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La provincia
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E-book115 pagine1 ora

La provincia

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Info su questo ebook

Antonio Di Bella è un aspirante giornalista di provincia che sta facendo i conti con la disillusione. Gli spezzoni di vita descritti rappresentano la tipica vita di provincia, grigia e abitudinaria. Anche il rapporto con i genitori, amorevoli ma severi, presenti ma gretti, si inserisce nello schema della vita di provincia. La storia viene raccontata dal punto di vista di Antonio, che segue con un misto di angoscia e allarme l’organizzazione di una serata in discoteca che lo vedrà, suo malgrado, protagonista…
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2020
ISBN9788833466163
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    Anteprima del libro

    La provincia - Marco Cutillo

    Riconciliazione

    Esergo

    «Sono stufo di andare a ballare

    Nel solito posto di merda

    Le solite facce distrutte

    I soliti discorsi senza impegno»

    Nero – Gazzelle

    «Che schifo avere vent’anni

    Però quant’è bello avere paura»

    Mancarsi – Coma_Cose

    Cap. 1 - Conoscenza

    «Che facciamo sabato?»

    «Andiamo a ballare?» disse uno.

    «Domenica mi devo alzare presto» rispose un altro.

    «Che hai da fare?»

    «Mi devo alzare presto?»

    «Si deve fare una sega di prima mattina» intervenne un terzo.

    «Ma che ne sapete voi che non fate niente.»

    «Ma perché, tu che fai?» dissero insieme.

    «Un cazzo.»

    «E allora vedi…»

    «Domenica però sono impegnato.»

    «Allora ci prendiamo qualcosa in un locale.»

    «Per me si può fare.»

    «E se invece ci organizzassimo e facessimo un weekend fuori?»

    «Ua, perché no. Ce ne andiamo a Roma. Arriviamo sabato pomeriggio e torniamo domenica mattina.»

    «E i soldi?»

    «Hai ragione.»

    «Antò, ma alla fine ti hanno risposto?»

    «Non cercano personale» disse Antonio.

    «Ja ma che devi fa domenica?» disse Gaia.

    «Vado ad una conferenza sul clima e scrivo un articolo.»

    «E almeno ti pagano?» – chiese Nello.

    Antonio chinò il capo e si tenne la testa con il pugno sinistro.

    «Si è fatto tardi, me ne vado. Ciao.»

    «Cià fess. Oh vediamo di organizzare sabato, non appendere.»

    «Va bene.»

    Eccomi qua. Mi chiamo Antonio Di Bella. Ho ventitré anni e studio Lettere.

    Da bambino ero un calciatore. Io non giocavo a calcio come tutti gli altri, no, io ero proprio un calciatore. Ero stato selezionato dalla squadra più forte della provincia. E il sabato mattina saltavo la scuola per l’allenamento di rifinitura. Poi mi sono rotto il piede, il destro, quello con cui calciavo, e ho smesso di essere un calciatore.

    Mi sono iscritto all’università e sono diventato un pendolare. Lettere. Quando l’ho detto a mio padre gli stava per venire un colpo. Lettere? Mi ha detto. Ma perché non fai qualcosa di più concreto, qualcosa che ti permetta di guadagnare bene. Io l’ho insultato. Di arte, di vocazione, non capiva niente. Lui ha risposto che ero io a non capire niente. Che nella vita ciò che è importante è la dignità. E i soldi sono dignitosi. Pensai che fosse un meschino. Ma a diciannove anni cosa volete che ne sapessi di come gira il mondo? Ce lo dovrebbero dire prima, prima di insegnarci a credere nei sogni, che siamo schiavi. Schiavi del lavoro e del guadagno. Ma non è questo il punto.

    Ero deciso a dimostrare a tutti che si sbagliavano. Ho iniziato a scrivere per giornali, riviste, siti web, ho creato un blog, aggiornato la mia pagina Facebook di continuo, storie Instagram, poesie, racconti. Un grafomane. Quando la prima volta mi hanno detto che non avrei percepito compenso tutto sommato mi andava bene. Ero inesperto. Ci sta, pensai.

    Ora ho ventitré anni e sono tre anni che non percepisco compenso. Per questo adesso la mia principale attività di scrittura sono i curricula. Li compilo diversamente a seconda del profilo richiesto e li abbellisco qui e là di esperienze che non ho mai fatto. Non ho paura che scoprano le mie menzogne. Con un pizzico di intelligenza posso coprire le lacune professionali. Ma fino ad ora non ce n’è mai stato bisogno. Non mi ha ancora chiamato nessuno.

    Così passo le giornate al bar con i miei amici. Principalmente con Gaia e Nello, che sono più o meno nella stessa situazione. A differenza loro, io a luglio del prossimo anno mi laureo. E almeno avrò accesso ai concorsi per l’insegnamento. Inutile dire che la prospettiva di sedersi in cattedra, davanti ad un branco di mocciosi che si esprime inviando faccine, mi fa venire i brividi. Allontano quest’idea più che posso e mi consolo pensando ad altro. Quando mi accorgo che non c’è altro a cui pensare, non mi consolo più e la notte resto sveglio.

    «Ma’ sono a casa.»

    «Dov’eri?»

    «Al bar.»

    «E quando mai.»

    «Che significa quando mai?»

    «Che stai sempre al bar. Trovati qualcosa di meglio da fare»

    «Ci sto provando.»

    «Non ci provi abbastanza.»

    «E cosa dovrei fare, andare nei negozi gridando EEEEEEEEEEEEEEEEE SONO ANTONIO DI BELLA ASSUMETEMI GUARDATE QUANTO SONO FIGO». Ma questo l’ho pensato.

    «Hai ragione» ho risposto.

    «Stasera mangi a casa?»

    «E dove devo mangiare?»

    «Che ne so io, stai sempre in giro a perdere tempo. E non rispondere male a tua madre.»

    «Hai ragione.»

    Mi pesano gli occhi, ma non è stanchezza. Il lieve fastidio che mi indolenzisce la cervice e il pulsare incessante delle tempie non lascia spazio ad altre interpretazioni. Se ci aggiungiamo la fatica che faccio la mattina a mettere i piedi fuori dal letto, il quadro è bell’e fatto. Sono depresso. Non gravemente depresso. Però depresso. Ho fatto delle ricerche e questa è la conclusione più sensata. Inoltre mi masturbo dalle due alle tre volte al giorno. Da quando non ho più una ragazza, anche quattro. Ma è raro. Per un po’ ho creduto di vivere una prolungata crisi ormonale. Poi ho capito che il mio organismo ha un urgente bisogno di endorfine. E io gliele do. Da quando non ho più una fidanzata, la mano destra è diventata la mia migliore amica. Se si dovesse rompere, come il piede, potrei pensare al suicidio. La mano destra mi tiene aggrappato alla vita.

    «Allora domenica vai?»

    «Si sì, ho dato già l’ok.»

    «Perfetto. Volevo solo assicurarmene perché domenica è importante. Il clima è un tema caldo, l’articolo potrebbe essere condiviso molte volte e questo andrebbe bene sia a te che a noi. Ah, scusa il gioco di parole infelice.»

    «Tranquillo, capita.»

    Puoi ripetere?»

    «Ho detto: da quant’è che non scrivi?»

    «È una decina di giorni che non pubblico niente.»

    «Come?»

    «È UNA DECINA DI GIORNI CHE NON PUBBLICO NIENTE.»

    «Aspetta. Antonio, risentiamoci domani, sto entrando in galleria, non sento più niente.» «Allora a dom…tutututututu.»

    È caduta la linea. Meglio così. Bip bop.

    «Nello?»

    «Oh.»

    «Ma dopo cena usciamo?»

    «Non lo so, ti faccio sapere dopo.»

    Dopo quando cazzo se dopo è dopo cena? Mi fai sapere quando dovremmo essere già usciti? È così difficile organizzarsi in anticipo? Mangi tutte le sere alla stessa ora. Tuo padre torna a casa alle otto perché è a quell’ora che stacca da lavoro. Quando torna, ha fame. Quindi tua madre tra le otto e quindici, volendo esagerare, e le otto e trenta ti fa trovare il piatto caldo in tavola. Alla sera non mangi il primo. Quindi il cibo da consumare è poco. Tenendo conto anche della frutta e di un eventuale caffè, potresti metterci un’ora. Ed è pure tanto. Questo lo fai tutte le sere per trecentosessantacinque giorni all’anno. Ma quando ti chiamo per sapere se dopo cena ti va di scendere, mi rispondi sempre che non lo sai. Come cazzo fai a non saperlo, mi chiedo io? Possibile che i tuoi neuroni non riescano a prevedere da qui a due ore cosa succederà? Sarebbe più opportuno che mi dicessi sì, scendiamo, e magari chiamassi per avvisare che hai avuto un contrattempo e che quindi non ci sarai. Perché il contrattempo è l’eventualità inaspettata. Non la nostra uscita. Perché la nostra uscita si rinnova costante come un fenomeno atmosferico. D’estate fa caldo, d’inverno freddo e noi la sera usciamo. Però dobbiamo girarci intorno. Io non avrò la certezza di uscire fino a cinque minuti prima di uscire. Tu mi mandi un messaggio, io sono stravaccato sul divano e leggo tra cinque minuti giù da te". CAZZO, DIMMELO PRIMA. Io potrei essere previdente e preparami lo stesso anche se tu non lo sai se usciamo, perché alla fine usciamo. Sempre. Ma se tu mi dici che non lo sai, io non lo so davvero se usciamo. Anche se il novantanove virgola nove per centro delle volte va così, io non ne ho la certezza. D’estate fa caldo, d’inverno fa freddo, ma a volte fa freddo anche d’estate. Poche volte, magari un giorno solo in tre mesi, il vento gela un giorno d’agosto.

    Allora rimane tutto uguale. I tuoi non lo so e il cuscino del divano che ha preso la forma del mio culo."

    «Va bene. Ma chi ci starebbe?» - dissi.

    «Soliti.»

    «Ok.»

    A tavola il clima è sereno. Strano. I miei genitori hanno difficoltà a lasciarmi in pace. Io li vedo, con quello sguardo che esprime preoccupazione e pena. E mi sento una merda. Forse avrebbero sperato in un futuro migliore per il loro unico figlio. Un avvenire radioso fatto di successi infilati uno dietro l’altro. Non è andata così. Ma non è detto che non possa ancora andare così. Certo, se mio figlio a ventitré anni mi chiedesse ancora di sbucciargli i mandarini, avrei anche io i miei dubbi sul suo futuro. Per adesso mi godo il trattamento principesco e lascio stare.

    Mio padre sbuccia i mandarini con aria stanca. Quando torna a casa pensa sempre al lavoro. Quando è al lavoro pensa sempre al lavoro. A furia di pensare al lavoro la fronte gli si

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