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La sensibilità delle mosche
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La sensibilità delle mosche
E-book173 pagine2 ore

La sensibilità delle mosche

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Il coraggio forse risiede nella paura di chi non si arrende, di chi cade e si rialza ricominciando tutto daccapo. Come le mosche, come chi non può fare altro che difendersi e che nonostante ciò o forse proprio per questo non può concedersi nessuna resa e senza scelta è obbligato ogni giorno ad andare avanti provando e nello stesso tempo dimenticando la paura, continuando a vivere senza sosta, come se niente fosse, abituandosi al dolore, temendo solo il momento in cui senza più fuggire dovrà fermarsi, l’unico momento in cui davvero sarà in pericolo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2020
ISBN9788835825920
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    Anteprima del libro

    La sensibilità delle mosche - Ciro D’Acampo

    XXXV

    I

    «Il troppo parlare scorge il mio cuore».

    Teresa non aveva dimestichezza con le parole. Era abituata a tenersi tutto dentro, preferiva tacere, non amava parlare e quando era costretta a farlo l’imbarazzo le smorzava la voce e le infiammava il volto. Fosse stato possibile avrebbe scelto l’oblio, l’invisibilità, stando attenta a non fare rumore per non dare vantaggio al mondo di fuori.

    Con lei la vita non fu mai tenera, da subito le rivelò il suo volto più duro. Si sposò che era ancora una bambina, con Gaetano che abitava nel suo stesso vicolo. Dovette sposarsi all’improvviso, per mondare un’onta, correre ai ripari e salvare le apparenze. Suo padre, quando scoprì che era incinta, per poco non la uccise, divenne pazzo per la vergogna, urlò, spaccò ogni cosa e a niente servirono i lamenti e i pianti di sua moglie, non capì, non poteva capire quell’amore infante e non volle sentire ragioni, disse che per lui quella figlia nata sbagliata andava estirpata, come una malapianta, e poi per sempre dimenticata. Fu così che Teresa si ritrovò in mezzo alla strada con una valigia e senza un soldo.

    Non ancora diciottenne divenne madre di una bambina sana e tonda. La chiamò Maria come sua madre.

    Giovanni, il secondo figlio, nacque pochi anni dopo. Il tre di giugno. Pioveva quel giorno. Teresa si sentì male di mattina presto. Gaetano non c’era, era già al lavoro. Lo avvisarono, lui in un niente si precipitò a casa. Arrivò a cose fatte e quando vide quel graffio di carne rubato al corpo di Teresa si commosse e pianse. Restò a guardare suo figlio come fosse un miracolo. Si inginocchiò davanti a Teresa, le accarezzò le mani, le diede un bacio caldo e profondo, umido di pianto, mosse le labbra per dare sfogo all’emozione. Lei gli sorrise ma avrebbe voluto urlare tutto il suo orrore: per la prima volta, proprio quel giorno, proprio in quel momento, avvertì dentro di sé l’incongruenza di un sentimento che assomigliava sempre più a un dolore immenso. Da un lato c’era la tenerezza per quell’uomo sporco di calce e di lacrime, l’amore indefinito che le era cresciuto dentro insieme alla sua carne e che forse, proprio per questo, non riusciva più a distinguere, dall’altro c’era, un sentimento opaco e pesante, così simile all’odio, l’amaro di un fastidio spinato, come un veleno insapore che le corrodeva le labbra proprio lì dove c’era ancora una lacrima salata. Quel giorno Teresa si smarrì, ebbe paura di quel sentimento inaspettato, si affidò a preghiere, all’amore per i suoi figli, per Maria, per Giovanni che già le succhiava con ingordigia ogni energia e si illuse che tutto quello potesse bastare ad allontanare il vento nero che sentiva dentro di sé. Quel giorno Teresa per la prima volta odiò la sua vita, come se non fosse l’unica possibile, odiò la sua casa, il suo letto, il balcone dietro cui morivano ogni illusione e ogni sospetto. Si sentì alienata da se stessa, si vide salutare suo marito come fosse un estraneo, seguirlo andare via nella sua tuta da lavoro, leggermente ingobbito; si vide ricambiargli il sorriso a occhi chiusi, disperata e confusa con l’unica voglia di dimenticare in fretta tutto. Per la prima volta, guardò in faccia la sua vita e non la riconobbe.

    Quello stesso giorno morì Maria, sua madre.

    Successe tutto poche ore dopo. Pioveva ancora, d’improvviso ci fu un tramestio strano, voci concitate soffocate a stento, rumori di sedie trascinate in fretta, porte che si chiudevano. Teresa pensò di sognare, per questo quando sentì sua figlia Maria piangere non si spaventò più di tanto anzi, chiuse gli occhi per vincere in fretta quella paura, e attaccarsi con più forza ai suoi sogni. E invece i rumori si fecero più forti, divennero passi concitati, voci che si sovrapponevano, echi che sbattevano contro le pareti e s’infilavano sotto le porte senza nessun rispetto per lei che da poco aveva partorito. Poi quel silenzio si fece sipario, calò per dare tempo al tempo di preparare la scena poi senza pietà si alzò con lo stridio metallico di una maniglia che si apriva.

    Entrarono le sue sorelle. Si avvicinarono incerte, gli occhi gonfi, le guance rosse e le parole rapprese agli angoli della bocca. Le strinsero le mani, la baciarono, si sedettero al suo fianco. Teresa non capì, emerse dal sonno a fatica, si guardò in giro smarrita, d’istinto cercò il figlio appena nato come se solo lui potesse darle una spiegazione. Si spaventò. Cercò di alzarsi, di vincere la stanchezza che la obbligava a letto, la trattennero spiegandole che era tutto a posto, che doveva stare nel letto, tranquilla, poi, di getto, senza interrompersi, come se le due cose avessero un senso logico solo se dette una dietro l’altra, le dissero che la loro mamma si era sentita male ed era in ospedale. Teresa soffocò un urlo. Il dolore, la paura, la pena, all’istante divennero un tutt’uno e si confusero in fondo alla bruma del suo stupore, subito dopo un senso di colpa emerse dalla sua coscienza: era stata lei, con la sua rabbia, con il suo odio, con i suoi peccati a togliere alla sua famiglia la protezione dei santi, a lasciare la porta aperta al demonio. Era stata lei, se lo ripeté mille volte ancora mentre cercava di lottare contro le braccia che la tenevano ferma, mentre con gli occhi cercava la verità che le parole non volevano raccontarle. Cercarono di calmarla, di rassicurarla, le spiegarono che la mamma era sotto i ferri, che in quel momento la stavano operando, le dissero che stavano andando lì, per questo non doveva preoccuparsi, lei doveva pensare solo a suo figlio, a tutto il resto avrebbero pensato loro. Doveva stare tranquilla, così le dissero, tutto si sarebbe aggiustato, la mamma era forte e avrebbe superato anche quello, dovevano pregare, solo questo, affidarsi alla Madonna, e aspettare.

    E Teresa aspettò.

    Toccò ad Angela, la sorella più grande, portarle la notizia.

    Non ci fu bisogno di trovare le parole. Il dolore le squarciò la gola, le rubò i pensieri e la voce che si portava dentro, cercò allora di alzarsi, perché qualcosa, ne era sicura, si poteva ancora fare, sua mamma era ancora lì, in ospedale, bastava fare presto, l’aspettava, lei lo sapeva, aspettava che lei andasse con il suo strascico di parole piante, che si scusasse per la sua vita scappata a ogni controllo, che la lasciasse sussurrare i suoi rimproveri e poi si abbandonasse ai suoi perdoni, ai suoi abbracci pieni di fretta e di pudore.

    Quel giorno, la vita e la morte si diedero battaglia nel letto di Teresa. Fu un duello breve e violento che portò a una pace fragile: la morte si prese il presente senza vie d’uscita e il passato che cresceva informe, alla vita fu dato il futuro nano, tutto rotto, da ricostruire pezzo dopo pezzo.

    II

    Per Teresa non fu facile. Il lutto l’annichilì. Ogni suo gesto divenne schiavo dell’inerzia, ogni suo pensiero succube dei ricordi, tutti se ne resero conto, non riuscì a nasconderlo, non bastarono i sorrisi a rassicurare, a niente servì il suo zelo instancabile. Ogni cosa di lei confessava il suo dolore. Si tinse i vestiti, perfino le calze, abbandonandosi alla tirannia del nero. La mattina usciva presto, neanche un caffè per colazione, neanche il pensiero di pettinarsi, la sera tornava tardi che era già buio, la cena da inventare, i letti da preparare, le vite dei suoi figli da mettere insieme, quella di suo marito da arginare, i mille segnali da cogliere al volo per farne in fretta il compendio.

    Accettò la proposta dei Ferretti che, da tempo, le avevano chiesto di restare a servizio anche la domenica. Le sue sorelle rubando tempo alle loro vite l’aiutavano ad accudire i figli. Gaetano si era abituato alle sue assenze e non avrebbe protestato. Di quel lavoro c’era bisogno, c’erano i debiti da pagare, le emergenze da tamponare e poi dalla sua casa doveva scappare, ovunque si girava c’era il tanfo del passato a rimproverarla, il presente esangue, c’era il futuro senza appigli che accantonato in un angolo marciva lentamente.

    III

    Don Vittorio era un uomo smilzo e altero, di quelli che incutono paura al solo sguardo. L’eleganza era la sua mania. Aveva fatto fortuna in poco tempo.

    Nessuno in paese si chiedeva come, non ne volevano parlare, era un argomento da evitare, si spaventavano al solo accenno, solo qualcuno, a bassa voce, lanciava accuse, faceva ipotesi di truffe, di commerci illeciti, di collegamenti con la malavita.

    Don Vittorio era un duro: poche parole e nessun sorriso, non aveva amici, di nessuno si fidava fino a quel punto, in tanti lo rispettavano, lo riverivano, gli baciavano la mano, per timore o per convenienza gli mostravano a ogni occasione deferenza; l’odio invece era clandestino, sussurrato piano nella piazza, davanti al bar, era un lusso che solo pochi avevano l’ardire di concedersi. Lui lo sapeva, sapeva di incutere timore, sentiva la paura che gli girava intorno e di continuo l’alimentava, sapeva bene che il rispetto che gli veniva concesso era una piuma stretta nella mano.

    Lo trovarono morto un giorno di novembre: morto da ore, nel fienile di uno dei suoi campi. Lo trovarono per terra, chi lo vide disse che non faceva impressione, sembrava stesse riposando, in ordine come il solito. Si pensò subito a un omicidio, aveva un sacco di nemici, era la cosa più semplice da ipotizzare ma non fu trovato nessun indizio, nessuna traccia, nessun segno di violenza sul corpo, come se fosse all’improvviso morto. In paese girarono mille ipotesi, qualcuno arrivò a ipotizzare che si fosse avvelenato, che l’avesse fatto perché vinto dai rimorsi o dalla delusione per quel suo unico figlio maschio che non aveva voluto seguire le sue orme. In realtà nessuno in cuor suo credette davvero a quella voce, don Vittorio era un uomo tutto di un pezzo, non temeva niente, neanche la sua coscienza.

    Quella morte non convinse nessuno, neanche i Carabinieri.

    Ci furono indagini accurate, mille sopralluoghi nel fienile e nelle campagne tutt’intorno alla ricerca di indizi, in molti furono interrogati ma le indagini non portarono a niente. Nessuno sapeva, nessuno aveva visto niente. Il caso fu chiuso con poche righe in fondo a un fascicolo: nessun omicidio, nessun suicidio, don Vittorio era morto di morte naturale, nel modo più banale, come uno qualunque.

    Restava ingombrante anche da morto, nessuno voleva parlare dell’accaduto eppure del suo funerale si parlò per giorni. Partecipò tutto il paese, nessuno escluso.

    In chiesa il parroco parlò del male che tutti tenta e del bene che alla fine vince sempre, parlò di un uomo giusto, del suo amore per la famiglia e per i suoi concittadini, della sua fede in Dio, disse che per lui il paradiso aveva già le porte aperte anche se la morte non è niente e la vita continua. In tanti non capirono, si aspettavano una condanna e invece ascoltarono un’assoluzione, qualcuno avrebbe voluto urlare che erano bugie, molti avrebbero voluto andare via ma restarono tutti ai loro posti, le mani giunte e il cuore in pace.

    Durante il funerale, Alfredo, l’unico figlio maschio di Don Vittorio, restò abbracciato a sua mamma, lo sguardo fiero puntato sulla bara, neanche una lacrima da offrire ai curiosi, accanto aveva le sue sorelle, più indietro c’era Elena, sua moglie. Toccava a lui, suo malgrado, prendere il posto di suo padre, amministrare il patrimonio di famiglia, fare da guida alle sue sorelle. La stoffa ce l’aveva, era intelligente, era diventato notaio ma non aveva né l’autorità del padre, né la sua scaltrezza, gli mancavano il carisma, l’istinto animale che ti fa decidere senza pensare, la determinazione che non ti fa tremare la mano neanche se stringe un pugnale. Anche fisicamente Alfredo era diverso: era leggermente claudicante, la gamba destra appena più corta dell’altra per via di una poliomielite, la pelle liscia, trasparente, un viso dolce dai tratti morbidi, senza spigoli e occhi azzurri che non sapevano dell’ombra, per nulla simili a quelli neri e senza fondo di suo padre.

    «Tutto sua madre», don Vittorio lo diceva sempre e un po’ gli dispiaceva dover per forza ammettere che il suo unico figlio maschio non gli assomigliava per niente. E in effetti, a guardarlo, ti accorgevi subito che Alfredo era cresciuto nel calco di sua madre, suo padre c’entrava poco, era un’impronta di luce che invece di chiarire oscurava, qualcosa che stonava e che forse sarebbe stato meglio togliere del tutto. Eppure, don Vittorio ci aveva provato a dare la sua impronta a quella vita. Per anni in segreto non aveva aspettato altro, dal primo giorno di matrimonio aveva desiderato un

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