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Quel dolce nome
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E-book258 pagine3 ore

Quel dolce nome

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Info su questo ebook

Chi è l’uomo che, con riluttanza, entra in ospedale per sottoporsi a un banale intervento chirurgico? E perché ha tanta paura di essere riconosciuto? Sarà un uomo comune, come sembra a prima vista, o forse la sua natura è diversa, più oscura e inquietante, colma di una vergogna inconfessabile?
Di certo non bastano le visite della moglie e l’affetto della figlia a proteggerlo dall’ostilità e dal biasimo che, durante il ricovero, gli manifestano medici, infermieri e persino i pazienti.
Moglie e figlia non possono risparmiargli neppure la processione di visitatori che, certe notti in corsia, si accosta al suo capezzale. Sicuri di non temerne il giudizio, tutti gli affidano confessioni intime, risentimenti profondi, alibi di esistenze incomplete e infelici: le piccole e grandi illusioni che li aiutano a sopravvivere e a distaccarsi da complesse figure paterne.
Un romanzo bello e profondo dove il presente si intreccia ai ricordi in una sequenza di immagini e profumi, nostalgie e rimorsi.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2020
ISBN9788832926835
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    Anteprima del libro

    Quel dolce nome - Mario Schiani

    1993

    1

    La moglie scostò la trapunta, raggelandogli i piedi.

    Dormi?

    Figurarsi.

    Non dormiva da vent’anni.

    Alzati, allora.

    La sentiva trafficare con pantofole e vestaglia.

    Che ore sono?

    Le cinque.

    Accese la lampada accanto al letto. Il ritratto di Giulia, il San Sebastiano di Dresda, la Bagnante di Braque e, sulla poltroncina damascata, la valigia pronta dalla sera prima.

    Cerca di sbrigarti.

    Per carità.

    La finestra del bagno irraggiava il riflesso di un lampione. Urinò poco e con più fatica del solito, nel timore di certi mancamenti che, spesso, lo lasciavano intriso di sudore. Fece scrosciare a lungo la doccia prima di tornare in camera dove trovò ad attenderlo, sul letto già rifatto, una camicia a righine e un completo scuro, di lana. Gli era dunque concesso il privilegio di scegliere la cravatta.

    Sei pronto?

    Arrivo.

    Decise per una blu, decorata con piccole foglie rosse, e l’annodò davanti allo specchio, lentamente, con dispettosa cura.

    Ritrovò la moglie in cucina. Sorseggiava un caffè, in piedi, e pareva avesse gli occhi su un lato della faccia, come nei ritratti dei suoi amati cubisti. Le chiese del tè.

    A digiuno, hanno detto.

    Per riscaldarmi.

    Non fare il bambino.

    Tacque, contrariato, e quando lei annunciò che avrebbe chiamato un taxi fu pronto a protestare.

    Posso benissimo guidare la macchina.

    Chi la riporterà a casa? eccepì la moglie abbottonando l’impermeabile.

    Giulia.

    Giulia non ha tempo.

    Il tassista potrebbe riconoscermi, non ci pensi?

    La moglie gli porgeva il cappotto. Al telefono, spiegò, aveva ottenuto un taxi in sei minuti.

    Perché non prendiamo l’autobus? insistette lui. La gente in autobus passa inosservata.

    Non lo sapevo. Mettiti la sciarpa.

    Soffocherò.

    Al portone si attardò per accertarsi che non gli avessero lordato la cassetta della posta.

    Vieni?

    In tutta la via non una persiana era aperta. Il giorno incombeva, annunciato dalla crescente diluizione del cielo notturno, ma i lampioni erano ancora accesi. Le automobili parcheggiate accosto al marciapiede mettevano malinconia: sembravano relitti polverosi. Qualcuno aveva finalmente coperto le scritte sul muro, ma sotto le pennellate sbrigative si intravedeva ancora la parola porco. Un originale, in testa una sorta di colbacco, passò gesticolando e mormorando bestemmie.

    Lui riprese a lamentarsi: Non avevano detto sei minuti?

    Sta arrivando, non vedi?

    Ebbe subito il tassista in antipatia: era sciatto e indolente e i suoi occhi, inquadrati nello specchietto retrovisore, parevano scrutarlo.

    Non c’era bisogno di tutta questa messinscena, mormorò.

    L’autoradio si dilungava sulle Borse asiatiche.

    Non preoccuparti.

    E chi si preoccupa? Non voglio ostentazioni, lo sai.

    Capirai che ostentazione.

    Ma ci teneva a mostrarsi risentito e al passo carraio dell’ospedale, quando il tassista rifiutò di procedere oltre, rivolse alla moglie uno sguardo di biasimo.

    Bello scansafatiche.

    Gemelli. Dove sarà l’Accettazione?

    Camminavano fianco a fianco lungo il viale alberato. Alla prima luce, il colore delle foglie autunnali mutava con discrezione dal grigio fumoso al giallo intenso. Sarebbe stata una giornata di sole.

    L’Accettazione si rivelò una casupola prefabbricata. Una baracca, la liquidò lui, entrandovi con il volto affondato nella sciarpa.

    Ci resteremo solo pochi minuti.

    Trovarono un corridoio spoglio sul quale gli sportelli si affacciavano come quadri in una galleria: ritratti di impiegati indifferenti.

    Bisognerà consegnare i moduli.

    Ci penso io. La moglie aveva preparato l’incartamento. Laggiù, nell’angolo, indicava, c’è una sedia libera.

    Lui sedette a testa bassa, guardandosi le scarpe con commiserazione. Presto dovette allentare la sciarpa: il locale era surriscaldato. Ecco: un uomo lo fissava. Poteva scorgerne soltanto il lembo inferiore del cappotto ma non c’erano dubbi, guardava proprio lui. Non era ancora stato ammesso che già incominciavano i guai. Cercò a sua volta di sbirciare l’uomo: era piuttosto grasso, con una gran testa calva e la bocca piccola, disgustata. Si irrigidì nell’anticipazione. L’uomo tradì un moto di noia e spostò lo sguardo altrove. Falso allarme. E pensare che era pronto a farne una colpa alla moglie. Dov’era finita quella benedetta donna? Allo sportello più lontano: discuteva con un impiegato.

    Allora?

    Il letto non è pronto.

    Incominciamo bene, piagnucolò lui. Mi avranno riconosciuto. Non sarà il caso di andarcene? Prendiamo un taxi.

    Prima devono dimettere un altro paziente, ecco tutto. Possiamo aspettare qui, oppure salire subito in reparto, al terzo piano.

    Lui invidiava il paziente dimesso.

    E la mia tazza di tè?

    La moglie aggiustò la borsetta in grembo. Andiamo in reparto.

    Al piano li accolse un’infermiera giovane e formosa, dal volto fresco e selvatico. Portava i capelli raccolti a coda di cavallo. Confermò che il letto non era ancora pronto e propose loro di accomodarsi nella sala da pranzo.

    Abbiamo la televisione, annunciò e senz’altro accese l’apparecchio. Non tutti i programmi sono oziosi.

    Lui si rivolse alla moglie in un sussurro: Hai sentito? Ha detto oziosi. Non è strano?

    Vergine.

    Mi avrà riconosciuto?

    Ma che cosa c’entra?

    Sedettero a un tavolo di formica, verde come verde era il pavimento in tutto il reparto.

    Se avessimo preso una camera privata... sospirò lui.

    Ancora con questa storia? Lo sai che non è possibile.

    Non replicò ma la sua espressione corrucciata indusse la moglie a un commento: Forse sarebbe stato perfino peggio. Come dichiarare a tutti che ti vuoi nascondere.

    Io mi voglio nascondere.

    Non ce n’è motivo.

    Lo dici tu.

    Ma sì.

    Aveva un piglio diffidente: di certo la urtavano le riproduzioni appese alle pareti. Templi, colonne doriche, capitelli. Vuoi mettere un bel Delaunay o come diavolo si chiamava?

    In un angolo stazionava una carrozzina ortopedica; sullo schienale, con il pennarello, avevano scritto: Urologia.

    Alla televisione il programma del mattino parlava di pomodori. Un uomo baffuto ne illustrava le diverse caratteristiche.

    Dovrà proprio dirci tutto sui pomodori? Forse invidiava un poco anche lui.

    L’infermiera oziosa si presentò tendendo un bicchiere sterile. Ci serve l’urina per uno standard. Il bagno è laggiù, faccia con comodo. Si era congedata con un goffo inchino, aggiungendo: La cappella è al secondo piano.

    Lui sbottò: Adesso vogliono l’urina. Come faccio se non ho bevuto niente da ieri?

    Prenderò una bottiglia d’acqua al distributore, risolse la moglie. E anche il giornale, così potrai fare il tuo controllo.

    Il tono condiscendente di lei non gli piaceva affatto.

    Abbassa la voce.

    L’acqua minerale aveva un sapore metallico. Bevette comunque a fondo e, sfogliando il giornale, rimase in attesa dello stimolo.

    Il reparto incominciava ad affollarsi. Le infermiere, stabilì, chiacchieravano troppo e a voce troppo alta. Più sfacciati ancora gli parvero i medici: di tanto in tanto l’uscita di uno era accolta dagli altri con grandi risate.

    Ripiegò il giornale: non c’era una parola che lo riguardasse.

    In corridoio passò una lettiga con un malato (avrebbe dovuto chiamarlo degente?) pronto per l’operazione; le gambe erano coperte da un lenzuolo, il torace avvolto in una camiciola azzurra e la testa coperta da una cuffia dello stesso colore. Lo accompagnavano l’infermiera oziosa e un’altra ragazza, bionda e sottile, che portava occhiali dalla montatura rossa. Quelle due gli rimandavano un’impressione di fiducia. Sperò che, venuto il momento, toccasse a loro scortarlo in sala operatoria.

    La sua malattia si chiamava Iperplasia prostatica benigna e l’avrebbero trattata con un intervento chirurgico, la Resezione transuretrale della prostata. Un’operazione fastidiosa ma non complessa, così gli era stato assicurato, e soprattutto senza rischi.

    Era comunque colpa sua se si era arrivati a tanto. Per anni aveva ignorato i sintomi che a ogni minzione si facevano più evidenti. Lo sforzo di urinare era diventato pian piano gravoso e il flusso, come diceva il medico, debole e intermittente.

    Non per questo aveva perso lo stimolo, anzi. Ogni notte era più volte chiamato in bagno dove, intorpidito, si costringeva a produrre schizzi pesanti, proiettati al costo di fitte infuocate. A volte doveva accompagnarli con un colpo o due della pelvi e, così facendo, invariabilmente si sentiva ridicolo. Senza contare che al termine di quelle battaglie non di rado era privo di forze, al punto da rischiare di svenire. Ma c’era di che stupirsi, a sessantaquattro anni compiuti? La luce del bagno rimaneva accesa a lungo, e la moglie aveva finito per accorgersene.

    Che cosa aspetti ad andare dal dottore? gli aveva chiesto una sera, di punto in bianco, senza alzare gli occhi da una monografia di Duchamp.

    Non è il caso.

    Direi proprio di sì invece.

    Anche Giulia, da par suo, insisteva perché si facesse visitare.

    No.

    Hai paura, papà?

    Macché.

    Non ci fu modo di convincerlo fino a quando la febbre alta annunciò un’infezione alla vescica. Da quella diagnosi, le visite si erano succedute frequenti, compresa l’esplorazione digito-ano-rettale alla quale si era sottoposto voltandosi perplesso sul lettino nella posizione che, aveva scoperto, è nota in medicina come decubitale laterale sinistra.

    Bisogna operare, era stato il verdetto dell’urologo.

    Qualche alternativa?

    No.

    Dovrò essere ricoverato?

    Certo. Non penserà si faccia un intervento a domicilio apposta per lei?

    Aveva scosso la testa, ma proprio quella era stata la sua segreta speranza. Se non a domicilio, almeno in ambulatorio: una faccenda da sbrigarsi in due o tre ore. La prospettiva del ricovero in ospedale lo angustiava.

    Mi metterete a dormire?

    Lo specialista, un giovane occhialuto, sicuro di sé, aveva sorriso con disdegno: L’intervento prevede l’anestesia spinale.

    Che cosa vuol dire?

    L’altro si era preso il tempo necessario a compilare con larghi svolazzi la richiesta di ricovero.

    Le faranno un’iniezione nella schiena. Per qualche ora non sentirà nulla dalla vita in giù.

    Gli era parso trattasse la faccenda con noncuranza, e aveva considerato suo malgrado l’ironia di un medico noncurante. Alle sue estreme resistenze la moglie aveva infine opposto un argomento invalicabile: Lo specialista è del Cancro.

    E allora?

    Sa quel che fa.

    Il degente doveva essere ormai in sala operatoria perché le infermiere, chiacchierando, ripassavano in corridoio. La biondina aveva per caso un accento francese?

    Ecco che avvertiva lo stimolo. Gli ci volle un poco per scoprire l’icona della toilette su una porta defilata, accanto a un locale misteriosamente definito Vuotatoio.

    Ebbe l’impressione di trovarsi nelle latrine di una stazione ferroviaria: una sfilata di cubicoli e di grandi lavabi squadrati. In Urologia si sarebbe aspettato di meglio. A prezzo dei soliti contorcimenti riuscì a depositare nel bicchiere un dito di liquido bruno, ma dovette poi appoggiarsi al muro perché le gambe non lo reggevano.

    Ha fatto? Bene.

    L’infermiera oziosa era comparsa come dal nulla. Perché non l’aveva notata? Doveva stare più attento.

    Mi scusi. Le porgeva il bicchiere come fosse un calice.

    Da questa parte: il letto è pronto.

    Lui tentennava.

    Che cosa c’è?

    La valigia.

    L’ho presa io, intervenne la moglie. Ma non c’è ragione per cui non possa portarla tu. Tendendogliela, aggiunse: Sei un paziente, sai? Non un invalido.

    Da questa parte, ripeté l’infermiera. Era ormai sulla soglia di quella che doveva essere la stanza a lui assegnata. Venga, lo incoraggiava.

    Nell’affacciarsi al locale, affondò il volto nel bavero ma scoprì subito, rallegrandosene, la luce di una grande finestra. Appena oltre il vetro opalino, o forse solo sporco, ravvisò un quadro di piani inclinati, composti da tegole rossastre e grondaie malconce. Uno spicchio di cielo, tra i tetti e gli edifici più lontani, gli confermò che sarebbe stata una giornata di sole.

    La stanza contava in tutto su quattro letti, fronteggianti due a due. Nel primo, il più vicino all’ingresso, un giovane armeggiava con un telefonino. Aveva un volto imberbe e aguzzo; il lungo naso puntava dritto allo schermo illuminato. Nel secondo, accanto alla finestra, si stiracchiava un uomo più anziano, dai lineamenti brutali. Le palpebre inferiori, inscurite e cadenti, sottolineavano uno sguardo sfacciato, quasi volgare. Portava i lunghi capelli grigi meticolosamente pettinati all’indietro. Accanto a lui, probabilmente in visita, sedeva una donna di mezza età, pallida, infagottata in un soprabito; sporche ciocche biondastre le scendevano sul collo. Gli altri due letti non erano occupati. Nel mezzo della stanza campeggiava poi un tavolo sgombro, identico a quello della sala da pranzo. Lui aveva l’impressione di essere un viaggiatore sceso alla stazione sbagliata.

    Borbottò: Buongiorno.

    Il giovane imberbe si limitò a un cenno; l’uomo invece inviò di rimando un buongiorno quasi soave e anche la donna, arrossendo, rispose al saluto.

    Passò la valigia da una mano all’altra. Non era stato riconosciuto.

    Dei letti vuoti uno doveva esserlo solo temporaneamente: lo dedusse dalle lenzuola sfatte e dalla corona di rosario sul comodino. L’ultimo, preparato di fresco, doveva dunque essere il suo. Vi posò la valigia.

    Così sporcherai le lenzuola, lo riprese la moglie.

    L’infermiera gli mostrava un armadietto: Qui può riporre vestiti ed effetti personali. Attento agli oggetti di valore: l’ospedale non ne risponde. Avrà bisogno di un paio di pantofole...

    Lui si avvilì. Abbiamo dimenticato le pantofole.

    Se ne dimenticano tutti, non si preoccupi. L’infermiera rivolse alla moglie un cenno complice. È un meccanismo psicologico di rifiuto.

    Nel suo caso, un intero macchinario, scherzò lei. Cercava però di tranquillizzarlo: Te le porterò più tardi, le pantofole.

    Lui si impuntò. Ne ho bisogno subito. Chiama Giulia.

    Stasera le avrai, te lo prometto. Intanto, usa le scarpe.

    Le scarpe con il pigiama?

    Dica a suo marito di non angustiarsi. L’infermiera confidava evidentemente negli uffici della moglie.

    Glielo dica lei stessa. Ecco la lista delle medicine.

    L’infermiera diede una rapida scorsa. Ha assunto il Tamsulosin, oggi?

    Sì, non più di un’ora fa.

    Entrambe lo fissavano come fosse un pollo sul banco.

    Che cosa aspetti? Se ne uscì la moglie. Incomincia a spogliarti.

    Deposto sul letto l’orologio da polso, sfilò con cautela cappotto e giacca.

    La moglie domandò se il medico fosse in reparto.

    Ha già fatto il giro del mattino.

    Ripasserà più tardi?

    Sì.

    A che ora?

    Siamo nelle mani del Signore.

    Lui aveva abbottonato la giacca del pigiama fino al collo.

    Tutto bene? Sorrise la moglie. Le lenzuola sembrano pulite.

    Pare anche a me.

    S’infilò a letto.

    Tra non molto avrai le pantofole.

    Ti ringrazio. Ma era nervoso e trasalì alla comparsa, non annunciata, di un portantino.

    Il nuovo arrivato spingeva una sedia a rotelle dalla quale un uomo anziano accennava con la destra a un gesto di benedizione.

    Siamo tornati.

    Il portantino sollevò l’anziano a braccia, senza apparente sforzo. Per un momento due calzerotti di lana ondeggiarono a un metro da terra. Una volta sul letto, l’anziano, che portava antiquati occhiali dalla montatura in oro, alzò le braccia con un gesto pronto, in modo che l’altro potesse rincalzargli le coperte.

    Ecco fatto. Tutto a posto?

    L’anziano fece cenno di sì e il portantino, agganciate svelto le sponde di contenzione al letto, se ne andò salutando: Buona giornata!

    Buona giornata, mormorarono di rimando il giovane imberbe e l’uomo dai capelli grigi. Anche la donna fu svelta a farfugliare il suo saluto.

    Occorreva unirsi con prontezza al rituale dei saluti, annotò lui. Avrebbe dovuto ricordarsene.

    Dov’è il mio libro? chiese.

    Le spalle della moglie, voltata a sistemare l’armadietto, congelarono nell’impermeabile.

    Anche quello! sbottò sconsolato. Credevo mancassero soltanto le pantofole.

    Lo porterò più tardi.

    Del libro ho assolutamente bisogno. Chiama Giulia.

    L’uomo dai capelli grigi si allungava dal letto a porgergli una rivista: Vuole leggere? Tenga. Niente di che, solo sciocchezze e pettegolezzi, ma aiutano a distrarsi. Qui le giornate sono lunghe.

    La donna al suo capezzale increspava le labbra in un sorriso incerto, come se quell’offerta avesse qualcosa di sconcio.

    Lui scosse il capo, intimidito.

    Non si disturbi, intervenne la moglie. Mio marito non legge mai periodici di quel genere.

    Nel tendere a vuoto la rivista, l’uomo incominciava a dare segni di imbarazzo.

    E neppure romanzi gialli, aggiunse lei. Devono essere letture pesanti, altrimenti non si diverte.

    Il giovane e l’uomo dai capelli grigi lo sogguardavano ora con fastidiosa benevolenza.

    E nostra figlia non è da meno, continuava la moglie. Pensate: ha aperto una libreria antiquaria. Non c’è scelta migliore per chi vuol fare la fame, ve l’assicuro. Nell’arte qualche soldo ancora c’è, nei libri antichi no. Ma chi riuscirebbe a farle cambiare idea? È un Leone...

    Lui buttò le gambe fuori dal letto.

    Smettila.

    Come dici?

    Non dare confidenza, sussurrò. Facciamo piuttosto una lista di quel che manca.

    Solo il libro e le pantofole, nient’altro.

    Nient’altro! Come faccio senza libro?

    Leggi il giornale.

    Lo sai che cosa penso dei giornali. Ci sarà un telefono?

    Vicino al distributore di acqua.

    Occorreranno i gettoni.

    I gettoni! Ora funzionano con la scheda. Ne ho comprata una all’edicola.

    Come si usa?

    Ci sono le istruzioni. Leggi quelle se non ti piace il giornale.

    Lui finì per irritarsi. È tutto uno scherzo per te, non è vero? Tanto ora te ne andrai.

    Non fare tragedie. Sarai qui per pochi giorni.

    Il telefonino le squillava nella borsa. Era l’unica in famiglia a possederne uno.

    Pronto? Siamo in reparto. No, il dottore ancora non si è visto. Ma sì, tutto bene.

    È Giulia? si intromise lui. Che novità?

    Non viene. C’è traffico, e non farebbe in tempo a tornare al lavoro. Sarà qui domani, in mattinata.

    Quanto traffico potrà mai esserci?

    Verrà domani, ha detto.

    Anche domani ci sarà traffico.

    La moglie riprese la borsa: stava per andarsene. Aveva fretta di tornare ai suoi cataloghi, alle riproduzioni, alle riviste d’arte. La gente con il naso nella posizione convenzionale non le interessava più.

    Se viene il medico, stai bene attento a quel che dice, si raccomandò. Cerca di capire quando sarà l’intervento.

    Dal primo giorno lo chiamava intervento, e non operazione,

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