Ma quando si furono seduti al tavolo di legno apparecchiato nella stanza da letto, sia i vigili che il furioso ambulante irruppero in casa senza troppi convenevoli: «Chi ha rubato mortadella e galline?».

    Paolone, il papà di Saro, era un buon cristiano ma miserabile come tutti quelli cresciuti negli anni Settanta presso il Borgo Vecchio di Palermo; da piccolo aveva fatto il chierichetto solo perché nonno Salvatore lo spingeva a rubare ostie e vino benedetto, pasto frugale ma sostanzioso per le panze e lo spirito. Quando don Carlo non resse più i furtarelli di Paolone, lo cacciò dalla parrocchia. Fu allora che il robusto ragazzo, per paura di prenderle dal padre, si portò a casa la cassetta dell’offertorio dei devoti di san Rocco. Quando la polizia bussò al numero 31 di via Ammiraglio Rizzo, nonno Salvatore con i soldi di san Rocco aveva già comprato un vestito gessato e tre damigiane di Nero D’Avola. Il mefistofelico e ossuto nonno Salvatore di fronte alle accuse dei carabinieri scosse il capo, considerò il figlio uno sciagurato, infine pianse quando don Carlo tuonò: «Paolo è un piccolo demonio». E alla richiesta di restituirgli i soldi, Salvatore rispose, battendosi il petto, che non li aveva mai visti e tirò calci e pugni a quell’infame del figlio. Paolone non si discolpò, rispettava troppo suo padre e intanto le buscava di santa ragione. Sperava solo che i fratelli mangiassero qualcosa con quel furto. Il ragazzone guardò sua madre, donna Assunta, la quale non profferì parola mentre Salvatore lo picchiava sotto gli occhi atterriti di don Carlo e dei carabinieri, che riuscirono a stento a fermare la furia omicida di un uomo che aveva perso l’orgoglio conquistato in tanti anni di disoccupazione e ozio.

    Sì, nonno Salvatore non aveva mai fatto niente nella vita se non giocare a carte e barare con gli amici per vincere un bicchiere di rosso. Donna Assunta, sua moglie, si spezzava la schiena raccogliendo pomodori in estate e ricucendo abiti sdruciti durante tutto il resto dell’anno. Non si intromise nemmeno quando Paolo fu portato in riformatorio, ma si adoperò a sfamare con noci e castagne gli altri figli. Frutta acquistata con i pochi spicci del furto che era riuscita a salvare dagli sperperi del marito.

    In quell’occasione Paolone fu condotto in una casa di rieducazione, dove rimase per circa un anno.

    A quattordici anni conseguì persino la licenza elementare presso quel riformatorio. Il padre, la sera stessa dell’arresto del figlio, per festeggiare quella bocca in meno da sfamare, andò a dormire con la piacente Carmelina. Il servizio gli costò duecento lire. Il giorno dopo Salvatore tornò da Carmelina e le regalò una damigiana di Nero d’Avola per fare ancora l’amore. Il terzo giorno le donò il gessato nuovo convincendo la donna a farlo due volte: una per la giacca e una per i calzoni. Il quarto giorno Salvatore dormì con la moglie Assunta e dopo nove mesi nacque Giacomo, l’ultimo dei cinque fratelli di Paolone. Giacomo nasceva mentre Carmelina moriva di parto per dare alla luce l’unica figlia femmina e illegittima di Salvatore, una cretina adottata dalle monache che tutti chiamavamo zì Cuncetta Diotallevi. Tutti sapevano che Cuncetta era figlia di Salvatore anche se nessuno lo diceva ad alta voce. Le monache accolsero la bimba appena nata e cercarono di farla crescere nel timore di Dio.

    Zì Cuncetta Diotallevi da ragazzina non parlava quasi mai e, quando poteva, svolgeva la stessa professione della madre defunta tanto che le monache erano spesso costrette a nascondere i frutti del peccato. Passati i trent’anni la donna prese a parlare in maniera davvero logorroica. Complice di questa apertura sociale fu la fugace relazione con un uomo brillante e divertente, tale Alcide Costanzo, che a vederlo oggi, finita la relazione, sembrava una scopa spelacchiata abbandonata in uno stanzino. Cuncetta Diotallevi era magra come uno spillo, aveva due occhi neri bellissimi e i baffi. Comunque, brutta o piacente che fosse, appena qualche disperato aveva un paio di euro, andava a farci un giro. Questo succedeva finché la zia non si era definitivamente fidanzata con un certo ragionier Salvi.

    Quando Paolone, trentotto anni dopo essere stato portato in riformatorio, vide irrompere in casa sua vigili e ambulante, si ricordò quell’anno terribile e non se la sentì proprio di accusare suo figlio; si alzò in piedi incolpandosi prontamente del furto dell’insaccato, poi prese una busta di plastica, ci mise dentro pigiama e spazzolino e, a testa bassa, seguì le guardie scagionando il figlio.

    «Papà si fici arrestare per mangiare tutti i iuorna in carcere», concluse Saro con disprezzo. La madre non si aspettava di certo un commento del genere da parte del figlio.

    Era pronta a caricare un altro ceffone ma alla fine scosse semplicemente il capo e imboccò l’uscita.

    «Stasera cicoria! U capisti? Cicoria! E mettiti in’ta capa di andare a faticare. To patri è un santo e non si merita uno stronzo di figlio come a ttia! Devi faticare da domani, capisti? Trovati una fatica».

    «Se… se …», rispose Saro e quell’affermazione fu un misto di negligenza e protesta.

    Detto questo, Lucia diede le spalle al figlio e uscì di casa. Il ragazzo per la rabbia sferrò un calcio al comodino nel corridoio e capovolse una foto che ritraeva quel sant’uomo di papà Paolone in compagnia dei suoi quattro fratelli.

    Era una foto degli anni Ottanta e tutti i protagonisti erano avvolti in camicie floreali. Se ne stavano rigidi e sudati, intenti a fissare l’obiettivo in attesa di uno scatto che doveva avere l’aria di essere quasi un’esecuzione capitale. Erano tutti tesi, tranne zio Giacomo che sorrideva con aria da furbetto. Ora aveva trentasette anni, faceva il becchino e guadagnava bene.

    Aveva iniziato a lavorare presso la ditta Ultim’ora della famiglia Tornabuoni a soli undici anni. Il titolare dell’attività funebre, un certo Lietto Tornabuoni, morì sette anni dopo l’assunzione del ragazzo, schiacciato da un catafalco in radica di noce che si staccò dal soffitto planando proprio sul cranio dello sfortunato direttore.

    Una cassa extralarge con maniglie in ottone fracassa il cranio all’imprenditore Diletto Tornabuoni conosciuto come Lietto. Ignote le cause dell’incidente. Così titolò la cronaca locale e persino qualche giornale di quelli che si trovano dal barbiere dedicò alla storia un trafiletto con tanto di foto del defunto.

    Quell’enorme pezzo di legno intarsiato di ricami e cape d’angelo era il vanto da esposizione di Lietto e della ditta Tornabuoni.

    Era stato Lietto stesso a fissare il catafalco con delle funi che, probabilmente, i topi rosicchiarono di notte, almeno così si espresse la Scientifica.

    A quel tempo Marina, la primogenita di Lietto, si era già innamorata di zio Giacomo e, dopo un anno esatto dal decesso del padre, i due convolarono a nozze.

    Zio Giacomo aveva il nasone, era sbarbato e si pettinava alla Ringo Star; la moglie Marina, portava le basette lunghe che lasciava appena intravedere oltre i capelli biondo pallido che sapevano di cenere e tuorli d’uovo.

    Topi o non topi, quando lo zio Giacomo seppe che Lietto,

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