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L'unico giorno del mondo: Una storia semplice da raccontare
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E-book291 pagine3 ore

L'unico giorno del mondo: Una storia semplice da raccontare

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Info su questo ebook

C’è un unico giorno, nel mondo di Erica. Domani e altrove sono parole che per lei non esistono, costretta com’è a vivere sempre le stesse ventiquattro ore, sempre nello stesso caffè di Trieste. Matteo proverà a salvarla, a regalare a quelle due parole un significato e a Erica un altro futuro. Ma, per riuscirci, dovrà prima compiere un’impresa altrettanto difficile: diventare un uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2016
ISBN9788893780001
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    Anteprima del libro

    L'unico giorno del mondo - Diego Zilio

    L’unico giorno

    del mondo

    Una storia semplice da raccontare

    di Diego Zilio

    Panda Edizioni

    ISBN 9788893780001

    © 2016 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    info@pandaedizioni.it

    Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell’editore.

    I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica dell’Autore.

    Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.

    Immagine di Ernest Borgnine: Wikimedia Commons, licenza Creative Commons.

    E sono rimasta lì a chiedermi se i ricordi sono qualcosa che hai o sono qualcosa che hai perduto

    Another Woman, Woody Allen

    1. ERICA

    Non rimane niente. Di niente. E anche adesso, mentre sto scrivendo questa frase, ogni cosa continua a cancellarsi. Scrivo rimane e sparisce Non. Scrivo Di e sparisce il punto che lo precedeva. Scrivo niente ed è l’unica parola che mi resta impressa. Che resiste. Niente. Ma mentre scrivo niente scompare la causa che sta dietro a quella parola. A volte ho l’impressione di scrivere sulla sabbia della battigia. Poi arriva il mare e si porta via tutto, lavando ogni traccia. Ma la cosa più strana è che rimanga una parola come battigia. In tutto questo non c’è logica. E mentre scrivo tutto ecco che si cancella In e mentre scrivo questo sparisce tutto e mentre traccio non va via questo e quando tocca a c’è scompare non e poi finalmente si arriva a logica. E la logica non c’è mai.

    Questa è la storia di una bambina piccina picciò che amava salire in sella alla sua biciclettina piccina picciò e correre per le strade della sua città che sta sui monti e sta sul mare.

    Questa bambina non ha la mamma, che è morta mettendola al mondo. La mamma di questa bambina aveva trentaquattro anni, ed è morta per un’emorragia dopo il parto. Dico morta e non deceduta, o scomparsa, perché trovo tremendo questo finto pudore, questa paura delle parole che spinge molti a cancellare certi termini. E io so bene qual è il peso delle parole.

    I medici si sono dimenticati di suturarle una vena, anche se il ginecologo aveva assicurato il marito, di nome Antonio, che invece stava andando tutto bene. Non era così: quando Antonio è arrivato in clinica gli è stato detto che sua moglie era stata trasferita in un altro reparto per una trasfusione. Poco dopo i chirurghi gli hanno annunciato che era morta. La mamma si chiamava Erica Maggio, un cognome che fa pensare alla primavera e alle cose che nascono. Un cognome che fa pensare a tutto meno che alla morte.

    Antonio, circondato dai familiari e dagli amici più intimi, ha cambiato nome alla figlioletta appena nata, che doveva chiamarsi Lucia. Antonio ha avuto modo di spiegare agli amici che il suo nuovo nome sarebbe stato Erica, come si chiamava la mamma, e che quello era il modo per farla continuare a vivere e portarla sempre con sé, nell’anima. Erica abitava con la famiglia a Muggia, poco lontano da Trieste, e lavorava in una fabbrica di contenitori per uova.

    Antonio è stato convocato dal magistrato e ha presentato denuncia ai carabinieri. Mentre parlava agli ufficiali, le lacrime cadevano dai suoi occhi come da un palloncino bucherellato pieno d’acqua. Gli investigatori hanno sequestrato le cartelle cliniche. Il pubblico ministero ha indagato sul comportamento tenuto dai medici e dagli assistenti dell’équipe chirurgica che aveva operato la donna due volte, per il parto cesareo e per l’isterectomia, l’asportazione dell’utero. Per tutti l’accusa era di omicidio colposo. I medici sono stati interrogati per ricostruire quanto era accaduto nella casa di cura. Sulla morte di Erica Maggio ha disposto accertamenti anche il Ministero della salute, che ha inviato i suoi ispettori per verificare l’appropriatezza delle procedure effettuate e la corretta gestione dell’emergenza, come si legge nella lettera inviata dallo stesso Ministero al signor Antonio. Ha indagato anche la Commissione Parlamentare sugli errori sanitari, che ha chiesto una relazione all’Assessore regionale alla salute su quanto avvenuto. Il Presidente della Regione ha dal canto suo sottolineato che è inaccettabile che in Italia si muoia di parto, mentre il direttore sanitario dell’ospedale ha precisato che: «è da escludersi alcuna responsabilità della struttura da me diretta: quella mattina è stato effettuato un intervento chirurgico in sala operatoria per un taglio cesareo su una paziente che ha presentato subito gravi complicanze imprevedibili. Nonostante siano state messe in atto tutte le procedure del caso, e vista l’impossibilità di rintracciare un posto in rianimazione tramite il Centro di Coordinamento del 118, la paziente è stata seguita dal nostro anestesista rianimatore.»

    Per lei non c’è però stato nulla da fare. L’emorragia è stata fatale.

    Le inchieste dei magistrati e della Commissione Parlamentare hanno seguito il loro corso, andando avanti per diverse settimane. Alla fine hanno dato ascolto alla versione del direttore sanitario dell’ospedale. Nessuno ha pagato per la morte della signora Erica Maggio. Eccetto il marito, Antonio Guidi. Eccetto sua figlia, cresciuta senza una madre.

    Quella madre era mia madre. Erica sono io.

    2. MATTEO

    Guardò giù. Poi rialzò la testa. Poi tornò a guardare in basso, le mani a percorrere la superficie liscia e fredda della ringhiera. Non si sarebbe buttato nemmeno quella volta. Non in quel momento. Non da lì, se non altro. Perché non aveva senso farlo in quell’angolo di mondo. Non in quella città unica e malinconica.

    Trieste non l’aveva mai afferrata appieno. Quel suo essere affacciata sul mare e abbarbicata ai monti. Quel suo lottare con tutte le forze per ritagliarsi uno spazio, nella geografia del mondo e contro una terra ostile a ogni raccolto. Quel suo essere stata crocevia e ultimo avamposto prima del socialismo. C’era tutto questo dentro a Trieste. E tutto questo lo disturbava, anche se ci veniva con regolarità, almeno una volta all’anno per due o tre settimane, a trascorrerci le vacanze estive a casa dello zio Nicola. C’era venuto anche adesso, dopo aver finito il liceo, e sapeva che non avrebbe continuato a frequentarla ancora a lungo, perché certe cose si possono fare nell’adolescenza, ma non si può pretendere di recitare la parte del gradito ospite all’infinito.

    C’era qualcosa di inafferrabile in quella città. Qualcosa di ambiguo. Qualcosa che lo portava a estraniarsi da se stesso e spesso lo spingeva a perdersi con gli occhi sulla tavola piatta di quella curva d’Adriatico e con la testa a girovagare chissà dove.

    Il contatto freddo con la ringhiera lo riportò alla realtà. Si voltò di colpo. Nel terrazzo del caffè c’erano ancora tre tavolini occupati. Uno da una famigliola che si stava preparando per rientrare a casa, uno da una coppia di fidanzati in età da università e uno da una ragazza sola, intenta a sorseggiare pigramente un intruglio dal colore indefinibile da un bicchiere stretto e cilindrico. Poteva avere un anno o due meno di lui, forse. Era molto carina, con un ciuffo di capelli castani che le cadeva sulla fronte tagliandogliela in due di sbieco e un sorriso appena accennato che sembrava un tratto somatico, più che una semplice espressione.

    Che ora si era fatta? Era tardi, forse erano già le undici, e aveva detto allo zio che sarebbe rientrato prima che lui andasse a dormire. Già l’idea di fermarsi a ordinare una birra – non lo faceva quasi mai quando era da solo, ma l’afa quella sera era proprio insopportabile e aveva corso tanto, in sella alla sua bicicletta – gli era sembrata una piccola pazzia. Doveva rientrare. Così, con lo sguardo ancora posato sull’orologio, si voltò di tre quarti in direzione dell’uscita, deciso e tornare a casa in fretta. Talmente deciso che, nel muoversi, capitolò miseramente dallo scalino che gli stava davanti. Un mezzo tonfo, quasi un disastro. Per poco non ruzzolò a terra, lesto ad avanzare il piede sinistro con la dimestichezza del provetto ballerino, almeno quanto era stato goffo nel movimento precedente dell’altro piede. Il borsello che portava a tracolla per poco non finì per strozzarlo. Gli occhiali gli volarono per terra a un paio di metri e solo per caso riuscì a ricostruire il loro tragitto e a recuperarli subito, altrimenti, miope com’era, sarebbe piombato nel panico. Il sudore gli imperlava la fronte. Fortuna che c’era poca gente a vederlo.

    «Attento o finirai per farti male.»

    Era stata lei a parlare. Ciuffo sbilenco. Era lì davanti. Aveva visto tutto. Non avrebbe potuto ignorarlo.

    «No, è un’uscita studiata. Faccio così per tenermi in allenamento,» le aveva risposto lui.

    Ciuffo sbilenco gli sorrideva ancora, e in modo persino più marcato. Se quella di prima poteva essere interpretata come una dolce smorfia dipinta da madre natura, questa invece era un sorriso vero e proprio.

    «È un po’ rischioso, uscir di scena sempre così.»

    «Oh, ma non faccio sempre così. A volte esco con un carpiato, a volte con un doppio salto mortale e a volte capita pure che mi smaterializzi in una nube d’incenso,» riprese lui, più pronto che poteva, cancellando in un colpo solo tutta la vaga malinconia che si era impossessata di lui e sbattendosi le mani sul torace come a volersi togliere la polvere di dosso. Lei continuava a ridere ma da un’ilarità silenziosa e discreta era passata a una risata leggermente più rumorosa, sottolineata da qualche colpo di glottide, mentre la maglietta viola che indossava con tanta grazia sembrava ridere assieme a lei, danzando felice all’altezza del seno.

    «Ecco, allora prima che tu scompaia del tutto è meglio che ci presentiamo. Sono Erica.»

    Erica, come una pianta rampicante. No, quella è l’edera, cretino. Erica, erica, erica, quella è una sempreverde. Comunque di piante si tratta. Forse le uniche piante che potevano attecchire pure a Trieste. O forse no, a Trieste non potevano vivere. E allora diventavano splendide fanciulle con i capelli sghembi e l’aria apparentemente candida.

    «Matteo, ciao,» e si era messo a sedere al suo tavolino.

    L’aveva chiesto proprio a lui. Lei, così dolce e sicura di sé. A lui, uno di quelli che, nella sua scuola, classificavano come il classico sfigato. Ma la scuola era terminata e ora lo attendeva l’università. Nel frattempo era lì, in un caffè di Trieste, a parlare con una sconosciuta che lo aveva invitato a sedersi al tavolo. Mentre la radio rimandava soffusa una vecchia canzone di Paolo Conte.

    Ecco qui una musica che forse era per noi, a me sembra molto splendida, tu puoi farne quel che vuoi…

    «Mi spiace di essermi persa quando sei arrivato. Chissà che entrata trionfale è stata,» continuò lei, sempre con lo stesso tono affabile.

    «Le entrate le sanno far tutti. L’importante è andarsene con classe. Ruzzoloni, cadute rovinose, incidenti quasi mortali: quelle sono cose che lasciano il segno negli spettatori. Rischia di morire e sicuramente il pubblico tornerà a seguirti, in attesa di vederti sbagliare numero.»

    Lei non smetteva di ridere, piacevolmente stupita da quell’incontro. Era lì, assieme a lui, ai suoi occhiali strisciati e alla sua fronte sudata. No, non sapeva nulla di lui. Mica potevano averle detto che non baciava una ragazza da due anni e mezzo. E che l’ultima volta che era capitato, con Carola, be’, era capitato perché lei era sbronza. Una sedicenne vogliosa e ubriaca. Mica sapeva che quella volta aveva passato tutto un pomeriggio a provare a slacciarle il reggiseno, nel corso di una festa di compleanno degenerata presto in un allegro carnaio, con le varie coppiette perse nelle stanze della casa. Mica sapeva che Carola, alla fine, era sbottata: «Senti, se vuoi vedermi le tette basta che me lo chiedi. Non sono una così difficile, io.» E lui, tutto impaurito da tanto spudorato vigore, non aveva potuto far altro che andarsene tutto rosso in volto. Senza neanche la soddisfazione di averle toccato quelle benedette tette. Chissà quanti altri avevano portato a termine l’impresa nel frattempo.

    «E quindi adesso cosa fai? Ti ho rovinato l’uscita?» chiese Erica.

    «Effettivamente sì. Credo che dovrò lasciar passare qualche minuto prima di poterla ripetere. Mi toccherà star qui un altro po’,» rispose lui. Sempre più pronto. Sempre più padrone del palcoscenico. Sembrava dovesse cadere e invece era spiccato in volo. Altro che inciampo! Era stato abilissimo nel riprendersi e nel trasformare una situazione di svantaggio in un’occasione favorevole. Non era uno dei capisaldi della cultura del bravo samurai, il saper far fronte a ogni momento nel migliore dei modi, sfruttando anche le proprie debolezze? E allora bravo guerriero!, continua così. Ormai rispondeva alle domande di Erica con la disinvoltura dell’attore consumato. Un mattatore. Forse sembrava persino più alto del suo metro e sessantatré. E forse, forse persino i suoi occhiali non sembravano così spessi com’erano in realtà. Non erano esattamente due fondi di bottiglia, ma quelle montature leggere finivano per mettere in risalto la profondità della lente. Forse Erica stava pensando che i suoi erano occhiali finti, indossati per assumere un contegno. Forse stava fantasticando attorno al contenuto del borsello beige che Matteo portava a tracolla e che ora aveva appoggiato sulla sedia al suo fianco: poteva immaginare che al posto delle chiavi di casa ci fossero chissà quali documenti segreti, chissà quali invenzioni. Ingredienti per il prossimo numero di magia. Quello più spettacolare della serata.

    «Allora mi spiace, al massimo per farmi perdonare posso offrirti qualcosa da bere,» propose Erica chinandosi verso la sua borsa come per estrarre il portafogli.

    «Casomai sono io che ti offro qualcosa. Magari un altro miscuglio come quello che stai bevendo.»

    «Oh questo? Si chiama Angelo Azzurro. È un esperimento con il blu curaçao, ma non mi è riuscito tanto bene. Dovrò dirlo a papà.»

    «A papà?»

    «Sì. Il locale è suo. Lo è tecnicamente. Nel senso che è il gestore, anche se lui non sta qui quasi mai.»

    «Ecco perché eri seduta da sola prima che arrivassi io. Sovrintendi. Nessuno vuole stare assieme al guardiano del posto. C’è sempre il timore di essere presi per le orecchie al minimo sgarro.»

    «E tu?»

    Era proprio interessata a lui. Forse non sapeva più come far trascorrere il tempo. Forse aveva solo lo svogliato desiderio di rimandare il momento in cui sarebbe scivolata fra le lenzuola in quella serata troppo afosa per fare qualsiasi cosa. Forse lui era soltanto un diversivo. Un accidente come un altro. Ma che importava? Era lì. Stava conversando amabilmente con una sconosciuta. Doveva stupirla.

    «Cosa faccio io? Io sono qui, invento uscite mirabolanti, guardo il mare e penso al suicidio.»

    Ecco, gliel’aveva detto. Doveva sparigliare le carte. Dalla sua reazione a quella frase avrebbe capito qualcosa di più di lei.

    «Mi sembra un buon proposito. Però poi ci sono tutte quelle scocciature burocratiche, sai com’è, no? C’è la perizia del medico legale, c’è la polizia che fruga dappertutto, spuntano i curiosi, i giornalisti. Insomma, volevo chiederti se puoi suicidarti da un’altra parte, non so se ti scoccia. Sai, per il locale non sarebbe una gran pubblicità,» gli rispose Erica.

    Lui nel frattempo aveva spostato la sedia da sotto al tavolino rotondo e si era seduto più vicino al suo fianco. La guardava meravigliato. Non aveva mai pensato sul serio al suicidio ma, se ci avesse pensato, di colpo avrebbe cambiato idea. Solo parlando con lei. Era

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