Tutto ebbe inizio nel 1963
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Weird - romanzo breve (79 pagine) - Il tempo è come un treno che passa a folle velocità lasciando dietro si sé un forte vortice che, se non fai attenzione, ti può trascinare via...
Un ingegnere meccanico di "quasi" cinquant’anni si trova improvvisamente sbalzato nel suo passato: prima nel 1963, poi nel 1972 e infine nel 1989. Tra uno sbalzo e l'altro la sua mente viene avvolta da un vortice di nebbia. Questa strana esperienza è dovuta a un suo progetto che lo porta a scoprire una verità piuttosto disarmante.
Donato Altomare nasce a Molfetta nel 1951 e vi risiede. Laureato in Ingegneria Civile esercita la libera professione. Sposato, ha tre figli. Narratore, saggista, poeta, ha vinto due volte il Premio Urania di Mondadori e cinque volte il Premio Italia, e una volta il Premio della critica Ernesto Vegetti, oltre a molti altri premi per la narrativa e la poesia. Autore essenzialmente del fantastico. Numerosissime le sue antologie, i suoi romanzi e i suoi racconti editi in Italia e all’estero. Sono state tenute tesi di laurea su di lui. È l’attuale Presidente della World Science Fiction Italia, l’associazione degli operatori della fantascienza e del fantastico.
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Anteprima del libro
Tutto ebbe inizio nel 1963 - Donato Altomare
I
– Roberto… svegliati… devi andare a scuola.
Borbotto qualcosa e mi girò dall’altra parte.
Ormai sono stufo di quel sogno.
Ha cominciato a ossessionarmi subito dopo la laurea e ancora oggi, dopo quasi cinque lustri dal fatidico titolo di dottore, sogno di dover sostenere un esame del piano di studi di ingegneria, ma di non essere preparato, anzi, di non saperne proprio nulla. L’angoscia è tremenda, specie se si considera che, sempre nel sogno, sono già laureato, per cui mi chiedo: ma se sono laureato, perché devo ancora sostenere degli esami? E perché non mi sono preparato, non ero uno sgobbone, ma era impensabile che andassi a tentare un esame senza una solida preparazione.
Il sogno continua a perseguitarmi sino a oggi, alla soglia dei cinquant’anni. E più vado avanti nel tempo, più esercito la mia libera professione di ingegnere, più l’angoscia è opprimente, più mi chiedo che senso ha sostenere esami d’ingegneria.
Ma a un sogno non si comanda.
E, come detto, ormai mi sono abituato.
Per questo, quando sento ancora la voce di mia madre, un po’ più decisa, che mi ordina di alzarmi immediatamente o mi avrebbe scaraventato giù dal letto, mi vedo quasi costretto ad aprire gli occhi.
E poi, cosa c’entra mia madre?
Cosa ci fa a casa mia? E perché mia moglie non protesta?
Ovvio, il sogno è mio e sento la sua voce soltanto io.
Maledettissimo sogno!
Mia madre purtroppo è morta appena lo scorso anno. Dentro di me non se n’era mai andata.
Con gli occhi spalancati vedo mia madre che mi sovrastava guardarmi accigliata.
– Cosa ti prende oggi? La sveglia ha suonato da un po’.
– Io voglio continuare a dormire.– Dice una voce che è la mia ma che non riconosco come mia.
– Non ti senti bene? – Preoccupata.
In effetti quel sogno pare assurdamente vero. La mia stanza nella casa paterna sembra vera, il mio letto da ragazzino sembra vero, e mia madre sembra… viva.
– No… mi sento bene – continuo con voce impastata, del resto non interrompo mai i miei sogni, a meno che non si trasformino in incubi. – È che voglio ancora dormire.
– Sono già le sette e mezzo, Farai tardi a scuola.
– Sono un libero professionista – continuo imperterrito a protestare – non ho alcun cantiere da controllare oggi e l’ufficio lo apre la segretaria alle nove. Non succede nulla se arrivo dopo. Ho un appuntamento, ma alle undici. Eppoi con questa ‘scuola’. Ti sei scordata che sono laureato? E da un bel po’ di tempo.
Vedo mia madre sbirciarmi in maniera strana: – Devi aver di nuovo letto quelle stupide storie strane. Laureato? Ne devi mangiare ancora di pane duro, figlio mio. – Poi, senza alcuna esitazione getta via le coperte e con dolcezza e decisione mi tira fuori dal letto costringendomi a poggiare i piedi per terra.
– Insomma…– protesto sorpreso dal fatto che il mio sogno sia tanto realista. Poi sento il freddo del pavimento sotto i piedi. Istintivamente cerco le ciabatte. E mi girò per rassicurare mia moglie che si starà agitando nel letto. Spero di non svegliarla, altrimenti mi avrebbe messo il broncio e preso in giro a lungo. È una bella donna e la desidero. Soltanto su una cosa non andiamo d’accordo, odia fare all’amore di mattina presto.
Lei però non c’è. Non può esserci. Il letto è a una sola piazza ed è appena sufficiente per me.
– È un incubo? Dimmi che questo è un incubo.
Mia madre scuote il capo. Mi porta la mano alla fronte e stringe le labbra perplessa: – Non capisco cosa ti prende stamattina. Eppure ieri sera sei andato a letto come al solito, dopo Carosello. Non hai dormito bene? Hai fatto un brutto sogno? Forse quello che hai mangiato ti ha fatto male…– Dicendo questo mi trascina in cucina facendomi sedere davanti a una fumante tazza di latte bollente.
Rimango imbambolato. Quella è la cucina della casa della mia infanzia. Si affaccia sul meraviglioso giardino d’alberi da frutta di mia nonna paterna. In quella casa ci siamo rimasti sino a quando ho compiuto diciott’anni, poi la famiglia si è trasferita in un’altra abitazione più grande, non molto lontana. Con il cuore che comincia a pulsare più velocemente vedo mio fratello Rino, più piccolo di me di poco meno di due anni, alle prese con il latte e biscotti. Non fa caso a noi e continua a mangiare quasi fosse digiuno da una settimana. Enrico, l’ultimo nato, è, come sempre, seduto di fronte. Ha il cucchiaio stretto nella destra e mi guarda con un sorriso luminoso.
– È bello rivedervi così…– Mormoro mentre il profumo del latte caldo si insinua nelle narici e mi apre lo stomaco. Sono decenni che non ne bevo più, ma mi viene voglia di immergere il cucchiaio in quella superficie con un velo di panna e berne avidamente.
– Su, mangia. – La voce di mia madre è stanca. Penso alle sue battaglie giornaliere con i tre figli. Ha dovuto lasciare l’insegnamento per aver cura di noi. In cuor suo non gliel’ha mai perdonata a mio padre, ma per i suoi figli ha fatto bene. L’osservo con attenzione. È… è bellissima, come la ricordo. Un viso ovale molto delicato, capelli neri ricci, appena appena sulle spalle e occhi verdi. Capisco perché mio padre si sia innamorato di lei. – Che hai da fissarmi? Guarda che non mi vedi da appena ieri sera. – Sorride.
– Ieri? Ma se è un anno che… – Mi blocco. È tutto folle. È un anno che è morta.
– Cosa ti prende oggi? Se non ti va di andare a scuola è bene che ti faccia tornare la voglia, capito? Metti i biscotti nel latte e mangia in fretta.
– Biscotti? Quali biscotti?
– Quelli che mangi ogni mattina.
– Quarant’anni fa, non certo oggi.
– Quaran… che cosa stai dicendo? Vuoi farmi arrabbiare? – Pulisce il muso a Rino che si è tutto impiastricciato e cerca di far mangiare Enrico.
A quel punto sbotto: – Bene, il sogno è durato a lungo, forse è meglio che mi svegli. – E mi alzo dalla tavola senza sapere poi cosa fare.
Uno schiaffo mi irrigidisce.
Odio gli schiaffi.
– Mamma! – Esclamo offeso più che indolenzito. Torno a guardarla. Ha i capelli spettinati e neanche l’ombra del trucco. La sua pelle è liscia e candida e i suoi occhi hanno una luce… dentro. Da molto non la vedevo così. L’ultima volta, la sera prima che morisse, i suoi occhi si erano spenti. Prima di lei. Ora mi sembra… stanca. Già di prima mattina! Certo si è svegliata alle sei e trenta con mio padre.
Maledizione! Sto farneticando?
Lei non bada più a me. Enrico sta urlando perché vuole i biscotti.
– Vatti a vestire. Immediatamente o quando torna babbo sono dolori.
È l’unica minaccia che mi ha sempre fatto rizzare i capelli.
Oggi, a distanza di tantissimi anni, mi viene da sorridere. Non rammento di aver mai ricevuto un solo schiaffo da mio padre, eppure quel genere di minaccia sortiva sempre l’effetto voluto.
Rino intanto ha spazzolato tutta la colazione e sta guardando la mia speranzoso. Mamma gli ordina di andarsi a lavare e di prepararsi per uscire. Lui va ancora alle elementari.
Che cazzo dico?!
Andava… non ‘va’, andava…
Mia madre torna a guardarmi. Il suo viso si addolcisce e, scuotendo il capo, mi chiede: – Cosa c’è? Non ti senti bene davvero?
– Mi sento benissimo, ma devi smetterla di trattarmi come un bambino.
Continua a dare da mangiare a Enrico: – So che sei diventato un ometto, ma se ti metti fare i capricci non riesco a portarvi in tempo tutti e tre a scuola.
– Ometto? – Sono sbalordito: – Mamma, io ho quarantanove anni.
– Va bene, Roberto, hai vinto. Torna a letto. Al mio ritorno ti misuro la febbre. Possibile che non capisca che devi aiutarmi? Sei il più grande, ma se ti metti anche tu a dire stupidaggini non ce la faccio.
Il tono della sua voce mi sconvolge dal