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Moretti '80
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E-book213 pagine3 ore

Moretti '80

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8° volume della collana "Cinema del '900".

A cura di Massimo Moscati.

Una nuova collana che, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche. Un'arbitraria, quanto rigorosa istantanea, di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.

Nanni Moretti: l'autarchico, lo splendido quarantenne, l’antiberlusconiano con i suoi girotondi o il maestro attuale, riconosciuto ma forse meno originale di un tempo?

Della sua ormai lunga carriera, ci sembra di poter affermare che sono in realtà gli anni '80, gli "orribili" anni ‘80 per tanti critici e autori impegnati (sia sul fronte politico che su quello cinematografico), a essere il decennio d’oro di Giovanni Moretti detto Nanni, regista romano ma nato a Brunico, in Alto Adige, nel 1953.

Il decennio che certo prende le mosse dai suoi fortunatissimi esordi degli anni ‘70 - Io sono un autarchico ed Ecce Bombo - che lo resero un caso nazionale, ma anche forieri di equivoci (era ritenuto uno dei “nuovi comici”).

È negli anni ‘80 che Moretti sviluppa un percorso sempre più interessante, originale: il decennio che inizia con Sogni d’oro (1981), coraggioso, premiato a Venezia ma poi un insuccesso in sala, che vede la consacrazione a metà decennio con il meraviglioso Bianca e con il maturo La messa è finita che gli regala al Festival di Berlino anche una consacrazione internazionale, che lo vede diventare produttore (anche per altri) con la Sacher Film e che si chiude con Palombella rossa (1989), il film che apre ufficialmente la crisi del PCI alla vigilia della caduta del Muro di Berlino.

Alla fine del decennio, non è solo l’autore più stimato e temuto, ma anche quello più in grado di incidere sul dibattito sociale e politico. Come i maestri di un tempo.

LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2022
ISBN9788869347856
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    Moretti '80 - Antonio Autieri

    Antonio Autieri

    Moretti ‘80

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, novembre 2022

    e-Isbn 9788869347856

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Cinema del ‘900: Massimo Moscati

    Editing: Cesare Paris

    Editing: Cesare Paris

    Foto di copertina: Alessandro Blasetti sul set di Peccato che sia una canaglia (1954)

    Disegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Antonio Autieri

    Antonio Autieri (Milano, 1969) è un giornalista con trent’anni di attività alle spalle, soprattutto nell’ambito del mercato e della produzione cinematografica.

    Nel 1997 è stato il primo direttore di Box Office, la principale testata sull’argomento che ha diretto fino al 2016.

    In seguito, ha collaborato per due anni con l’Associazione Nazionale delle sale cinematografiche ANEC, di cui ha seguito la comunicazione.

    Dal 2000 guida con alcuni giornalisti e critici l’Associazione Sentieri del Cinema, con un sito Internet di recensioni molto apprezzato, che organizza rassegne nei cinema, nelle università, nelle scuole e per enti pubblici e privati.

    Cinema del ‘900, attraverso il ritratto di dieci attori/registi, rievoca 100 anni di cinema italiano, tracciandone le coordinate stilistiche e tematiche.

    A cura di Massimo Moscati, una nuova collana, volutamente arbitraria, ma rigorosa istantanea di una grande e lunga stagione del nostro cinema, dagli albori fino alla fine del secolo scorso.

    Dieci volumi per dieci autori esperti della materia e grandi conoscitori della settima arte.

    Una collana volta alla riscoperta di grandi capolavori perché il Classico, per sua natura, è sempre contemporaneo e sempre all’avanguardia.

    Un gigante sulle cui spalle possiamo salire per vedere un tratto in più di orizzonte che, altrimenti, rimarrebbe nascosto.

    I titoli della collana:

    Alberini ’00 di Riccardo Lestini

    Pastrone ’10 di Luca Mazzei

    Bertini ’20 di Letizia Cilea

    Camerini ’30 di Beppe Musicco

    Blasetti ’40 di Maria Triberti

    Totò ’50 di Massimo Moscati

    Tognazzi ’60 di Alessandro Garavaglia

    Fellini ’70 di Nicola Bassano

    Moretti ’80 di Antonio Autieri

    Verdone ’90 di Gianluca Cherubini

    Prefazione

    Un pubblico privatissimo

    La si può pensare come si vuole, ma la figura di Nanni Moretti è imprescindibile dal suo impegno politico, che ha viaggiato parallelo con quello artistico anche se con modalità personalissime.

    Cinema, teatro, radio, musica e sport interessano il giovane Nanni Moretti molto più della politica, questo lo metterà al riparo dalle derive degli anni di piombo. Ma ciò non gli impedirà che negli anni si occupi della mutazione del Partito Comunista, che si dedichi a vari temi di carattere pubblico fino a decidere di entrare nell’arena pubblica in contemporanea con l’ingresso di Silvio Berlusconi in politica. Alcuni si sono spinti a ritenere Il caimano (2006), apparso nel bel mezzo della campagna legislativa, un elemento che ha contribuito alla sconfitta del leader di destra (poi tornato al potere nel 2011 ma in seguito affrontato meno a muso duro da Moretti).

    Dal suo primo cortometraggio La sconfitta (1973), il regista manifesta da subito un rapporto difficile con l’impegno politico, alternando ciò che accade in una vera manifestazione operaia alla crisi politica di un giovane sessantottino: la colonna sonora accompagna o commenta l’evento e segue lo sviluppo parallelo della crisi subita dal protagonista. Sotto forma di appunti più che di racconto, emerge l’evoluzione di un militante di sinistra che, attraverso una serie di esperienze, dubbi e disillusioni, interviste ad amici e compagni, smette di fare politica. Moretti intende affrontare criticamente i problemi della sinistra italiana di allora, come il rapporto pubblico-privato che appariva come un nuovo modo di fare politica. Michele (il protagonista) afferma fin dall’inizio: «Noi raccontiamo noi che dobbiamo lottare affinché le generazioni future possano avere una società più libera, in modo che i nostri figli possano beneficiarne. E noi?! Perché a me, delle future generazioni, non interessa!». La sconfitta nasce dal fatto che i piani della crisi individuale e quelli della crisi collettiva (la combattiva classe operaia) non si incontrano.

    Con i suoi primi tre film – Sono un autarchico (1976), Ecce Bombo (1978) e Sogni d’oro (1981) – Moretti tratta di cinema, teatro, televisione e radio libere ma non frontalmente sotto l’aspetto politico. Analogamente in Bianca (1984), che tuttavia sviluppa il tema dell’educazione intrecciando drammi psicologici e sentimentalismo con taglio da commedia, e presenta un commissario di polizia secondo un’ottica piuttosto benevola. Ne La messa è finita (1985) domina la dolorosa sensazione che nulla sarà gioioso come l’infanzia. Peggio ancora, Don Giulio, interpretato dallo stesso Moretti, si ritira in Patagonia dove spera di poter finalmente tornare utile. È la dichiarazione più netta di disamore della politica da parte dell’artista.

    Con Palombella rossa (1989) arriva la svolta. Michele Apicella, colpito da amnesia, si ritrova ai bordi di una piscina con dei giocatori di pallanuoto. Dal suo passato riaffiora un’attività di alto funzionario politico all’interno del Partito Comunista, che gli è valsa la ribalta davanti ai giornalisti durante un programma televisivo.

    Michele è diventato comunista «un po’ per affetto, un po’ per disperazione». Essere comunista significava «stare con altre persone che come te credono in certe cose, partecipare a un movimento che cerca di trasformare la realtà». Nel 1989 la situazione è cambiata e la trasformazione del mondo richiede una posizione meno radicale per raccogliere le forze del progresso. Vengono così riportati alle loro posizioni intransigenti tutti gli instancabili chiacchieroni che girano intorno alla piscina, stalinisti di sinistra, fascisti, cattolici. Tutti inquisitori, tutti certi di ritenere la verità, tutti colpevoli di «parlare male, pensare male, vivere male».

    Egli stesso, lungi dal porsi come modello, si trova troppo complicato e fortemente ancorato alla nostalgia del passato. Urla: «Le merende della mia infanzia non torneranno mai più, il brodo di pollo di quando stavo male, gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze estive». Ancora una volta è la dimensione personale a dettare l’impegno. Che, tuttavia, non gli impedisce di girare il documentario La cosa (1990), sul travaglio del Pci di Achille Occhetto che cambierà nome e… pelle.

    Arriva, così, Caro diario (1993), un’opera più leggera dove il cineasta, ma in armonia con il mondo, è però d’accordo con se stesso. Onnipresente il tema della solitudine: passeggiare da soli, giocare con la palla, trovarsi soli davanti ai medici. Il tema del corpo, felice di stare in sella ad una Vespa nella Roma assolata di Ferragosto, è tanto più sentito in quanto, come rivelato nell’ultima parte del film, Moretti è appena scampato al cancro elaborando una profonda sfiducia nella medicina: «D’ora in poi mi prendo cura di me stesso e mi prescrivo, ogni mattina, un bicchiere abbondante di acqua pura a stomaco vuoto».

    Il tallone del partito-azienda di Berlusconi s’instaura in Italia (tra il 1994 e il 2006), e nove cineasti poi prendono posizione contro l’irruzione politica del magnate televisivo: Francesca Archibugi, Antonio Capuano, Marco Tullio Giordana, Daniele Luchetti, Mario Martone, Carlo Mazzacurati, Marco Risi, Stefano Rulli, Nanni Moretti producono manifesti antiberlusconiani. Nel collettivo L’unico paese al mondo (1994) Moretti percorre in Vespa il quartiere La Défense di Parigi, ricordando che l’Italia è l’unico Paese al mondo a consentire al proprietario di tre emittenti televisive di candidarsi alla presidenza di un Paese.

    Questo impegno prosegue con Aprile (1998) dove osserva che il cortometraggio del 1994 non è stato sufficiente per impedire a Berlusconi di diventare per la prima volta Presidente del Consiglio. Il film narra di un disilluso Nanni Moretti, che interpreta se stesso, che decide di realizzare un documentario sull’Italia, dove una sinistra indecisa finirà col perdere la sua anima. Se La stanza del figlio (2001) è un dolente film introspettivo e privato, con Il caimano (2006) Moretti firma uno straordinario (e implacabile) instant-movie sul secondo mandato di Berlusconi, dal 2001 al 2006, che esce a pochi giorni dalle elezioni legislative che vedranno il leader della destra alleato dell’estrema destra perdere di pochissimo le elezioni, costringendolo all’opposizione per i due anni successivi. Il caimano racconta l’entità del danno degli anni berlusconiani (Tv, corruzione, attacco ai giudici…) in forma di commedia con il travolgente supporto attoriale di Silvio Orlando.

    Moretti non interpreta il ruolo principale come se non volesse vampirizzare con la sua presenza l’importanza del suo intervento. Ma scomponendo Berlusconi in quattro interpreti sempre arroganti ma alternativamente odiosi, viscidi, volgari e terrificanti, offre una delle accuse satiriche più pesanti di un personaggio pubblico mai apparse.

    Infine, lo stesso Moretti interpreta la quarta incarnazione di Berlusconi nella scena finale che lo vede invocare l’insurrezione popolare una volta condannato dai giudici. Fa venire i brividi pensare a cosa sarebbe accaduto, per esempio, molti anni dopo con Donald Trump e l’assalto a Capitol Hill.

    Ma Il caimano segna anche la fine della lotta politica di Moretti contro Berlusconi che con Habemus papam (2011) si dedica ad un’altra forma di accusa contro il potere, volgendosi al balcone di San Pietro. E centrando una profezia straordinaria: le dimissioni di un pontefice. Ma qui il ritiro, la rassegnazione dell’uomo di potere che lascia il popolo senza un leader, avviene affinché finalmente emerga un potere collettivo.

    Con Mia madre (2015), l’attenzione è nuovamente rivolta all’odio per gli slogan preconfezionati, le cose mal dette e mal pensate.

    Mentre il documentario Santiago, Italia (2018) è una vibrante rievocazione dei fatti inerenti alla caduta di Salvador Allende nel Cile di Pinochet: la politica c’è sempre, comunque. La metafora è inerente ai migranti in fuga dalle coste libiche (i profughi cileni furono ben accolti dall’Italia) e in molti criticano Moretti per non aver espresso più chiaramente la sua contrarietà a Matteo Salvini, ministro dell’Interno con il sostegno di una destra d’ispirazione fascista. Ma il regista è cambiato, è sempre più convinto dell’inutilità della lotta frontale con chi non la pensa come lui: è impossibile il dialogo contro la malafede e l’irresponsabilità.

    E così l’impegno politico è assente in Tre piani (2021), a parte la figura abbozzata del patrigno di Andrea. Tuttavia, l’ideale ridotto ai soli valori familiari richiede maggiore flessibilità e la speranza che tutto finisca in una danza collettiva. Perché, in fondo, Moretti resta fedele a se stesso. E nel suo ruolo di psicologo ne Il Colibrì (2022) è uno straordinario arbitro di tennis che abbandona la partita dicendo: «Sostituitemi o fate da soli», e a chi dice «E come facciamo», risponde «Fate, fate…, tanto hai perso».

    Massimo Moscati

    Introduzione

    Perché Moretti

    La scelta di Nanni Moretti per caratterizzare gli anni 80 ha, per chi scrive, ragioni oggettive e soggettive. Partirò dalle seconde, per liquidarle in poche righe, ma sono ragioni a me care. Perché Moretti è stato uno di quei registi (insieme a Woody Allen, in seguito Martin Scorsese, Andrej Tarkovskij, Wim Wenders e poi tanti altri) che mi ha aperto gli occhi e il cuore sulle possibilità comunicative che aveva il Cinema. Scoperte peraltro, inizialmente, sui piccoli schermi domestici. Ricordo bene la sera in cui, tra uno spot e l’altro (orrore!), il suo Bianca sorprese un giovane liceale inizialmente incerto su quanto stava vedendo: minuto dopo minuto, in maniera imprevedibile, quella storia, quel personaggio, quel particolarissimo modo di rappresentare la realtà e osservare l’umanità mi conquistò. Se, pochi anni dopo, ho iniziato a scrivere di cinema lo devo anche e soprattutto a Moretti e agli altri autori citati.

    Ovviamente questo riguarda solo chi scrive. Ma di fronte alla scelta di quale regista italiano poteva aver caratterizzato gli anni 80, quella del Nanni nazionale mi sembra in ogni caso la più solida e importante. Al tempo stesso, all’inverso, se ci chiediamo quale è stata la decade più importante per questo autore la risposta ci pare la stessa. Sono due facce della stessa medaglia. Perché negli anni 80, dopo gli inizi promettenti di fine anni 70 con Io sono un autarchico e Ecce Bombo, Moretti passa da essere una giovane promessa che rischia di arenarsi per un mezzo passo falso (Sogni d’oro, 1981) ad autore ancora giovane ma già centrale nel nostro cinema con due delle sue opere migliori, appunto Bianca (1984) e La messa è finita (1985), che trasformano il suo personaggio Michele Apicella da buffo e curioso alieno della società e della controcultura di sinistra post sessantottina a coscienza critica universale, che attraversa le contraddizioni della società e del vivere: la crisi della famiglia e degli affetti, la paura dei legami, la solitudine, l’incomunicabilità tra le persone, l’angoscia per la mortalità umana. Ma anche la nostalgia della purezza dell’infanzia, la pietà per chi non ce la fa, le speranze spesso deluse ma sempre pronte a rinascere.

    Tutti temi che rendono Nanni Moretti il miglior indagatore, a livello italiano, dell’uomo contemporaneo nella società degli anni 80, uscita – per fortuna – dagli anni di piombo ma ancora sotto la cappa di tensioni sociali e ideologiche che condizionavano le persone. Al tempo stesso Moretti riesce a universalizzare tali istanze, che lungi dall’essere particulari e locali – come molti detrattori ritenevano: in fondo i suoi primi film parlavano dei giovani borghesi di Roma nord, e oltre non andavano… o no? – potevano rivolgersi a tutti. Anche al bracciante lucano, al pastore sardo e alla casalinga di Treviso, checché ne dicesse il suo contestatore ricorrente in Sogni d’oro.

    Pur senza formazione ma da autodidatta, Moretti era apparso sulla scena a fine anni 70, con modalità anche un po’ fortunose con il suo primo film in Super 8. Poi però il credito iniziale se lo era meritato tutto, riuscendo a leggere le ansie giovanili, facendo sorridere con meccanismi parodistici acuti e cogliendo nel segno con osservazioni e letture esistenziali profonde, meglio di qualsiasi altro autore di quegli anni. Ma negli anni 80, l’autore romano nato a Brunico diventa appunto universale: esce dall’equivoco dei nuovi comici – quanto facevano ridere certe gag e certe battute, diventate veri tormentoni… – usando le proprie nevrosi e ossessioni personali per parlare a un pubblico ampio.

    Sicuramente i suoi film, le angosce, il candore e le tristezze di Michele Apicella (o di don Giulio, sua versione sacerdotale), riuscivano a coinvolgere gli spettatori più avvertiti che trovavano in lui un narratore più credibile rispetto al cinema d’autore dei maestri superstiti, ormai un po’ esangui, alle commedie superficiali di quel periodo o ai film dei comici del momento. I ricordi d’infanzia, la passione per i dolci, perfino la pallanuoto potevano diventare chiavi di accesso alla memoria, alle sofferenze e alle speranze di tanti. Il suo stile era semplice ed essenziale, anche troppo per alcuni detrattori, ma reso vivace da continue invenzioni di sceneggiatura, sempre funzionali al racconto e allo scopo prefissato. Al centro c’è lui e i suoi alter ego, con una recitazione personale e poco impostata ma in grado di attirare e provocare.

    A chiudere il decennio, poi, Palombella rossa che poteva sembrare solo ai più distratti un film ristretto a chi dibatteva sul futuro del Partito Comunista: con un film più rischioso dal punto di vista stilistico e narrativo, Moretti riusciva ancora di più a catturare l’attenzione e a dividere la critica e il pubblico. Ancor prima, con gli altri due film (Notte italiana e Domani accadrà) della neonata casa di produzione Sacher Film, insieme ad Angelo Barbagallo era diventato un simbolo di un modo di fare Cinema diverso, più serio e attento alla qualità e alle storie. Un’operazione con cui diventava ancora più autarchico, indipendente e orgogliosamente originale.

    Ma tutto questo sarebbe stato forse meno incisivo con un carattere differente. L’autarchico narcisista e insofferente, presuntuoso e antipatico, arrogante e coraggioso,

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