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L'uomo che rovinava i sabati
L'uomo che rovinava i sabati
L'uomo che rovinava i sabati
E-book371 pagine5 ore

L'uomo che rovinava i sabati

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Info su questo ebook

Nell’enclave della Val Crodino, dove spendere soldi per ritinteggiare casa conta meno di un concerto di David Crosby, il tempo si è fermato, e per chi prova a mettere il naso fuori la vita non è facile.
Jack Ebasta è un poeta tardo-beat in eterna lotta con esametri ed etilometri che al termine dei reading ama rimorchiare dame in rosso. Ha deciso di non scrivere più, ma non sa ancora che la Nonino gli farà cambiare idea.
Malcolm Chiarugi prova a fare il cantautore ma per sopravvivere gli toccano i gabinetti chimici. Ha una dozzina di amanti, «il Parco», cui ha dedicato il suo ultimo album, un brano per ognuna, e aspetta di vedere come reagiranno la sera della presentazione.
Il Palma è un raffinato liutaio che ha un rapporto morboso con le proprie chitarre. Sta faticosamente uscendo da una relazione sentimentale quando scopre l’esistenza dell’unica persona che gli potrà rimettere in piedi la vita, un misterioso etnologo esperto di funghi allucinogeni che vive in cima a una montagna.
Quando si mette in viaggio, Jack e Malcolm decidono di accompagnarlo, un po’ per amicizia, un po’ per scrollarsi di dosso i tormenti privati. Il loro viaggio si rivela un cuore di tenebra formato ridotto, e quando una notte tempestosa giungono nei pressi di una baita, immaginando di trovarvi un Marlon Brando in stato allucinatorio, un brivido corre lungo le loro schiene.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2020
ISBN9788833861630
L'uomo che rovinava i sabati

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    Anteprima del libro

    L'uomo che rovinava i sabati - Alan Poloni

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Preludio

    questione di pernod

    In realtà le cose che gli davano noia…

    Jack si sveglgaiò alle nove con un blocco di granito…

    Quello di proporre inediti a orecchie vergini…

    A certe persone lo spirito imprenditoriale…

    Se fosse stato un racconto…

    Morte all’ailanto

    « … confutatis maledictis… »

    Cosa bolle in pentothal

    La vita di Cecchini ruotava tutta intorno all’ipocondrio…

    Fondamentalmente per lui era una mera questione di…

    Jack si chiedeva spesso se…

    Il Parco uscì il 12 maggio e la sera stessa sarebbe stato presentato al Trippa’s.

    La mattina iniziò in maniera abituale…

    La sera in cui seppe dell’esistenza di Jean-Pierre Monterroso…

    Interludio

    Già Eraclito segnalava l’incommensurabile cisti…

    Sei un figlio di puttana

    Fuga

    Adesso che la bufera è stanca

    scafiblù

    ( 13 )

    © 2020 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di novembre 2020

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione digitale: novembre 2020

    isbn

    978-88-3386-163-0

    Prima edizione cartacea: novembre 2020

    isbn

    978-88-3386-161-6

    a Michele,

    per le storie e la garra

    Roxanne, you don’t have to put on the red light

    I loved you since I knew you

    I wouldn’t talk down to you

    I have to tell you just how I feel

    I won’t share you with another boy.

    The Police

    Preludio

    In principio era l’Amanita muscaria, l’Amanita muscaria era presso dio e l’Amanita muscaria era dio. Ma siccome quei boschi di noccioli e castagni non li aveva disegnati Walt Lysergia Disney e da quelle parti l’ovulo matto risultava piuttosto raro, un bel giorno, dio o non dio, gli abitanti della valle avevano cominciato a fare esperimenti con la Psilocybe semilanceata e con il Panaeolus campanulatus, specie più abituali e altrettanto basiche, esprimendo da subito una netta preferenza nei confronti della prima in quanto non fimicola, cioè non crescendo nella merda di bovidi e cavalli. Da quel momento la Psilocybe aveva potuto svelare tutto il suo torbido fascino alcaloide e nel volgere di poche estati era assurta a regina psicotropa della valle, sì che a ogni sistema nervoso locale fu concesso, con o senza Ray Manzarek all’Hammond, di scardinare le porte della percezione: finalmente si potevano vedere l’aura che circondava i corpi e le pinne sulla schiena degli uomini, una macchia sul muro diventava una bocca parlante e una bolla di luce sul tavolo si trasformava in un buco attraverso cui spiare l’intestino dell’universo.

    E quella notte, quella notte di equinozio e psilocibina in cui il paiolo troneggiava in fondo al tavolo della Stube, quella notte il ramaiolo si immergeva col tonfo lieve di un tuffatore cinese, senza schizzi e sbavature, e quando il braccio del druido lo restituiva all’aria i bicchieri gli venivano porti con temperanza, senza l’ingordigia di un compleanno per bambini come invece accadeva i primi anni, tutti lì con gli occhi fuori dalle orbite a invocare una mestolata. Perché ormai la pedagogia nera del temutissimo gran cerimoniere era conosciuta, e il rito si svolgeva secondo le sobrie liturgie da lui ordite: era scritto che a lui, al druido, spettava circum­navigare la tavolata, a lui spettava scandire i tempi solenni del cerimoniale, a lui spettava rabboccare fino all’orlo i bicchieri accompagnandosi col suo sguardo da orco (ma molto più cattivo di un orco, la cattiveria repressa di una settimana al tornio), uno sguardo eloquentissimo che diceva non-avrete-altro-druido-all’infuori-di-me, e che diceva sono qui con voi da ore e ore e nonostante tutta la psilocibina che avete in corpo riuscite ancora a farmi sentire le vostre cazzate sull’importanza del prosecco nelle vostre vite o la risaputa fandonia di quella camporella con la figlia del farmacista, e che diceva cerchiamo di finirla al più presto e di restare su discorsi degni di questo nome, diocaro. (Sì, perché alle adunate di semilanceata, nelle mezzore in cui non era cattedratico, il druido ammetteva che si parlasse solo ed esclusivamente di una cosa: di Ritchie Blackmore e dei suoi assoli, e se qualcuno degli adepti, in un momento di paranoia complottista, improvvidamente finiva per chiedergli se era vero che Walt Disney fosse stato un collaboratore dell’Fbi, lui tuonava che erano tutte balle, diocaro, e che la storia americana andava letta come si legge « Tiramolla », senza pensare che in un giardino possa nascondersi qualcosa di più orrendo di una biologica.)

    La notte psilocibina non era la semplice notte dei comuni mortali, quella che al massimo porta qualche consiglio, ma una notte diafana e sdilinquita che porta a sentirsi spora nella scatola nera dell’universo: molle e purpurea, la notte psilocibina era il liquido bluastro in cui galleggiava la luna, era l’impasto marroncino della tisana allucinogena, era il seducente viola sul fondo di un bicchiere. Molle e purpurea la notte psilocibina incedeva sinuosamente penetrando dalle narici, allentando i muscoli, pizzicando il palato, in generale dilatando, dilatando qualunque organo incontrasse sulla propria strada: esperta stripteuse dalle movenze capziose, dapprima attirava l’attenzione con semplici distorsioni percettive (tipo sentirsi lunghi e snodati, le mani che arrivavano a titillare l’Orsa Maggiore…), poi irretiva il cervello con visioni pop e micenee (a palpebre prima chiuse, poi aperte, geometrie infinite grecavano i soffitti), infine inchiodava i convitati a scene via via più arcane (come un Tir che faceva irruzione nella Stube o una betulla con le calze a rete).

    Dentro, intanto, la lectio del druido prendeva corpo e svelava il mistero dei Cerchi delle Streghe (oggi Atterraggi degli Ufo), risultato: miceli di funghi disposti circolarmente che impoveriscono il suolo producendo una zona necrotica al centro, e i ragazzi facevano di tutto per non deluderlo, anche se di tanto in tanto scappava una risata o un rutto. Quando poi il druido si rendeva conto che la situazione stava degenerando (un gruppetto di quelli fuori si affacciava alla finestra, sbirciava dentro e, contorcendosi tra le risate, li additava: ah ah ah! siete dentro!!! Per pronta risposta quelli dentro, attorcigliandosi tra i ghigni, quasi alle lacrime, rispondevano: ah ah ah! siete fuori!!!), capiva che era il momento di tirare fuori dal cilindro la Vera Storia di Babbo Natale Raccontata dal Druido, l’unico argomento capace di sedare le vampate di esilirismo: si diceva che in Lapponia gli sciamani fossero soliti far visita ai villaggi a bordo di slitte trainate da renne; la neve accumulata alle porte era tale da costringerli a introdursi nelle case attraverso i camini; prima della visita, lo sciamano ingeriva diversi esemplari di ovulo matto che lo rendevano rossastro e ricoperto di chiazze bianche. E le renne?, chiedeva uno dei ragazzi per completare il racconto. Tutti sanno che alle renne piace l’amanita, diocaro, e probabilmente provavano anch’esse la sensazione di volare.

    E quella notte il festeggiato, che nel pomeriggio, sotto il sole infuocato, l’io già triturato dai primi cucchiai di Psilocybe (marmellata di pomeriggio, infuso di sera, questo prevedeva da sempre la liturgia del druido), si era sdraiato sulla tavola dove stavano affettando la porchetta e, porgendo il deretano, si era messo a urlare sono io la porchetta! sono io!, quella notte si aggirava per il Colle Ballerino ripetendo che era lui il cervo, e cingeva, abbracciava, avvinghiava chiunque incontrasse, ringraziando, da buon cervo riconoscente, per quello stupendo addio al celibato, il più bell’addio al celibato che un cervo potesse desiderare. E mentre attraversaaava London Bridge gli intonavano alcuni ragazzotti con la camicia aperta e le pupille dilatate un giorno senza soooleeeee ognuno con una bottiglia personale in mano vidi una donna piangere d’amoooore proseguiva lui a squarciagola piangeva per il suo Geordieeeee!!!

    E mentre gli occhi se ne erano andati da tempo fluttuando nell’aere come languidi droni, e urletti soffocati dal riso (il troppo ridere avrebbe lasciato il giorno dopo svariati indolenzimenti nella zona addominale) si sollevavano da bocche inspiegabilmente ancora innestate su corpi (corpi piegati, pendenti, inclinati, obliqui, traversi, sghembi, sbiechi, sbilenchi, corpi che tentavano invano, saltello dopo saltello, di prendere la via del cielo senza chiedere permesso all’ippocampo o alla fatina della gravità, corpi a tu per tu col proprio non io e con quello altrui, corpi vis-à-vis

    con l’ampliamento del sé), in mezzo al prato digradante del colle un uomo con gli occhiali da sole, il berretto della Forst e soprattutto la canna da pesca tra le mani, pescava. Teneva lo sguardo puntato alla lenza, immerso nell’avena spumeggiante, e di tanto in tanto si alzava, caricava le braccia e lanciava la lenza più lontano, più lontano che poteva, poi si risedeva e si rimetteva in paziente attesa. Chi passava di lì, anche se tutto scosso da uno sghignazzo alcaloide, non appena lo vedeva, sopprimeva la midriasi e ritrovava tutta la serietà di cui era capace, una serietà compitissima, quasi grave, perché su quella collina purpurea e in quella notte psilocibina la presenza del pescatore da prato era l’unica cosa dotata di senso. E intanto, qualche metro sotto, più o meno dove l’esca sprofondava nel verde, dalle erbe alte ormai prossime alla fienagione, proprio in mezzo alle onde appena smosse dal vento, affioravano uno, due, tre pesci, un tonno, uno spada e un luccio, ognuno con la faccia e la pelle e il corpo e gli ansimi da uomo: venivano su e tornavano giù, i tre pesci, emergevano e si immergevano, apparivano e sparivano, nelle acque glauche del Colle Ballerino.

    E intanto appena fuori dalla baita, sotto la travi di abete e i coppi mezzi marci della veranda, due uomini, uno che era praticamente un orso con espadrillas, l’altro elegante e azzimato come un professorino della Cattolica, Azzarò dai polsi alle ascelle, l’unico fuori posto in quel consesso di allucinati, l’unica persona vagamente sobria in circolazione, parlavano animatamente (o meglio, l’urside animatamente, l’azzimato silente e impaurito) e diceva, l’urside, tu mi devi spiegare perché una cosa che cresce spontanea nelle nostre vallate, una cosa che viene su perché deve venire su e basta, tu mi devi spiegare perché deve rientrare nella tabella Elle. Me lo devi spiegare, si ostinava il plantigrado sputacchiando, me lo devi proprio spiegare, caro il mio veterinario, e mentre parlava incideva, con lo sguardo acuminato, aggrottando fronte bocca occhi in un’unica violenta corrugazione, incideva con lo sguardo il collo dell’azzimato, precisamente all’altezza della giugulare. Impiccheranno Geordie con una corda d’ooorooo, è un privilegio raroooooo. Rubò sei cervi nel parco del re, vendendoli per denaroooooooo! Tabella Elle, hai capito? Rugliava forsennato al veterinario, il quale, ormai del tutto consapevole che lì, in quel momento, non si trovava più semplicemente a una festa a base di funghetti allucinogeni (ma chi aveva messo in giro la voce che era un veterinario?) ma dentro una gigantesca e pericolosa allegoria nella quale lui, in quanto uomo di scienza – ai loro occhi uomo di scienza al servizio dello Stato (un veterinario è statale?) – era diventato, per chissà quale nesso, il legislatore, il tecnico legiferante, l’estensore della legge sulle sostanze allucinogene, forse addirittura l’infimo e bastardo compilatore della famigerata tabella Elle. Non so se mi spiego, insieme a merda come eroina, cocaina, morfina! Hai capito, veterinario? Me lo spieghi perché? Cioè, mica cresce nei prati, in mezzo alle mucche, l’eroina, o no? Mica vien su spontanea in mezzo ai rododendri della valle, l’ecstasy, no? Cioè tu mi devi dire se la semilanceata ce l’ha venduta un pusher o se l’ha raccolta per noi il druido, se è figlia di un prato camuno o di un laboratorio olandese. Me lo devi dire! Ma sì, certo, accennava il veterinario con uno strano accento un po’ francese un po’ spagnolo, leccandosi le labbra dove sperava di sentire ancora il dolciastro conforto del rum bevuto più di un’ora prima, ma qui, vedi, si fa riferimento alle proprietà psichedeliche… anche se ormai, attenzione, si dice enteo­gene, perché quella definition là, psichedelico, appartiene a un’altra epoca, più romantique e, diciamo pure, inconsapevole. Qui… amico… qui si fa referencia a degli alcaloidi psicotropi… psilocina e psilocibina, qui si… Mi hai già rotto il cazzo! inveiva inferocito l’urside strappandogli la parola come si trattasse di un pezzo di carne, non capisci un cazzo, hai capito? Enteogeni un cazzo! Sono psi-che-de-li-ci, va bene? Quello sono e quello rimangono, hai capito? È così che li devi chiamare! E crescono nei prati, mica li ha portati qui un pusher enteogeno del cazzo, va bene? E adesso, prima che mi venga voglia di strapparti il cuore a morsi, adesso vado là a cantare coi miei amici, va bene? I miei amici sono quelli là, li vedi? E sai perché sono miei amici, loro? Perché loro non sono dei veterinari di merda che vanno in giro a rompere il cazzo con la loro tabella Elle!

    Rubò sei cervi nel parco del re, vendendoli per denaroooooooo!!!

    sbollì il nervoso urside dirigendosi verso gli amici, e appena li ebbe raggiunti propose loro di andare nei boschi a catturare uno dei sei cervi del re (tutti giù a ridere come indemoniati), perché gli era venuta fame, a parlare con l’estensore della tabella Elle, gli era venuta una fame senza precedenti a parlare col veterinario, veterinario del cazzo che non capiva ancora perché lo avevano invitato, e gli rispose proprio il festeggiato, il cervo, spiegandogli che il veterinario era un amico di suo fratello, e che lo avevano invitato per quello, perché era amico del fratello del cervo. Ma eri mica una porchetta? – gli chiese l’urside, e il cervo gli disse che era cervo da sempre, e che comunque il veterinario era lì per un motivo preciso e scientifico: non aveva visto che aveva una macchina fotografica al collo? Certo che l’aveva vista. Ecco, era lì per documentare la serata a fini scientifici, per scattare foto ai più intossicati, a quelli che avrebbero avuto la flexibilitas cerea, la sintomatologia catalettica che ti trasformava in una statua di cera. Ma adesso andiamo, disse il festeggiato, andiamo nella foresta a cercare i sei cervi del re (con una corda d’oroooooo), e passarono sul retro della baita, in fila come i sette nani, e presero le armi, sarebbe a dire falcetti, roncole, forconi e una zappa, e accesero delle fiaccole, o meglio, tentarono di accenderle, ma subito desistettero perché la legna era verde e non prendeva fuoco e si scottavano le dita con gli accendini e in ogni caso, in quel momento di deriva psilocibinica, una qualsiasi operazione più complessa del tirare su col naso era preclusa, e poi partirono lungo il sentiero e le loro voci si persero nell’oscurità del bosco.

    E nel frattempo il druido era uscito improvvisamente dalla baita e annunciava la nuova infusione battendo ton ton ton il mestolo sul paiolo da quasi cinquanta chili, paiolo che reggeva poggiandolo al fianco ton ton ton senza fatica, come fosse un banditore di Luigi qualcosa col suo bel tamburo ton ton ton, e alcuni accorsero verso di lui, altri continuarono a rotolare dalle risate, altri ancora dissero che poteva bastare così.

    Poteva bastare così?

    Aveva capito bene? Poteva bastare così? Dapprima smise di battere il paiolo, poi, lanciando occhiate ferali agli sventurati, emise un grugnito e quindi prese a picchiare ancora più forte: TONNNN TONNNNN TONNNNN, e intanto urlava, urlava che erano liberi di fare come volevano, fighette di pianura che non erano altro, ma ricordava loro che diocaro fra raccolta (circa duemila funghetti raccolti uno a uno con le sue manone) e cottura aveva impiegato tutta la giornata e quindi li avvisava che, se all’alba in fondo al paiolo fosse rimasto anche solo un goccio di infuso, li avrebbe giustiziati uno a uno con la vanga, diocaro, TONNNNN TONNNNNN TONNNNNNNNN, e allora quelli che poteva bastare così si tirarono su come automi e si misero in fila come per la comunione, perché molti di loro avevano già fatto la conoscenza delle sue nocche.

    E intanto dalla Stube si levavano risate disumane, come se stessero martirizzando qualcuno, e invece molto più semplicemente erano quelli a metà lezione che, la luna tondeggiante nel rettangolo della porta lasciata aperta, si passavano il genepy di mano in mano rievocando un vecchio episodio, la storia di quando Bepi Coronaria, uno che quella sera non era salito alla baita, era finito al pronto soccorso per un’indigestione di muscaria. Non l’aveva spellata (o, secondo alcuni, non l’aveva tenuta nel latte per qualche giorno) ed era arrivato a tanto così dal grande salto; aveva taciuto a tutti, medici compresi, l’origine dei suoi spasimi (« bevuto Ceres ghiacciata… », aveva continuato a biascicare per ore, tenendosi la pancia come se i visceri gli scappassero fuori per una granata) e, mentre il suo fegato si riduceva a un pistacchio, qualcuno dei suoi amici aveva messo in giro la voce che probabilmente si trattava di un’intossicazione da allucinogeni, e allora i medici avevano potuto intervenire, appena in tempo per evitargli un sacco di problemi, tipo la fastidiosa e sempiterna lucina del loculo. E mentre ridevano come matti, senza accorgersi che il ton ton ton si era arrestato, rievocando la famigerata Ceres ghiacciata di Bepi Coronaria, all’improvviso sullo stipite era riapparso, in tutta la sua eclissi lunare, il buon ed enorme druido (« allora, dove eravamo rimasti? ») e loro, arteria alla mano, avevano abortito istantaneamente le risate e si erano fatti seri come degli accademici in plenaria proclamando di essere al punto della segale biforcuta (« cornuta, deficiente ») e agli sclerozi del dottor Hoffmann, e allora il druido, ieratico, aveva ripreso posto dietro la cattedra e aveva proseguito la sua lezione sulla Claviceps purpurea, lezione di storia del cristianesimo allucinatorio che tutti conoscevano a memoria, dall’utilizzo della cornuta nella medicina popolare per l’interruzione delle gravidanze al suo ruolo nelle apparizioni della Madonna, dal fuoco di sant’Antonio alle migliaia di vittime che l’ergotismo fece ancora nel 1926 in Francia, lezione che si sorbivano in austero silenzio, parecchio consapevoli che quella mezzoretta era il giusto dazio per le impagabili dilatazioni della notte psilocibina.

    Intanto, fuori, nella veranda, il veterinario era arrivato al terzo bicchierino consecutivo di Montenegro e guardava con una certa preoccupazione verso il bosco, ancora nella mente lo sguardo predatorio con cui l’urside lo aveva ghermito poco prima, preoccupazione che di lì a poco si sarebbe trasformata in ansia vedendo i sette nani spuntare sciamannati dalla macchia e, guidati dall’urside, dirigersi animatamente verso di lui, sempre coi forconi e le roncole in mano. Per fortuna, giunti a pochi metri, alla vista della bottiglia che il legislatore stava bevendo, il plantigrado era scoppiato in un’inattesa e fragorosa risata e si era messo a canzonarlo canticchiandogli il motivetto pubblicitario del noto amaro.

    Intanto, a pochi metri dalla baita, l’imperterrito pescatore da prato lanciava la sua lenza sempre più lontano, quasi oltre il termine della notte psilocibina e sotto di lui, nel folto del mare verde, incuranti dell’amo e sommersi da correnti oceaniche, i tre pesci, che di nome facevano Palmiro, Chiarugi e Jack, si godevano un super idromassaggio di erba medica.

    questione di pernod

    « Ehm… e così vorrei fzfzfzfzfff -ncludere… questa mia… tumtumtum (ma… si sente?)… fzzffz -ntroduzione, mettendovi a conoscen- fzfzfzzffz. »

    Davanti a lui sei file di sedie rosse di plastica con una poco aulica marca di gelati stampata sugli schienali; sulle sedie una trentina di persone variamente interessate all’evento, come ormai viene definito un qualsiasi consesso umano con velleità artistiche.

    « Non è che mi piaccia, eh, sia ben chiaro, venire qui a fzfzfzfz -rvi questa cosa, che magari vi rovino pure la fzfzfz -erata, perché in fin dei conti si vede che siete brave persone, vi siete pure presi la briga di uscire di casa e venire qui su queste sed -fzfzfzfz -gnate e in mezzo a orde di moscerini, ma… se non ci penso io, a dirvelo, chi ci pensa? »

    In prima fila spiccavano i notabili del paese, sarebbe a dire l’assessore alla cultura, il presidente della biblioteca e la bibliotecaria, più i loro consorti (due mariti e un fidanzato) ancora visibilmente increduli per lo spreco di tempo cui erano stati costretti. Nella seconda erano pomposamente adagiati gli appassionati di poesia (Jack li riconosceva al volo, così come riconosceva bene quella piega sulla bocca della signora in rosso, qualcosa di più di un semplice sorriso…), i brizzolati/canuti che tra un romanzo griffato Strega (anche un secondo o terzo posto) e un saggio di Vito Mancuso intrattenevano commerci intellettuali con una silloge poetica di un autore deceduto almeno tre decadi addietro (a Jack era noto che i masticatori di poesia in Italia sono disposti a riconoscerne il valore solo se l’autore risulta in avanzato stato di decomposizione).

    « Gentili signori, la poesia fzfzzfzfzf, se ancora non ve l’avessero detto, fzfzzfzfzf ehm… la poesia… insomma… è… come dire… morta. »

    La terza fila era di quelli che ascoltano poco e commentano tanto, quasi ad alta voce, bovari che sghignazzano dandosi di gomito, malcelando la famelica attenzione ai panini del rinfresco, sguardi bramosi che col passare dei minuti, la sedia ormai ruotata di 180 gradi, si trasformano in autentiche occhiate d’assedio, sul volto l’evidente rammarico per aver lasciato trabucco e mangano nel parcheggio. La quarta era degli irregolari cronici: pensionati che vivono in uno stravagante mondo sospeso tra Almodóvar e l’oratorio, web-nerd dalla recensione facile (con cui espettorano ettolitri di frustrazione), massaie nabokoviane che collezionano gruppi di lettura, malati psichici di varia anamnesi, scrittori non pubblicati, lettori di Gianni Celati, insegnanti di matematica devastate da Lacan, collezionisti di cimeli della Grande Guerra, volontari che nel pedibus intravedono i prodromi di una rivoluzione sociale, insomma: un bailamme di aspirazione bruciacchiata e infelicità combustibile che fa della lettura la principale fonte di alienazione. La quinta fila, con l’eccezione di due ragazze dagli occhiali spessi e i polpacci da cronoscalata, era pneumaticamente vuota.

    « La poesia è morta e… pure da un bel po’, a giudicare dall’odore… »

    La sesta fila, l’ultima, era degli outsider, i misteriosi, gli stranieri, i non identificati, i catalizzatori di sguardi (soprattutto da parte dei bovari), tra i quali spiccava una strana coppia, due uomini, uno giovane e di bella presenza, l’altro sulla cinquantina con lo sguardo fainesco, vestiti di tutto punto come appena usciti da una riunione aziendale o da un funerale (completo nero con cravatta d’ordinanza, camicia inamidatissima e più bianca della neve, pantaloni aderenti, fibbie dorate qua e là), seriosi e compassati dalla bocca alle scarpe, addirittura forniti di agenda in pelle nera su cui di tanto in tanto, dopo un rapido scambio, si segnavano qualcosa.

    « Proprio così, signori: la poesia, questa deviazione umana che vi ha portato qui stasera, è fzfzfzfzzz -orta e… insomma… vedere tanta gente che fzfzfzfz ostina a tenerla in vita, come qui, stasera (io per primo, eh, s’intende…), a me… così… se mi è permesso… a me… tutta questa… ostinazione, a me, personalmente, mi suona tanto di… di accanimento terapeutico, mi sa di tubicini che escono dalle vene, di cannule che escono dalla bocca… di cateteri che escono dal… ehm… cose così, insomma… »

    Jack lasciò trascorrere qualche istante di silenzio. Dopo quel passaggio così sincero e intenso si aspettava una specie di applauso, se lo aspettava e lo aspettò per qualche attimo, abbassando lo sguardo sul palpito del cuore che da sotto gonfiava e sgonfiava il taschino della camicia, ma vedendo che dalle sedie dei gelati non partiva nulla, si lasciò lambire dall’illusione che forse il pubblico non aveva capito che quella era la chiusa alla sua introduzione, e allora si mise a lisciare per bene i fogli che aveva sul leggio e a schiarirsi la voce per far capire che l’introduzione era finita (agli altri poeti, tra il cappello introduttivo e la declamazione del primo pezzo, era stato tributato un piccolo applauso…) e che si apprestava a iniziare il reading. A un certo punto in effetti gli parve che un signore stesse quasi per applaudire, invece stava solo estraendo il fazzoletto, e siccome il silenzio si stava protraendo fin troppo creando un certo imbarazzo generale, allora decise di non aspettarsi più nulla e attaccò a leggere.

    Lesse Quaggiù, sulla litosfera. La lesse come faceva sempre, evocando brividi alla sua vecchia e smemorata carcassa, estraniandosi da se stesso, la sua voce e le sue parole a provocargli l’effetto del lievissimo choc elettrico dei fili da alpeggio. Lesse senza enfasi e retorica, con la sua fredda cantilena da monatto incallito, solerte netturbino di cadaveri letterari che assolve al mandato di disinfestazione della città, ché carogne poetiche abbandonate sulle soglie, riverse sui marciapiedi, inginocchiate ai piedi delle panchine, una città che si voglia dir tale non può permettersele, e lui e la sua poesia, ne era convinto, adempivano proprio a questo compito, perché, se c’era un modo di tenere viva la poesia, era liberarla da tutto il carcame retorico che la contaminava. Lesse staccandosi da quella villa ammorbata di provincia, staccandosi dalle tristi esibizioni dei poeti che lo avevano preceduto, staccandosi dall’editoria e dalle recensioni, dal globo terrestre, dall’atmosfera dalla litosfera dall’idrosfera e da tutte le creature del cielo della terra e del mare, uomini compresi.

    Un’arietta fresca, ancora imbevuta dalla pioggia che fino a poco prima era sgocciolata dalle foglie, transitava dal giardino al cortile appassionandosi alle gonne più lunghe e ai colli più profumati; alcuni rami spelacchiati, forse secchi, in controluce davanti a un lampione producevano un effetto come di pittura puntinista. Un leggero ronzare di impianto accompagnava la nenia del poeta-monatto, un lieve friggere di masse elettriche che di tanto in tanto schizzava alto quasi a coprirne la voce, una frittura di casse amplificatrici che il tecnico del suono, o meglio il non tecnico del suono (un uomo di sessantadue anni precettato sotto minaccia dall’assessore comunale, un uomo che in realtà si occupava di manutenzione stradale (cioè che con sapienti dosaggi di catrame rammendava buchi nell’asfalto), privo dei più elementari rudimenti di stereo-

    fonia – dove come quando e perché si posizionano due casse, per esempio –, figuriamoci la sofisticheria di un cablaggio…), non aveva saputo assettare meglio.

    Di tanto in tanto, mentre leggeva, Jack alzava lo sguardo e osservava il pubblico, soprattutto le prime file, soprattutto la seconda fila, soprattutto la signora con la gonna rossa, soprattutto il viso della signora, soprattutto la bocca della signora. Era sicuro di averlo visto bene, il suo sorriso, poco prima, quando aveva parlato della morte della poesia, l’aveva visto bene e aveva sentito un tuffo al cuore, quello stesso tuffo al cuore che lo accompagnava da una vita e che, una volta si era messo lì a calcolare, era uno dei ricordi più remoti della sua frantumatissima memoria. Li faceva per questo, lui, i reading: per conoscere signore che si mettevano una gonna rossa in nome della poesia.

    Finì il primo brano e si lasciò investire da un debole ma apprezzabile applauso. Lo ricevette senza alzare lo sguardo, ora fissando il taschino (difficile dire dove finiva la vera timidezza e dove iniziava la studiata messa in scena: di certo non era più il fanatico dell’autenticità di vent’anni prima), ora fissando i fogli appena lambiti dall’inchiostro della stampante in debito di cartucce, pregustando il termine della serata quando, attorno al tavolo del rinfresco, si sarebbe presentato alla signora e avrebbe iniziato una piacevole conversazione fitta di rimandi a Pessoa.

    Sfilò il primo foglio e con un abile movimento di naso fece scivolare di

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