Il consumo vistoso
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Anteprima del libro
Il consumo vistoso - Thorstein Veblen
Centopagine
Thorstein Veblen
Il consumo vistoso
a cura di Vanni Codeluppi
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Introduzione
di Vanni Codeluppi
Thorstein Veblen è un autore che non gode attualmente di una grande notorietà. In passato però la sua influenza è stata molto elevata. In Italia è stato analizzato, ad esempio, da Antonio Gramsci, Benedetto Croce, Franco Ferrarotti e Francesco Alberoni. E negli Stati Uniti il lavoro di Veblen è stato attentamente considerato tra gli altri da Theodor W. Adorno, Charles Wright Mills, David Riesman, Daniel Bell, Paul M. Sweezy e George Ritzer. Quest’ultimo, in particolare, ha scritto a proposito di Veblen che «negli ultimi tempi, la sua influenza è cresciuta perché la sua famosa opera sul consumo vistoso
anticipa la crescente importanza del consumo (sia in termini assoluti, che in rapporto alla produzione) nella società americana ed in gran parte del resto del mondo» (2003, p. 259). Da queste parole di Ritzer sono passati pochi anni. È lecito pertanto ritenerle ancora valide. Questa perlomeno è la nostra convinzione, che tenteremo di argomentare nella presente introduzione a quella «famosa opera sul consumo vistoso
» di cui parla Ritzer: La teoria della classe agiata. Un volume del quale presentiamo in questa sede la parte principale e che rappresenta la prima opera realizzata da Veblen, pubblicata negli Stati Uniti nel 1899 e tradotta in italiano per la prima volta nel 1949.
Il mondo di Veblen
Solitamente, la vita degli studiosi non riveste un particolare interessante. Nel caso di Veblen però le esperienze biografiche sono importanti perché hanno direttamente influenzato il modo di pensare di tale autore. Thorstein Bunde Veblen è nato nel 1857 in una fattoria del Wisconsin da genitori contadini. I nonni si erano trasferiti negli Stati Uniti dalla Norvegia e tutta la sua famiglia viveva in una comunità composta di soli norvegesi. La situazione non è cambiata nel 1864, quando la famiglia Veblen si è trasferita in un’altra fattoria nel Minnesota. Cosicché il giovane Thorstein non ha conosciuto altra lingua che quella dei suoi antenati sino all’età di diciassette anni, quando è andato a studiare al college. Soprattutto, però, è stato notevolmente influenzato dalla cultura della comunità in cui viveva, in particolare da quella visione morale profondamente puritana e direttamente discendente dalla religione protestante che dominava in tale comunità.
Il padre, inoltre, ha trasmesso al giovane Thorstein il suo atteggiamento fortemente critico verso la classe agiata urbana, che considerava parassitaria nei confronti del mondo agricolo. Pertanto, ritroviamo tale atteggiamento ne La teoria della classe agiata, un’opera che non a caso è stata direttamente ricavata da Thorstein Veblen da idee che aveva sviluppato fin dall’infanzia e derivavano in parte da osservazioni paterne. Si tratta dunque di un’opera profondamente critica e tale sarà anche gran parte del successivo lavoro di analisi svolto da Veblen, che il sociologo Charles Wright Mills ha definito «il miglior critico dell’America che l’America abbia prodotto» (1971, p. VII).
Veblen ha sempre adottato un approccio critico che è figlio di una grande libertà di pensiero. Perciò è difficoltoso collocarlo all’interno di una precisa categoria disciplinare. Non era un sociologo, né un economista o un filosofo, ma tutte queste cose assieme e anche tante altre. Insomma, era essenzialmente un anti-specialista. Forse, proprio per questo, come ha affermato ancora Wright Mills, ha saputo «afferrare l’essenza di un’intera società e di un’epoca» (ibid., p. XIII). E forse anche per questo non ha mai ricevuto in vita un riconoscimento adeguato da parte del mondo accademico, che invece si nutre avidamente di specializzazioni.
Ne La teoria della classe agiata la critica di Veblen è rivolta principalmente verso la classe agiata stessa. E per poter criticare quella che all’epoca rappresentava l’élite più importante della società americana tale studioso ha adottato sistematicamente nella sua analisi un principio profondamente radicato nella cultura di tale società: il principio dell’efficienza o utilità. Tale principio è alla base dell’attività produttiva ed è ciò di cui Veblen si è costantemente interessato nel suo lavoro di ricerca. A suo avviso, tutti gli esseri umani sono dotati di un istinto primario che li spinge verso l’operosità e un impiego efficiente dei mezzi e delle risorse disponibili. E ritroviamo tale istinto nell’attività degli ingegneri e in quella dei cosiddetti «capitani d’industria». Veblen ha cercato però di mantenere tali attività ben distinte da quella degli affaristi (finanzieri, banchieri d’affari, ecc.), di chi cioè non cerca di produrre beni, ma si preoccupa solamente di produrre denaro attraverso l’impiego del denaro stesso. Anzi, meglio, si preoccupa di massimizzare il suo reddito e le sue proprietà.
Tali uomini d’affari costituiscono la componente maggioritaria della classe agiata, che si trova al vertice della piramide sociale, e tendono pertanto a trasmettere a tale classe il loro atteggiamento orientato soprattutto verso l’accumulo di denaro. Ma cercano anche di ottenere, grazie alla massimizzazione delle loro ricchezze, l’invidia dei loro simili. La condanna di Veblen verso queste persone è stata totale. Le ha considerate infatti degli inutili parassiti, dal momento che non producono nulla per il benessere della società. Addirittura, ha collegato il comportamento degli affaristi a quell’atteggiamento predatorio che ha a lungo caratterizzato, nel corso della storia, le azioni degli esseri umani. Inizialmente, ci si impadroniva delle proprietà del nemico (soprattutto le donne). Si dimostrava cioè la propria superiorità conquistando un bottino. Successivamente, in tempo di pace, tutto ciò si è trasformato in una lotta basata sulla proprietà dei beni. Parallelamente, il lavoro e la fatica materiale hanno cominciato a perdere il loro valore e la loro capacità di attribuire dignità alle persone e addirittura ad un certo punto hanno cominciato a essere considerati spregevoli, mentre ciò che è diventato realmente importante è il possesso dei beni.
Il consumo vistoso
La visione di Veblen che abbiamo appena esposto spiega come mai, secondo tale autore, la principale caratteristica del consumo sia la sua natura vistosa e ostentativa. Infatti, per Veblen gli individui sono mossi nei loro comportamenti di consumo, più che dalla necessità di soddisfare bisogni biologici, da una volontà di spreco determinata dalla necessità di ostentare socialmente la quantità di prestigio e di onore insita nella propria posizione (o status), la quale è a sua volta dipendente dalla ricchezza monetaria posseduta. Sono cioè motivati dalla necessità di dimostrare socialmente di essere ricchi. Addirittura, Veblen ha sostenuto che «In tutta quanta l’evoluzione del consumo vistoso, sia di beni che di servizi o di vita umana, è chiaro il sottinteso che per aumentare effettivamente la buona fama del consumatore esso dev’essere un consumo di cose superflue. Per essere onorevole dev’essere uno spreco» (1971, p. 77). Ecco dunque perché la classe agiata consuma ninnoli, tappeti, tappezzerie o biancheria inamidata: perché si tratta di un consumo inutile. Esattamente come sono inutili, o improduttive per il sistema economico e quello sociale, le attività che vengono quotidianamente svolte dagli uomini d’affari.
Secondo Veblen, la classe agiata può dimostrare la sua superiore ricchezza e il suo status sociale prestigioso attraverso due differenti strategie. La prima è l’agiatezza vistosa (in inglese «conspicuous leisure»), cioè uno spreco di tempo che consente di dimostrare di essere così ricchi da non aver bisogno di lavorare (per esempio, indossando abiti bianchi che si sporcano facilmente); il lavoro diventa pertanto disdicevole e le occupazioni considerate onorevoli sono quelle improduttive: «il governo, la guerra, gli sport e le pratiche devote» (ibid., p. 35), ma anche imparare la buona educazione, l’etichetta