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Trauma
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E-book281 pagine3 ore

Trauma

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Info su questo ebook

Lecce, 2015. È il 18 aprile quando Vanessa e Federico compiono un errore, all'apparenza innocuo, che segnerà le esistenze di più persone.
È il 12 maggio quando Vincenzo, in seguito a un incidente stradale, si risveglia non ricordando nulla degli ultimi trenta giorni. 
La storia si sviluppa su piani temporali diversi. Nel presente, Vincenzo proverà a ricostruire gli eventi passati lottando con terrificanti visioni che riguardano la morte dei suoi nuovi vicini di casa: un uomo e un ragazzino sulla sedia a rotelle. Ma quanto c'è di vero in tutto ciò? Potrà fidarsi del ragazzo sconosciuto che sosterrà di aver fatto amicizia con lui prima dell’incidente? Cosa hanno fatto Vanessa e Federico? 
Sarà il passato a giungere in soccorso e a dissolvere i nodi di una realtà apparentemente priva di logica, ricostruendo la reale dinamica dei fatti e ricongiungendosi al presente e ai suoi retroscena come il pezzo mancante di un puzzle.
 
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita19 mag 2020
ISBN9788833665276
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    Anteprima del libro

    Trauma - Alessandro Petrelli

    Wikipedia.

    Prologo

    Quanto dolore può sopportare un uomo?

    Quella domanda ormai lo stava torturando.

    Esistono dei limiti ben precisi per ogni cosa e ci sarebbero stati anche per quello.

    Era come se gli avessero riempito il cranio con punte di trapano che macinavano qualsiasi cosa si trovassero davanti.

    La stanza intorno a lui era cupa. Non gli era mai sembrata così durante la sua esistenza, ma questa volta era diverso. Il buio lo stava travolgendo, lo sentiva entrare pian piano dentro di lui.

    Qualcosa si muoveva, ma non riusciva a capire se all’esterno, nelle pareti di cemento, o all’interno, nella sua mente. Qualcosa si stava agitando di continuo facendogli perdere la percezione del presente. I suoi piedi non avvertivano più il freddo pavimento e i suoi polmoni, ormai, facevano una gran fatica a inspirare la pesante aria che aveva invaso la stanza.

    Il suo organismo stava smettendo di funzionare.

    Ma si poteva morire così? Senza una ferita, senza un colpo e senza una malattia? I primi giorni si era promesso che prima o poi avrebbe reagito, che avrebbe ripreso in mano la situazione. Ma ben presto si era reso conto che era stato uno stupido errore pensare che ci sarebbe riuscito.

    Non aveva bei ricordi o piacevoli emozioni da rievocare perché la mente smettesse di torturarlo. Non aveva niente a cui aggrapparsi, niente.

    C’era solo il pensiero fisso di una negatività portata all’estremo da un qualche giochetto del destino, quel continuo chiedersi cosa avrebbe potuto fare per evitare di arrivare fino a quel punto, quella forza esterna che lo costringeva ad accettare il fatto che nulla più sarebbe potuto tornare come prima.

    Il suo orologio voleva fermarsi lì, in quella stanza, in quell’istante.

    Le sue mani continuavano a spingere sulle tempie con tutta la forza provando a placare il caos nella sua testa.

    La sua mente malandata stava piegando il suo corpo con impeto, lo torceva cercando di orientarlo sul pavimento: doveva farlo arrendere! Richiamò a sé tutte le forze per impedire che le sue gambe cedessero sotto il peso di una crisi che l’organismo, caparbio ma illuso, cercò fino all’ultimo di contrastare.

    È finita gli rimbombò una voce in testa.

    Delle fitte taglienti cominciarono a indebolirlo attaccando ogni zona del suo corpo.

    Le sue ginocchia cedettero e i palmi delle mani toccarono il freddo pavimento. Si trascinò verso il letto sfruttando le ultime fibre muscolari rimaste sotto il suo controllo e provò ad afferrare le lenzuola. Gemette per lo sforzo. Avvertì un liquido viscoso come petrolio greggio inondargli ogni via interna dell’organismo.

    Le palpebre calarono togliendogli dagli occhi quello scenario cupo e vacillante.

    I muscoli si rilassarono.

    La mente fu libera di spegnersi.

    Sabato 18 aprile 2015, sera.

    I ragazzi sapevano che prima o poi sarebbe arrivato il momento. Quel momento della serata in cui Federico, il capobranco, si sarebbe alzato dalla tavolata sulla quale si stavano consumando focacce, pizze, patatine e birre, e avrebbe proposto loro di giocare al gioco della bottiglia. Non al gioco della bottiglia che conoscono tutti, ma a una versione più pericolosa, più rischiosa. Tanto che Virginia, nel pomeriggio, si era cimentata a trovare qualche scusa per non presentarsi al compleanno di Gabriele quella sera. Ma non avrebbe potuto farlo. Avrebbe perso Vanessa, l’unica amica che aveva, e con lei tutta la comitiva. La paura di restare sola la soffocava e a causa di ciò aveva dovuto accettare quell’invito. Era rimasta impalata col cellulare in mano e con una leggera ansia nello stomaco quando le era arrivato quel messaggio:

    "Ragazzi questa sera tutti a casa mia per festeggiare il mio compleanno. Ho preso soltanto qualche birras per evitares che i miei facciano stories ;) A dopo."

    Gabriele usava scrivere i messaggi in uno spagnolo fatto a modo suo. O meglio, scriveva così le parti di messaggio nelle quali doveva giustificarsi di qualcosa. Come se quelle parole modificate con la esse finale risultassero più scherzose e dunque il destinatario le avrebbe accettate con più facilità. Nonostante Gabriele fosse un bullo e facesse parte della Comitiva dei Bulli -come li chiamavano in giro per Lecce- aveva comunque bisogno di giustificarsi quando doveva proporre qualcosa che sapeva non sarebbe piaciuta a Federico. Perché Federico avrebbe ribattuto e lo avrebbero seguito anche tutti gli altri: Giulio, Matteo, Alessandro, Marco, Vanessa, e forse avrebbe ribattuto anche Virginia, per far capire agli altri che era dei loro, era una bulla, anche se quella mansione la stressava e la faceva sentire più inadatta che mai.

    I ragazzi raggiunsero la casa alle venti in punto. Gabriele era l’ultimo della comitiva a compiere ventidue anni. I suoi genitori erano infermieri e avevano i turni di lavoro in comune, e quando entrambi facevano il turno di notte, Gabriele ne approfittava per invitare la comitiva a mangiare una pizza insieme.

    A parte il fatto che quella sera c’era più cibo -dato che si trattava di un compleanno e non di una serata qualunque- l’Iter era sempre il solito: si chiacchierava, si fumava e si beveva qualcosa a stomaco vuoto, poi si mangiava e si faceva qualche partita alla Play Station e dopo si posizionavano tutti intorno al tavolo a parlare, aspettando che Federico proponesse quel gioco che, a parte Virginia, aspettavano tutti con entusiasmo. A chi sarebbe toccato oggi? Che pegno avrebbe dovuto pagare?

    Quel gioco della bottiglia prevedeva soltanto due giri e dunque la scelta di due ragazzi. Il ragazzo che sarebbe uscito per primo avrebbe intimato al secondo il pegno da pagare.

    Gabriele svuotò una bottiglia di birra bevendone gli ultimi millilitri in un solo sorso e la posizionò al centro del tavolo.

    «Chi gira?» chiese Vanessa sorridendo. Tutti guardarono Federico. Virginia avvertì un tremolio nella zona addominale e pensò che sarebbe stato bello far parte di un’altra comitiva in quel momento.

    «Dato che è il tuo compleanno porgo a te l’onore», disse Federico indicando Gabriele con la mano aperta e capovolta come in segno di offerta.

    Vanessa contemplò il viso di Federico mordendosi il labbro inferiore. Oltre all’attrazione fisica in quei momenti si aggiungeva la notorietà di Federico e il suo carisma. Vanessa pensò a come sarebbe stato se si fossero messi insieme tempo prima, ma Federico dalle donne voleva soltanto una cosa e a Vanessa questo stava bene, ma fino a un certo punto. Fino a quegli istanti in cui si rendeva conto di quanto tutti lo adorassero, avvertendo una sensazione di gelosia con sfumature di istinto omicida. Marco e Gabriele erano rispettati e temuti dai coetanei in città, ma con Federico perdevano tutto il loro potere. Federico Manzoni aveva sempre ragione, sapeva pensare meglio di tutti, sapeva prendere tutte le decisioni più difficili, aveva personalità da vendere, ed era pure un bel ragazzo: alto un metro e ottanta, corporatura media, capelli ricci e castani corti ai lati, occhi castani, viso leggermente paffuto, guance dalle caratteristiche quasi vermiglie e un neo sullo zigomo destro. A sentire il suo cognome tutti avrebbero scommesso su Lettere e Filosofia come scelta di facoltà universitaria… l’erede inaspettato di Alessandro Manzoni. Ma lui aveva deluso tutti sin dall’inizio, frequentando l’Alberghiero per poter prendere poi la strada dei genitori, entrambi dei bravissimi cuochi di un ristorante in centro città. Ma in quegli anni si trasformò nel ragazzaccio che sarebbe stato e da quella scuola non apprese praticamente nulla, a parte le tecniche per guadagnare qualcosa spacciando un po’ di fumo e per picchiare e chiudere in bagno i compagni che non sottostavano alle sue regole.

    Tecniche che poi gli costarono una sospensione e una bocciatura, facendogli evitare per chissà quale miracolo una bella denuncia. Il padre e la madre erano delle brave persone, molto in gamba, ma educare un figlio unico senza viziarlo non è mai una missione semplice. Dopo le scuole superiori aveva preso Ingegneria e lemme lemme a suon di diciotto stava riuscendo a mantenere il passo che gli avrebbe fatto evitare qualche anno di fuori corso. Ovviamente, a richiamare la sua presenza alle lezioni erano le belle ragazze -che Vanessa avrebbe picchiato volentieri- attratte dalla figura del Bad Boy, che balenava in maniera sfolgorante in mezzo al branco di secchioni con occhi proiettati soltanto sui libri e sul professore che spiega. La Fiat Stilo color celeste di Federico poteva vantarsi di aver fatto accomodare più di dieci studentesse, e di averle portate poi in un condominio nei pressi dell’Istituto Tecnico Industriale di Lecce, dove l’assenza serale dei genitori, impegnati a lavorare, avrebbe permesso a Federico di impadronirsi del letto matrimoniale. Vanessa lo aveva seguito sin dalle scuole medie, ma dopo che i due avevano provato a frequentarsi per qualche giorno ai periodi del terzo superiore, Federico aveva capito che l’unica cosa che gli interessava di quella sua amica bionda dal fisico mozzafiato si trovava in mezzo alle gambe di lei.

    Per questo Vanessa, quella sera del diciotto aprile, aveva smesso di sorridere e continuava a mordersi il labbro inferiore rimuginando sul passato ma cercando di convincersi che comunque Federico apparteneva a lei. Era l’unica ragazza della comitiva -a parte Virginia che non si sarebbe mai permessa di farle uno sgarro-, e comunque sia era desiderata da tantissimi ragazzi che non si avvicinavano a lei solo per evitare di andare ad affrontare a tu per tu Federico. E questo le dava un senso di appartenenza a lui. Era suo!

    «Certo che è un onore» rispose Gabriele sorridendo.

    Tutti si misero in posizione di concentrazione e Federico sembrava il più rilassato.

    «Vedi di non barare testa di cazzo. Falle fare almeno tre o quattro giri», disse Alessandro, che era seduto a capo tavola di fronte a Federico, il quale sedeva a capo tavola dalla parte opposta.

    Gabriele fece seguire una risatina prolungata e Federico sorrise sotto i baffi e si strofinò le mani una contro l’altra come per prepararsi allo spettacolo.

    Gabriele era l’unico in piedi e si spostò col baricentro verso il tavolo. Impugnò la bottiglia e ruotò la mano e le dita per dare una spinta ad essa. Mentre la Nastro Azzurro vuota girava sul tavolo in legno massello tutti sembravano più seri e concentrati. I talloni di Virginia si muovevano su e giù e la maggior parte dei muscoli delle sue braccia erano contratti. Federico, che si era accorto della tensione di Virginia, ne risultò ancora più divertito.

    La bottiglia fece cinque giri e cominciò a rallentare. L’ultimo giro fu di una lentezza che dava ai nervi. La punta della bottiglia oltrepassò lentamente Giulio e Gabriele, fermandosi poi verso il capo tavola nonché capobranco.

    Federico si fece una forte risata e si alzò dalla sedia.

    «Fantastico» disse, «ho un pegno in serbo per voi uomini se mai uscisse uno di voi. Ma ne ho uno ancora più bello per voi donne», concluse facendo un occhiolino a Vanessa e Virginia. Questo fece entrare Virginia in uno stato di agitazione più forte. Quasi le venne l’impulso del vomito. Gli altri ragazzi si fecero due risate e Vanessa guardò Federico dal basso verso l’alto. Se uscirò io mi chiederai di andare a letto insieme per tutta la notte, pensò vogliosa.

    Il gioco prevedeva che il primo ragazzo scelto si alzasse e si posizionasse al di fuori del gruppo per attendere che la bottiglia indicasse il secondo. Federico Manzoni stappò una birra con l’accendino e si mise in piedi sorseggiandola e attendendo che il divertimento avesse avuto inizio. Gabriele si riposizionò in procinto di dare un'altra spinta alla bottiglia. Gli altri tornarono seri.

    La bottiglia riprese a girare…

    Virginia sperò che le squillasse il telefono e che ricevesse una cattiva notizia a causa della quale avrebbe dovuto lasciare quel tavolo e quel compleanno per scappare a casa, così tutti l’avrebbero compresa, ma la bottiglia riprese a rallentare e a passare davanti ad ognuno di loro con molta più calma. Quando diede segni di rallentamento più concreti, la punta della bottiglia passò davanti ad Alessandro. Sembrava stesse per fermarsi ma continuò indicando Virginia. Lei trasalì, ma la bottiglia continuò ancora… sembrava quasi spinta da una forza sovrannaturale che le fece valicare anche Virginia posizionandosi contro Vanessa.

    Gli altri urlarono di gioia. Federico sorrise e fece un altro sorso di birra. Virginia ringraziò Dio. Avrebbe voluto esultare in quel momento, alzarsi dalla sedia e gridare a squarciagola, ma fece finta di essere dispiaciuta per la sua amica.

    Vanessa aveva ancora lo sguardo puntato verso il collo della bottiglia, come per reggere il confronto con essa, come se la bottiglia la stesse guardando con aria di sfida. Poi stirò a lato gli angoli della bocca e guardò Virginia. «Di nuovo io… No!» disse Vanessa. «Incredibile», proseguì scuotendo la testa.

    Gabriele si fece una forte risata: «È vero. Di nuovo tu… dai che Federico sarà più buono di me, vedrai!» disse tenendosi con una mano l’angolo di coste che protegge la milza, sfogandosi di risate per il troppo divertimento. Anche l’ultima volta era toccato a Vanessa: nel novembre dell’anno precedente, in un’abituale serata a casa di Gabriele, proprio il padrone di casa aveva avuto l’onore di scegliere il pegno, che era stato pagato poi il sei dicembre successivo, sempre nella solita casa. Quella sera era stato invitato a cena un ragazzo che non aveva mai avuto niente a che fare con la comitiva dei bulli ma che aveva accettato lo stesso l’invito, dato che gli era stato fatto dalla bellissima Vanessa De Maio. Il ragazzo, ignaro di essere l’oggetto di uno scherzo organizzato, era stato portato da Vanessa nella cameretta di Gabriele più eccitato che mai: stava con una delle ragazze più belle di Lecce e per di più Federico sembrava aver accettato quella situazione senza problemi. Vanessa si era tolta la camicetta e il reggiseno e il viso della vittima era diventato paonazzo. Dopo vari adescamenti, aveva convinto il ragazzo a farsi legare i polsi con delle corde allo schienale del letto e a farsi coprire gli occhi con una benda nera. Lo aveva spogliato e subito dopo si era rimessa il reggiseno e la camicetta e aveva aperto la porta in modo da far entrare gli altri. Tutti avevano cominciato a urlare e a ridere a squarciagola. Il ragazzo era riuscito a liberarsi una mano e a togliersi la benda, e il suo viso era diventato un qualcosa di veramente storpiato dall’imbarazzo.

    Mentre un’ilarità lancinante aveva invaso la stanza logorando la dignità del giovane intento a rivestirsi a testa bassa qualcuno si era complimentato con Vanessa e con Gabriele per la trovata geniale. Il ragazzo, dopo essersi rivestito, aveva mandato uno sguardo torvo a Vanessa De Maio e aveva lasciato la casa di corsa.

    Vanessa ripensando a quell’ultimo scherzo ne risultò divertita. D'altronde era stata una serata spassosa e in più Federico le aveva chiesto con un pizzico di gelosia se si fosse spogliata anche lei in quei minuti passati con quel ragazzo in camera. Ho tolto solo la camicetta gli aveva risposto, e Federico si era eccitato al pensiero delle sue tette compattate nel reggiseno. Così, quella sera le aveva offerto un passaggio a casa e avevano fatto sesso in macchina in una piazzola di sosta sulla tangenziale est.

    Magari salta fuori di nuovo una serata del genere, pensò Vanessa molto convinta di ciò, dato che il pegno da pagare glielo avrebbe dovuto intimare Federico questa volta. Un motivo in più per avere contatti con lui. «Bene», intervenne Federico. «Mia cara Vanessa… ora ti dirò quale sarà il pegno da pagare.»

    Tutti rimasero in silenzio attendendo il verdetto.

    Federico aveva già progettato il pegno ma guardando Vanessa gli venne in mente qualcosa. Un ricordo risalente ai tempi delle scuole medie, un ricordo leggermente arruffato ma ancora abbastanza vivo e presente. Un ricordo che riguardava quel ragazzo pacato e solitario. Quel ragazzo smilzo vittima di tutti gli scherzi di Federico, Vanessa e degli altri compagni. Un ricordo che riguardava quel ragazzo e una frase a lui dedicata che era diventata quasi un tormentone in quei tre anni di scuole medie.

    Facciamo un bel tuffo nel passato, sarà divertente! Pensò Federico, e più assorto che mai pronunciò le prime parole: «Questo pegno riguarda…» disse mentre la maggior parte dei ragazzi abbassava la testa con lo sguardo puntato sulla sua bocca per leggerne il labiale, dato che aveva iniziato a parlare a voce molto bassa. Federico sorrise in modo convinto e alzò il tono della voce: «Vincenzo», continuò, «dovrai fare qualcosa a Vincenzo Mello.»

    Tutta la comitiva conosceva quel nome ma per Vanessa era molto più familiare, così anche lei accennò un sorriso e guardò Federico divertita. «E cos’altro dovremmo fare a quel povero ragazzo?» chiese lei. Federico amplificò l’intensità del suo perfido sorriso.

    Martedì 12 maggio 2015, mattina.

    Le urla del bambino sembravano lontane mille chilometri. Erano dei lamenti a tratti soffocati e a tratti talmente forti da scalfire i timpani dell’uditore.

    Vincenzo Mello era disteso sul letto accalappiato in un sogno ma mostrava segni di risveglio con movimenti della testa e strane espressioni del viso. Le urla del bambino si fecero più forti, oltre ai semplici gemiti si aggiunsero delle parole impostate male e orfane di qualche consonante. Si susseguivano cercando di formare delle frasi d’aiuto.

    Vincenzo si issò di scatto e avvertì un ultimo urlo che gli invase la mente per poi affievolirsi e spegnersi. Si mise seduto sul bordo del letto e si guardò intorno. La stanza era vuota. Per un attimo pensò di non trovarsi a casa sua ma piano piano riacquistò la ragione e la cognizione. Provò ad alzarsi e avvertì un lieve giramento di testa. Si sentì come se avesse dormito tre giorni di fila, gli sembrò di avere le articolazioni rigide e tumefatte. Provò a scrollarsi un po’ e si strofinò velocemente il viso. Percepì un leggero mal di testa che partiva dal centro del cervello come un puntino che sembrava intento ad espandersi velocemente.

    Si alzò dal letto e si affacciò dalla finestra della sua cameretta, dopo aver notato la solita desolazione scese in cucina al pianterreno. Era già mattina tardi e il sole caldo del Salento splendeva riscaldando l’intera casa.

    Andò verso il frigorifero e lo aprì, lo scrutò ma notò che come al solito era quasi vuoto. Sua madre era partita da due giorni per quel lavoro a Lentini senza preoccuparsi di lasciare qualcosa da mangiare a suo figlio. Ma anche se ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla, lei non avrebbe avuto di certo il tempo per andare a fare la spesa, ma lui non ne aveva di certo la voglia.

    Guardò con attenzione i diversi ripiani del frigo nell’intento di scorgere qualcosa da mettere in bocca. Anche una mela o un finocchio sarebbero stati accetti.

    Poi udì di nuovo quelle urla provenire da fuori. Si girò di scatto avvertendo un brivido ma sapeva

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