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PÈCMÉN
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E-book180 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Gli anni ‘80, Sant’Olcese, il Pac-Man, le prime riviste di MCmicrocomputer, la scoperta della sessualità, Mike Bongiorno e il Supertelegattone, gli amici del muretto, Marco piccolo, Marco grande e Giampiero,  i primi approcci con le ragazze, i video giochi, il BASIC, ATON, i prompt, il Commodore, la sassate ai gatti, i Galletti Valle Spluga, i robot e i manga giapponesi, la ricerca del centro del mondo, l’alienazione e lo smarrimento.
Fabrizio Venerandi ci racconta tutto questo in prima persona attraverso un flusso di pensieri delicato ma diretto. Una narrazione che coniuga la curiosità  per l’informatica all’amore per la letteratura.
LinguaItaliano
EditoreBlonk
Data di uscita7 lug 2020
ISBN9788835860358
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    Anteprima del libro

    PÈCMÉN - Fabrizio Venerandi

    www.blonk.it

    Fabrizio Venerandi

    PÈCMÉN

    Ai miei genitori

    per il gran casino

    che hanno combinato

    Intro

    Beh ragazzi questa sarà la *lectio difficilis*, mi prenderò il tempo che ci vuole per raccontarvi tutto dall’inizio, non ci vorrà molto tempo, non farò caso se sarete ancora qui alla fine, cercherò di dire più cose vere possibile e per farlo monterò tutte le menzogne di cui sono capace, sarò impietoso verso tutti e soprattutto verso me stesso per suscitare la vostra compassione perché ne ho bisogno, non sarò un grande scrittore perché non mi serve saper scrivere, quando la storia starà finendo non ci sarà la voce off a fare la morale della favola, a mostrare le piastrine di pasta che galleggiano nel brodo cieco, niente di tutto questo, quando arriverò alla fine salverò tutta questa roba e passerò a fare dell’altro, ve la manderò a leggere se vi interessa questo genere di cose, questa pornografia degli anni ottanta, in Italia, la pornografia di questa storia e sappiate che la scriverò in ogni posto che potrò, alle code agli sportelli, in auto in coda, di notte mentre aspetto che il cane pisci, in ogni momento e in qualsiasi stato, anche se starò male o sarò troppo lucido o sarò sudato per il nervoso o il dolore io lavorerò a parti diverse, non tutto verrà bene, ci saranno parti migliori e parti peggiori, vedrò di correggerle di uniformarle, peggiorerò le migliori e taglierò via quelle peggiori, cercherò di rendere alla fine una cosa unica e finale, mi sarò tolto questa cosa del Pac-Man e dell’amore, vi parlerò di Pac-Man e di amore e di come l’amore e il Pac-Man mi siano entrati dentro a una certa età e siano rimasti lì a suppurare a lievitare come le muffe da frigorifero, di come abbiano prodotto un marciume che mi ha reso così forte e ruffiano, così adatto a fare il consumatore, a vedere le cose da un certo punto di vista, a essere nello stesso tempo rassegnato e secondario, orgoglioso e distratto, trascurabile e impreciso, vorrei dirvi di come il Pac-Man mi è venuto dentro con il suono del suo masticare continuo, quel wakka wakka che echeggia da allora dentro di me, di come abbia mangiato i pallini che tenevo dentro e mi abbia lasciato scarico e vuoto come un labirinto in cui si aggirano soltanto spettri e - attenzione - tutta questa premessa che avete letto fino a qua io l’ho scritta per me, non proprio per voi, l’ho scritta perché io mi ricordi cosa devo mettere dentro a questa storia e cosa devo levare, per fare più velocemente e per essere il più preciso possibile, anche per rispetto per voi che avete iniziato questo libro, è una cosa che ogni tanto mi rileggerò per stare duro con la mia scrittura, per essere il più forte a dirvi questa cosa che è successa solo a me e solo negli anni che vi sto per raccontare, solo a me che ero il più forte per sopportare queste cose, solo a me e soltanto perché ero in buona buonissima brulicante compagnia.

    Così quando i ragazzini di Sant’Olcese parlavano delle ragazze dicendo di aver fatto cose che a quell’epoca avevano del miracoloso, tipo convincerle a mettersi in bocca pezzi di corpo maschile di forma aliena e mutante, ecco mentre i ragazzini ammiccavano con gli occhi lucidi, io stavo contro la parete del baretto tenendo tra le braccia la copia della mia rivistona di informatica, un numero di MCmicrocomputer che stringevo a mo’ di scudo. Era il millenovecentoottantaquattro, le riviste per computer avevano quattrocento pagine nelle quali ci si poteva trovare di tutto, formule magiche e disegni di circuiti elettronici aristotelici, e mentre l’informativa esplodeva a Cupertino, mentre sir Clive Sinclair produceva piccoli parallelepipedi neri e caldi mentre il COMMODORE VIC-20 appariva in quadricromia annunciando che il BASIC era la lingua del futuro, ecco ricordo. Ricordo molte mie coetanee che scoprivano odorose macchie di sangue nella propria biancheria intima, ricordo il punto esatto in cui per la prima volta altri ragazzini confessarono di aver avuto un’erezione (le scalette che dal bar dell’ARCI portavano nella casa di quel ragazzetto che per lungo tempo – per via dell’aspetto – venne amichevolmente chiamato Seveso, in ricordo del famoso disastro ecologico e degli inaspettati effetti dermatologici del cloracne) e di come era *piacevole* avercelo duro. Ricordo il tipo che mi consigliò di sbattere il pisello contro le gambe perché voleva dire farsi una sega, ricordo che in quel periodo se decidevo di farmi una sega producevo un rumore come di sberle difficilmente dissimulabile in casa, ricordo la prima volta che in gruppo facemmo una gara di seghe per vedere chi veniva per primo, ricordo che due ragazzini fecero la gara in coppia e che si sentì distintamente uno dei due dire «ehi anche la tua è salata». Ricordo che compravo i fascicoli dell’Enciclopedia della Fantascienza dell’Editoriale Del Drago perché dentro c’erano disegnate le tette marziane più succose dell’intero entroterra santolcesino e ricordo di avere amato qualcuno, qualcosa, disperatamente, andando ad appuntamenti che nessuno mi aveva dato e restando per ore a guardare gente che non mi vedeva. Erano gli ormoni, l’odore dei girini chiusi nei barattoli fino a vederli marcire, erano dieci ragazzini attorno a uno per terra che sanguinava e urlava, era il mio cane che masticava la carogna di un gatto e io lo prendevo a sassate scappando nella galleria del treno fascista che aveva la bella idea di unire Genova con Casella.

    C’erano le tempeste di vento in alcune zone sopra casa mia.

    Fu in quel momento, nel pieno della tempesta ormonale, quando tutto era ancora modificabile, quando la conoscenza arrivava a voce, da bocche simili alle tue, da voci ragazzine con l’alito con lo stesso tuo odore, fu in uno di quei giorni che al circolo ACLI arrivò il Pac-Man. Non sto scherzando il Pac-Man quello vero, la pallina gialla grossa che mangia i pallini piccoli inseguita dai quattro fantasmini colorati, il Pac-Man NAMCO: e tutto quello che c’era stato prima del Pac-Man era niente, una preistoria folkloristica, stronzate da bestie in calore, il Pac-Man a Sant’Olcese ragazzi, era il 1984, la mia vita era segnata.

    Il luogo dove il PAC MAN arrivò era una specie di stanzino del circolo ACLI, un gabbiotto esterno in metallo e vetro dove le temperature non diventavano gravemente ipotermiche solo per il vapore caldo che naturalmente usciva dalle bocche dei ragazzini rinchiusi lì dentro. Il sudore che usciva dalle bocche dei ragazzini si univa in un impasto che faceva fluttuare i feromoni a mille, bastava entrare in quella stanzetta per capire che c’era tutta una flora batterica che voleva spopolare e riprodursi nonostante tutto, dappertutto, credo che la narrativa non possa che essere un bagliore parziale delle cariche ormonali dell’adolescenza dei ragazzini di Sant’Olcese, c’era un odore che soffocava a stento quello del sangue bollito dei macelli che stavano sotto al bar.

    Alcune persone

    Marco piccolo aveva la faccia da cherubino, venerava letteralmente Renato Zero, con una determinazione impressionante per un dodicenne, e sua nonna aveva un trogolo che per lungo tempo fu una scuola di biologia, un luogo di tortura e di sevizie e dove un certo tipo di verginità, diciamo quella morale, si fece fecondare. Il trogolo di Marco piccolo era il centro del mondo, il punto di partenza da cui ogni cosa era nata, l’apeiron acquatica nelle cui scure profondità esseri primordiali erano nati e si erano sviluppati mettendo fuori branchie e poi zampette traslucide e poi polmoncini e gracchii notturni, code mozzate e cadenti, denti, chitina e pelle e via via per la scala evolutiva fino a rettili perduti, mammiferi abnormi e alla fine all’uomo, o meglio, a quel poco di uomo che covava dentro me e Marco piccolo, davanti al trogolo con un vasetto vuoto e lavato di conserva di marmellata posato sul bordo, e la mano immersa nell’acqua gelida, immobile, pronta a prendere i girini che ignari di ogni cosa, boccheggiavano sui bordi del trogolo in attesa di mutare la loro forma in quella di piccole ranocchie impazzite dal terrore. Il trogolo era di pietra e cemento, alto un metro circa, aveva una forma rettangolare di un metro per un metro e mezzo. Era stato costruito nel mezzo di alberi e fogliame. Ci cadeva sopra un sole umido e caldo. Guardando dentro al trogolo si poteva vedere soltanto il nero dell’abisso e le forme circolari dei girini che mordevano i bordi scuri del trogolo stesso, la cosa meravigliosa del trogolo e dei suoi lovecraftiani abitanti erano gli stadi di metamorfismo cui erano sottoposti gli esseri: piccoli pallini con la coda, poi con due zampette, poi con quattro, poi con il corpo buttato a rana e infine rane vere e proprie, senza più nessun collegamento con quei molli pallini di carne che erano stati girini. I girini erano molto più facili da prendere delle rane che, con salti improvvisi che ci spaventavano, erano capaci di sparire senza neppure farsi vedere, sentivamo soltanto il rumore veloce di qualcosa che cade nell’acqua.

    Chiusi nella boccetta di vetro i girini catturati continuavano a nuotare per qualche giorno, poi li trovavamo con la pancia all’aria, gonfia, in uno sfilacciamento di arti che marcivano tra di loro in un brodo denso, spesso ci dimenticavamo di averli presi e trovavamo il vasetto settimane dopo e dentro c’erano cose meravigliose e orribili. Spero che i girini non abbiano un anima, o se ce l’hanno, che sia un’anima misericordiosa e pietosa.

    Un giorno io e Marco piccolo costruimmo il cimitero dei girini, era una costruzione di sabbia con dei fori, saranno stati un centinaio di fori, poi andammo al trogolo e iniziammo a prendere i girini vivi e a metterli nei fori, riuscimmo a completare quasi tutto il cimitero quando ci venne nausea, mi ricordo del cimitero dei girini perché molti anni dopo Marco piccolo disse che quello del cimitero dei girini era stato qualcosa di cui si era pentito ma tutto sommato ci eravamo fermati, non abbiamo mai provato a mangiare i girini ad esempio, non so perché non ci venne mai in mente, sarebbe stato nell’ordine delle cose, oppure di darli da mangiare ai gatti o ai cani, non so se li avrebbero mangiati, noi non li mangiammo, non ci avevamo mai pensato.

    Marco piccolo aveva un sorriso che lo rendeva brutto, camminava con me per ore e mi diceva che nessuno lo capiva in quel paese, che se ne sarebbe dovuto andare. «Sono tutti degli stupidi» diceva e io pensavo che avesse ragione che ce ne dovevamo andare, ma in realtà chiunque vivesse a Sant’Olcese se ne sarebbe andato prima o poi, Sant’Olcese era un buon posto per arrivare, ma non si poteva restare, soprattutto se ci eri nato.

    Marco piccolo si chiamava piccolo per distinguerlo dal secondo Marco di Sant’Olcese che era Marco grande. A sua volta Marco grande era detto grande per distinguerlo dall’altro, la cosa funzionava. Qualcuno aveva deciso che Marco grande ed io dovessimo andare d’accordo perché i nostri genitori si conoscevano e perché avevamo la stessa età, in realtà questa responsabilità di dover andare d’accordo, di essere amici che i nostri genitori ci avevano imposto quando avevamo iniziato ad andare assieme alle elementari, aveva fatto sì che io e Marco in pratica ci odiassimo man mano che il tempo passava. Se penso a Marco grande ho soltanto dei ricordi sgradevoli, già alle medie Marco grande mi aveva preso da un lato e aveva iniziato a riempirmi di cazzotti, questa cosa dei cazzotti è rimasta proverbiale, perché al terzo cazzotto Marco grande aveva preso in pieno l’osso della mia anca, era diventato pallido, mi aveva detto «spero che tu abbia capito la lezione» e se ne era andato verso lo scuolabus barcollando e poco dopo con i genitori al pronto soccorso, si era spezzato alcune ossa della mano. Anche per questo, molti anni dopo, decisi di fare l’obiezione di coscienza, non volevo causare altro dolore a chi mi riempiva di cazzotti.

    Con Marco piccolo il rapporto era diverso, Marco piccolo era innamorato delle cose, era una persona sensibile nata nel periodo sbagliato: l’adolescenza.

    I ragazzini di Sant’Olcese si potevano dividere in due classi, quelli mediamente pericolosi e quelli pericolosi, quelli pericolosi di solito avevano un giardino con un dobermann che poi impazziva e veniva ucciso perché il cervello cresceva saturando tutto lo spazio della scatola cranica. Quelli mediamente pericolosi erano quelli con cui potevi anche giocare ai giochi di gruppo come guardia e ladri, nascondino e cose del genere, con quelli pericolosi era meglio non farlo, perché nel migliore dei casi se ne sarebbero andati a casa durante la partita senza dire niente a nessuno, nel peggiore dei casi ti saresti trovato con loro in qualche prato notturno a subire non previste varianti del gioco.

    Uno dei ragazzini che associavo al pericolo si chiamava Giampiero, era piccolo, tozzo, biondo con idee maligne che gli arrivavano sul volto all’improvviso, la madre aveva aperto anni prima l’unico negozio di estetista del paese che era sempre chiuso, apriva ogni tanto per fare i capelli a qualcuno. Il padre di Giampiero non so cosa facesse, stava sempre in casa al buio, parlava con un apparecchio posato sul collo, dall’apparecchio usciva una voce meccanica che sembrava arrivare direttamente dal centro del cervello dell’uomo. Camminava a fatica, lentamente e aveva uno sguardo che mi metteva angoscia. La madre di Giampiero io l’avevo conosciuta prima che morisse, era allegra si muoveva velocemente e sorrideva a noi bambini, ma rapidamente. Dopo che era morta il negozio di estetista era rimasto chiuso, piano piano la porta si era coperta di polvere e terra e poi erano cresciute delle piante sullo zerbino che era andato in pezzi. Una volta Giampiero mi aveva portato dentro al negozio e dentro c’erano ancora tutti i campioncini di shampoo allineati, a centinaia, era tutto ordinato, pieno di specchi, lì in quel paese di periferia sembrava la capsula abbandonata di qualche astronave di fantascienza.

    Giampiero era veloce, feroce, giocavamo assieme in una perenne battaglia per la sopravvivenza. Eravamo rozzi uomini del paleolitico, creavamo continuamente

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