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Piccole verità
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E-book242 pagine3 ore

Piccole verità

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Info su questo ebook

Genere narrativa, contemporaneo, Italia, viaggio.
Un uomo perde la moglie improvvisamente, è un uomo facoltoso, ricco, e fino ad allora nella sua vita nulla di così tragico era mai capitato. Giorni dopo riceve un pacco, contiene un libro scritto da sua moglie, ma di quel libro lei non gliene aveva mai parlato. La storia raccontata ha dei legami con la realtà, dopo brevi ricerche si convince che è tutto vero, che la protagonista sia sua moglie. Nel libro la donna si innamora di un altro, e nasce in lui un atroce dubbio. Un po' per allontanarsi da ciò che gli ricorda lei, un po' per verificare alcuni fatti del libro, parte per un breve viaggio verso uno sconosciuto paese del centro Italia, dove secondo la storia sono ambientati alcuni momenti della protagonista. Ma scoprirà tutt'altro, conoscerà persone che gli daranno brevi e intensi attimi di vita, il passato irromperà, perché noi siamo tutto quello che abbiamo vissuto, inesorabilmente.
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2016
ISBN9786050472714
Piccole verità

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    Anteprima del libro

    Piccole verità - Cosimo Vitiello

    significa

    1.

    Per tutta la giornata non aveva fatto altro che starsene seduto nella poltrona preferita di lei, a osservare la primavera che spuntava in mille colori vivaci nel giardino, il giardino che con cura maniacale sua moglie curava. Dopo solo una settimana già gli riusciva difficile immaginare il suo volto, più di una volta era ricorso alle foto salvate sul telefono. Amava credere che il loro legame fosse diverso dagli altri, una sintonia senza eguali, immaginando un filo conduttore invisibile che li univa, attraverso il quale viaggiavano le infinite sensazioni dei loro corpi. Il giorno dell’incidente di Annarita lui se ne stava al bar con gli amici, a ridere davanti a un caffè, e nessun tipo di sconvolgimento interiore era pervenuto, neanche un momentaneo mancamento. Niente di niente. La prova terribile che loro due erano, in fin dei conti, due persone normalissime.

    Solo, tremendamente solo, dentro e fuori, così si sentiva Arturo, con mille pensieri negativi che gli frullavano in testa, rannicchiato in un angolo della sua vita con la speranza futura dei soli ricordi che portava dentro. A volte desiderava sparissero, altre li passava tutti in rassegna, con il desiderio invece di non dimenticarli. Ammirava con le lacrime agli occhi il giardino che ancora riusciva a mostrare la sua bellezza, dopo sette giorni di incuria. Non capiva perché il tempo non si fosse fermato, come mai le persone continuassero a vivere, indifferenti alla sua tragedia, perché il sole continuava il suo viaggio solitario, e perché la natura continuasse il suo ciclo. Cosa avrebbe fatto? cosa gli restava da vivere? Non aveva più senso neanche il lavoro, che a giorni avrebbe dovuto riprendere, gli piacesse o no. Non volle pensarci; aveva il fine settimana ancora da far passare. L’intenzione era di starsene così, gli occhi incollati al vetro, con l’assurda speranza di vedere la figura di Annarita saltellare tra le piccole aiuole che coltivava con tanto amore.

    E venne anche la sera, con il suo freddo, le tenebre, e l’ormai familiare senso di smarrimento che l’accompagnava fino al mattino, quando si sarebbe svegliato con l’unica certezza che un altro petalo di tempo volava via. Restio si alzò, cercando nella penombra l’interruttore del lume. L’accese, con passi lenti si diresse in cucina; sperava di riuscire a calmare il morso della fame con un fugace panino. Mentre cercava nel frigo bussarono al campanello, lasciò lo sportello aperto e rispose al citofono.

    Marta e il suo nuovo compagno, che disse di chiamarsi Alfonso.

    Si presentarono con una cena thai, contenuta in due buste enormi piene di pacchetti. Marta era la migliore amica di Annarita, si conoscevano fin da bambine, e gli era sempre parsa una svampita, con quei capelli biondissimi e le labbra strette e generose. Gli occhi grandi e distanti poi, si accordavano perfettamente con il resto del viso. Poco dopo i saluti scoppiò in lacrime, avvinghiandosi ad Arturo, che un po’ se lo aspettava. Lui, al contrario, le lacrime le teneva tutte per sé, per i suoi momenti di infinito dolore, cosicché riusciva solo a mostrare una faccia contrita, scavata e appassita come quella di un marinaio.

    Arturo era cosciente di quel che pensava il bel ragazzo, biondo come Marta, di lui, di quello che coi soldi credeva di comprare tutto. Poteva immaginare tutte le volte che Marta gli aveva parlato dei suoi beni, dell’insulso carattere, paragonandolo ad Annarita, così diversa che non era cambiata neanche un po’ in quegli anni di matrimonio: una ragazza semplice, sempre dolce con tutti.

    Lui, doveva morire nell’incidente, pensò Arturo: la morte s’era portato via il corpo sbagliato.

    Alfonso alla fine fu costretto a sistemare lui stesso la cena sul tavolo, un momento accarezzava la ragazza, l’altro si occupava dei contenitori. Ed era strano come tutto si muovesse in un assoluto silenzio, movimenti fluidi e sguardi fuggevoli, ognuno a suo modo nascondeva il pudore dei propri pensieri. Marta, l’unica a lapidare il silenzio con i suoi singulti radi e improvvisi, fu la prima a sorridere, un riso costretto dal desiderio di smettere, e fu la prima anche a parlare.

    «Lunedì tornerai al lavoro, così dicono allo studio» disse, tirando su con il naso, sistemando le posate sui tovaglioli di carta. Conosceva la casa forse meglio di Arturo, che se ne stava in disparte osservando la scena dal rifugio interiore.

    Lui riuscì solo ad annuire, facendo capolino un attimo nella realtà.

    Marta si fermò a controllare se mancasse qualcosa, poi, pensierosa, dopo averlo osservato, continuò:

    «Forse sarebbe il caso che ti prendessi qualche altro giorno. Anche se personalmente, quei due giorni che sono rimasta a casa, mi hanno fatto più male che bene. A volte, stare in compagnia, non può che giovare. Allo studio va tutto bene, ce la caviamo», scrollò le spalle.

    I loro sguardi s’incontrarono, Marta non capì se Arturo la vedesse per davvero. Venne distratta da un movimento di Alfonso, vide il suo busto enorme chino oltre il tavolo. Poi ricordò.

    Il ragazzo ne trasse un contenitore di cartone, squadrato, con un’etichetta che lo copriva per metà e lo posò sul tavolo, senza dire una parola, senza mai perdere l’atteggiamento distaccato.

    «In ufficio è arrivato questo pacco per te» disse con tono basso. Alfonso parlava al padrone di casa ma guardava la ragazza.

    Arturo ringraziò la coppia e prese il pacco, per riporlo subito dopo sul ripiano alle sue spalle. Si sedette e iniziò ad aprire la scatola del pad thai alla carne. Non ebbe cura di ringraziare per la compagnia, lo ritenne superfluo.

    La serata trascorse con lunghi monologhi di Marta che raccontava le vicende dello studio, di come la segretaria appena arrivata, Elena, civettasse con tutti, oppure del caso fortuito che l’aveva fatta incontrare Alfonso, giurando di amarlo alla follia. Arturo, tra un mugugno e l’altro, intuì che l’unico modo per riprendersi fosse quello adottato da Marta. Concentrarsi sulla sua vita, o quella che ne rimaneva, ecco cosa doveva fare. Non tanto per se stesso, ma per le persone che allo studio contavano su di lui per continuare il lavoro.

    Infine il lunedì arrivò. Quando si recò al lavoro, per la prima volta in vita sua, Arturo ebbe paura di entrare nello studio commerciale che fu del padre, e prima ancora di suo nonno. Era per lui una seconda casa, avrebbe potuto muoversi attraverso gli uffici a occhi chiusi, seguendo i diversi odori dei mogani, dei divani in pelle, dei pesanti drappeggi. Gli riusciva difficile capire il blocco che gli impediva di entrare, che lo costringeva a osservare l’interno attraverso la vetrata traslucida, trasparente solo nei punti dove il nome della sua famiglia era inciso.

    La nuova segretaria, passando lì davanti, forse in una fremente attesa del capo, lo intravide appunto in quell’atteggiamento indeciso, e corrugò la fronte.

    Arturo, sotto gli occhi indagatori di Elena, la rossa formosa dal naso stretto e la faccia lunga, con quei capelli a criniera tutta boccoli, che al colloquio credette avesse sbagliato piano, ebbe l’impulso di riprendere l’ascensore e scappare. Fece invece un gran respiro, gettò via le sue paure ed entrò, appoggiandosi alla sua educazione vecchio stampo che poneva il lavoro davanti a tutto.

    Riuscì solo in parte a calarsi di nuovo nei suoi vecchi panni, ci furono momenti durante i quali la sua attenzione fu totalmente presa dalle pratiche in sospeso. Tutto l’ufficio, conscio più di lui del suo travaglio interiore, si prodigava per alleggerirgli il fardello delle difficoltà giornaliere. In quei momenti sentiva di essere ancora più solo; molti di loro, conoscendo l’indomita natura, se ne stavano alla larga preferendo guardarlo di sottecchi da lontano.

    Romina, la donna che lavorava lì quando a comandare c’era ancora il padre, si vide costretta però a raggiungerlo in ufficio. Fino ad alcuni giorni prima non perdeva occasione per rendergli la vita difficile, lui la odiava fin da piccolo, e lei, quando poteva, ne approfittava per stuzzicarlo. Ricordava come fosse ieri il primo giorno di lavoro di quel giovane rampollo viziato, di come avesse fatto di tutto per licenziarla, sfruttando anche l’influenza sul padre. Se lavorava ancora lì era grazie alla decennale esperienza che aveva sullo stato finanziario del loro più importante cliente. Quando decise di recarsi nel suo ufficio la vecchia caposezione lo fece dopo lunghi ripensamenti volti al passato, chiedendosi quale atteggiamento adottare. Con scrupolo di coscienza, abbandonando per il momento le loro divergenze, si avviò con animo pieno di comprensione, perché l’istinto le diceva che Arturo non era più l’Arturo che conosceva.

    Bussò alla porta aperta e solo per un attimo, un piccolissimo istante, quando lui alzò la testa a vedere chi lo importunava, ebbe un ripensamento sul contegno da avere. Sparì ogni dubbio quando lui le chiese di entrare, «entra Mina» disse. Non l’aveva mai chiamata come usava fare il padre, e questo le confermò di nuovo la grande capacità empatica di cui era dotata.

    «Mi avevi detto di informarti quando avessi notato di nuovo la piccola differenza del mese scorso. Ecco, dacci un’occhiata anche tu», Romina posò sulla scrivania un fascicolo chiuso nella sua cartellina.

    «Siediti» disse Arturo, mise da una parte ciò che stava studiando e si concentrò su di lei, in una maniera che non aveva mai fatto.

    Romina era sempre la stessa, con quei capelli lunghi e bianchi senza un velo di trucco, le guance cadenti che formavano due solchi intorno alla bocca. Alta, statuaria, sempre in jeans, maglione e tacco, il portamento fiero, che ora tentava di dissimulare. Arturo, dal canto suo, cercava in tutti i modi di concentrarsi sul lavoro, così da non pensare a sua moglie, non sapendo di stare a mutare il suo atteggiamento somigliando sempre più a suo padre.

    Un pochino in difficoltà, la donna ripensò ai bei momenti quando sapeva esattamente come muoversi tra le frecciate e il sarcasmo educato di lui. Arturo aveva stretto le mani una nell’altra, in attesa che parlasse, ma lei non sapeva cosa dire. Indicò allora la cartellina sul tavolo.

    «La lista dei conti, eccola» disse di nuovo.

    «Ah, sì, scusami. Diamo un’occhiata. Sempre la stessa voce?» chiese lui, senza alzare la testa dai fogli.

    «Sì.»

    Romina colse l’occasione per studiare il ragazzo, per lei era ancora un ragazzo, chiedendosi per quanto tempo sarebbe durata. Poteva darsi che finalmente qualcuno lassù in alto, forse il nonno, avesse deciso di trasformarlo in una persona normale, magari come il padre, che quando andò via molti di loro furono sul punto di lasciare l’ufficio. Anche quella mattina portava i capelli ben curati, poteva notare già qualche filo bianco qua e là. Lui alzò un attimo la testa, pensieroso, con lo sguardo lontano dall’ufficio, Romina colse sul viso rilassato evidenti segni di un profondo dolore. Ammirò la fronte ampia e il viso lungo, le belle labbra sottili e naturalmente voluttuose. Se lo ricordò bambino, quanto tentava di afferrarlo e strappargli qualche bacio.

    «Allora?» disse, costringendosi a distogliere i pensieri che le ricordavano quanto era vecchia. «Che ne pensi?»

    «Non lo so» rispose, abbassando la testa e ricontrollando ancora una volta. «A quanto siamo?»

    «Non capisco.»

    «Quante volte è successo?»

    «Questo sarebbe il quarto mese di seguito. La prima pensavo fosse uno sbaglio, il secondo mi ha insospettita e…»

    «Sì, ricordo ora. Il mese scorso me ne hai parlato.»

    Arturo rimase a pensarci un bel po’, rilassandosi nella poltrona dallo schienale alto, portando una mano alla bocca, in quel gesto tutto del genitore. Iniziò a dondolarsi, sempre con gli occhi vacui e velati di tristezza, a un tratto solo con se stesso, con la mente stranamente vuota incapace di concentrarsi. Durante tutto il tempo Romina rimase ferma senza muoversi, pensando che quello fosse il modo più delicato di essergli vicino, di non disturbarlo più del dovuto.

    Arturo non capiva quale fosse il modo più corretto di affrontare la cosa, se telefonare al vecchio amico di famiglia, da lui chiamato sempre zio, o soprassedere ancora un mese e vedere cosa succedeva.

    «Mina, facciamo così. Se non ti dispiace questa pratica me la porto a casa e me la studio per bene. Anzi, potresti farmi il favore di portarmi gli altri tre mesi più quello precedente?»

    «L’ultimo con le fatturazioni in ordine?»

    «Sì, così faccio qualche paragone.»

    «Come vuoi. Tieni presente che è una cosa che ho già fatto io. Se vuoi mi ci metto con Massimo e i suoi ragazzi, così li faccio controllare anche a loro, non è la prima volta che lo facciamo.»

    «Non fraintendermi Mina, non è che non mi fido» disse scusandosi, «vorrei rendermi conto prima di chiamare mio zio.»

    A Romina non sfuggì il cambiamento del timbro di voce, del taglio implorante delle ciglia e gli occhi stranamente lucidi e brillanti. Ebbe la sensazione di avere di fronte un’altra persona, un fratello gemello arrivato lì da chissà quale paese lontano, usurpando l’erede al trono, cercando di ammaliarli con il suo perbenismo bennato.

    «Stasera ho proprio bisogno di occupare la mente pensando ad altro» continuò Arturo, con voce implorante, estranea anche ai propri orecchi. «Portami tutte le cartelline, fammi il favore, così, dopo cena, me le studio con calma e passo il tempo con la testa da un’altra parte.»

    «Va bene. Vado subito. Se avrai bisogno di qualche chiarimento, sentiti libero di chiamarmi in qualsiasi momento, anche sul tardi.»

    «Grazie» disse sollevato.

    La vecchia caposezione gli portò quello che aveva chiesto, Arturo ripose con una certa accortezza tutto nella borsa, facendo spazio fra le altre pratiche da studiare. Ricontrollò in modo maniacale il lavoro che si portava a casa, sperando gli bastasse per occupare una parte della serata. Aveva rifiutato un invito di Luigia e Roberto, i due che facevano coppia, a cena da loro nella nuova casa, quindi in qualche modo doveva ammazzare il tempo.

    Il problema per Arturo non era certo come far passare il tempo. Il problema era la casa, il giardino, la libreria piena dei suoi libri, e tutte le cose che le erano appartenute e che stavano ancora al loro posto. Poteva perfino immaginare di sentirla nell’altra stanza mentre cucinava, in bagno che si lavava, che si profumava per lui davanti alla toletta. E tutto questo in un solo attimo, offuscandogli la mente, riducendolo di nuovo a un guscio vuoto, vanificando il tempo perso nel tentativo di allontanarsi dai ricordi. Avrebbe potuto spostarsi in casa dei genitori, si disse, era vuota e lui aveva le chiavi, anche se vi dormiva una coppia di domestici niente gli impediva di trasferirsi per un po’. Ma neanche lì poteva stare, gli avrebbe ricordato i lunghi ed estenuanti litigi di Annarita coi suoi genitori, i fine settimana trascorsi da loro con la convinzione di fargliela piacere che finivano inesorabilmente in forti contrasti.

    Dopo una cena frettolosa con un panino, si adagiò sul divano ancora più sfinito della domenica appena passata. Aveva portato con sé dalla cucina una birra per compagnia, la poggiò sul tavolino lucido e strinse gli occhi, intrecciando le mani dietro la nuca. Quando li riaprì, dopo molto tempo e quando le braccia iniziarono a formicolare, vagò con lo sguardo cercando un punto dove poggiare gli occhi. Si soffermò sulla birra, ferma dove l’aveva lasciata, di fianco alla montagna di cartelle del lavoro d’ufficio. Con riluttanza si piegò verso di essa e prelevò il primo fascicolo, dando un sorso alla birra ormai calda.

    Fu così che sotto il mucchio di scartoffie intravide il pacco che Marta gli aveva portato. Non ricordava di averlo poggiato sul tavolino né ricordò di cosa si trattasse, ma erano tante le cose che ultimamente gli sfuggivano quindi non vi badò. Si liberò le mani e rivolse l’attenzione su di esso, così nascosto non riusciva a leggere.

    Fece scivolare il pacco senza far cadere niente, centellinando ogni millimetro per timore di scoprire il destinatario prima del dovuto. Con un groppo in gola lesse il nome della moglie, stampato con lettere in grassetto e con un carattere freddo e squadrato, più piccolo, tra parentesi, vi era anche il suo nome. Tenne il pacco per alcuni istanti, ripassandoselo da una mano all’altra, finché infine si decise ad aprirlo.

    Un libro. Il contenuto non era altro che un libro. Non molto voluminoso, in ottavo, con una copertina alquanto scialba, pensava Arturo intanto che lo studiava da tutti i lati. L’editore gli era sconosciuto, lesse il titolo, Il delitto d’Amore, poi si soffermò sul nome dell’autore, scritto in piccolo in un angolo, fino a quel momento coperto dalla sua mano. Rimase di stucco leggendolo: Annarita Giuliani. La prima pagina all’interno, quella del titolo, riportava anch’essa il nome di sua moglie. Come un demente si mise a controllare la corrispondenza di quel dato nelle varie parti del libro: di nuovo la copertina, il titolo interno e il copyright alla fine, e il nome era sempre lo stesso.

    Sua moglie aveva scritto un libro, e quando? non ricordava di averla mai vista scrivere. Era una gran lettrice, anche lui lo era, ma scrivere è tutt’altro.

    Poteva non essere lei l’autrice, forse l’aveva comprato perché la scrittrice aveva il suo stesso nome e le pareva curioso, e per farglielo vedere lo aveva acquistato a sua insaputa. L’immagine in copertina stranamente non gli era del tutto sconosciuta, ma non rammentava; un disegno rappresentava una spiaggia in prospettiva, dove l’azzurro del mare si mischiava al cielo e che dava poi il colore anche alla quarta. Non era granché come immagine, i colori erano stati falsati per camuffare forse l’originale. Sembrava una di quelle foto scattate in vacanza con il telefono e ripassate con un polarizzatore, senza badare a quello che si stava facendo, più per un istinto meccanico, sociale ormai, che per altro. La spiaggia era molto bella, il contrasto tra il bianco della sabbia e l’azzurro era forse ciò che sua moglie voleva per la copertina del suo libro, altrimenti non capiva come un lembo sovraesposto di spiaggia potesse aver destato un qualche interesse artistico.

    Il tempo passava mentre sperava di capire cosa gli ricordasse la spiaggia. Frugò tra i ricordi delle innumerevoli vacanze nei più bei posti al mondo, luoghi dove sempre avevano lasciato un pezzo di cuore perché era impossibile non innamorarsene. E la rimembranza gli portava dolore, si disse che in fondo non gli interessava niente sapere del posto, quindi si mise a studiare la formattazione, come sempre faceva prima di comprare un libro.

    Non ebbe nulla da eccepire, uno sguardo attento e veloce dimostrò che almeno la struttura e i dialoghi, i canoni standard di un romanzo, erano rispettati, conformi a quello che cercava in una lettura che non gli facesse scoppiare un mal di testa. Non trovò né intestazione né ringraziamenti, anche la pagina che menzionava

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