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La lunga fine: 1944-1945: L'ultimo anno di guerra del Commissario Novaretti
La lunga fine: 1944-1945: L'ultimo anno di guerra del Commissario Novaretti
La lunga fine: 1944-1945: L'ultimo anno di guerra del Commissario Novaretti
E-book658 pagine6 ore

La lunga fine: 1944-1945: L'ultimo anno di guerra del Commissario Novaretti

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Info su questo ebook

Dicembre 1944.
Dopo sei anni di guerra e l’esperienza della prigionia in un campo tedesco, il commissario Novaretti torna a Baldovino.
Il suo animo è profondamente cambiato.
È segnato da brutte vicende e gravi problemi personali, che lo hanno spinto ad allontanarsi dalla sua famiglia e sprofondare nella più buia realtà della sua mente.
Ritrova la sua città adottiva, diversa come lui, tanto da far fatica a riconoscerla.
Distrutta dalle bombe, occupata dai nazisti, segnata da gravi scontri tra i fascisti e i partigiani.
Nel caos che solo un conflitto può portare per le strade, viene coinvolto nella più sanguinosa delle guerre civili.
In mezzo a spie, violenze e delitti, sarà dura per lui ritrovare la strada verso l’uomo che voleva essere.
LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2020
ISBN9788893782043
La lunga fine: 1944-1945: L'ultimo anno di guerra del Commissario Novaretti

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    Anteprima del libro

    La lunga fine - Matteo Tamburelli

    cinese)

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO 1

    Oflag 523, Baviera, dicembre 1943

    Lo spiazzo centrale del campo era totalmente imbiancato dalla neve, caduta copiosa nei giorni precedenti.

    I prati, gli alberi e perfino le fattorie all’orizzonte sembravano parte di quella magia che solo l’inverno incombente era in grado di portare in dono a chi lo sapeva apprezzare.

    I suoni degli uccelli che cinguettavano, alla disperata ricerca di un posto sicuro per costruire il loro nido, e il vento che soffiava forte, accompagnato da quella specie di nebbiolina tipica delle tormente.

    Il maggiore Novaretti, ospite alla baracca degli ufficiali italiani da ormai quasi tre mesi, osservava incantato. Era seduto su una sedia in legno, logora e quasi marcia, a fianco della finestra sul fondo della camerata.

    Nella sua mente correvano i ricordi di quando, da bambino, costruiva con suo padre il pupazzo di neve davanti a casa loro.

    Per essere precisi, lo costruivano appena dopo la ripida discesa che portava alla piccola salita di ghiaia, di fronte alla loro abitazione.

    Suo papà lo faceva sempre ridere, dicendogli che lo mettevano lì perché almeno sarebbe stato di guardia alla loro bottega, a quella del panettiere loro vicino di casa e, soprattutto, agli alberi di noci.

    Poco importava se le noci d’inverno non c’erano.

    Ci mettevano una vecchia cuffia che non usavano più, una sciarpa tutta sbrindellata e rubavano a sua mamma una carota in cucina, così da potergli fare l’immancabile naso.

    Poi, quando lui era tornato al pomeriggio da scuola, c’era un’interminabile battaglia di palle di neve. Prima con suo papà e suo zio, in seguito anche con i bambini che vivevano lì attorno, finché non faceva buio.

    Quando era solo, invece, preferiva usare lo slittino che gli aveva costruito suo padre per scendere dalla piccola collinetta che costeggiava il sentiero in ghiaia. Molte volte, infatti, verso la fine dell’inverno, il temibile pupazzo di neve era stato demolito così: investito dallo slittino di Novaretti.

    Sua madre lo sgridava sempre, dicendogli che si sarebbe rotto l’osso del collo.

    I ricordi svanirono non appena spostò gli occhi sulle recinzioni in filo spinato e sulle torrette di guardia, con i soldati tedeschi armati di mitra.

    I militari della Wehrmacht, responsabili del campo, giravano in lungo e in largo sorvegliando tutto e tutti. Sembrava proprio che ci provassero gusto nel tormentare i prigionieri.

    Impettiti nei loro pastrani, a volte accompagnati dai cani lupo altre volte no, cercavano ogni minimo pretesto per punire chi era sotto il loro tiro.

    Soprattutto quelli del loro baraccamento.

    Del resto, nella scala sociale, gli italiani stavano appena sopra ai russi.

    Erano invisi anche agli altri prigionieri, soprattutto ai francesi, ma anche agli inglesi e agli americani. I primi per quello che secondo loro era stato il vile e vigliacco attacco del 1940, a conquista tedesca già avvenuta; nella loro ottica, era stato infierire su un corpo morente.

    Gli altri due, gli inglesi e gli americani, invece, erano meno incattiviti, ma recalcitranti a socializzare e solidarizzare, in quanto nemici sin dall’inizio della guerra.

    I tedeschi, ovviamente, li odiavano per il tradimento dell’8 settembre.

    Insomma, la vita nel campo era stata difficile sin da subito, per diventare in seguito anche più dura. Però era risaputo che poteva andare peggio.

    Negli stalag per sottufficiali e soldati semplici c’era il lavoro coatto nelle industrie belliche e nelle miniere. Novaretti invidiava gli ufficiali americani, che intravedeva dal vetro.

    In un piccolo spazio, a giocare ancora a baseball sotto alla neve. Altri correvano per tenersi in esercizio, altri ancora discutevano di chissà quale argomento. Sempre scanzonati e vivaci di natura, certi giorni sembrava che la loro prigionia fosse più simile a una vacanza.

    Poi guardò verso il cortile dove c’erano i suoi compatrioti.

    Il tenente Duiso cercava di dare da mangiare qualche briciola di pane al topolino che nascondeva sotto alla giacca. Le guardie gliene avevano già uccisi due, crudelmente, a colpi di baionetta.

    Questo terzo l’aveva chiamato Puccio.

    Il sottotenente Esposito stava raccontando una delle sue solite barzellette al capitano Osi e al capitano di vascello Masu, gli unici che lo ascoltavano, perplessi.

    Il generale Alberini de Magonti, nobile e colto, era in un angolo. Seduto su una cassa di legno, con un diario sulle gambe, a scrivere le sue interminabili memorie di guerra.

    Era anziano, avrebbe potuto benissimo stare dentro, ma preferiva scrivere in mezzo ai suoi soldati. Diceva che giovava alla sua opera.

    E pensare che quell’uomo, pittoresco e definito da tutti un po’ matto, era uno di quelli che aveva dato più filo da torcere agli inglesi in Egitto e in Libia.

    Nella camerata, lunga e stretta con tutti i letti a castello, c’erano altre persone.

    Tra di essi, spiccava il tenente Rogalio, che era appena rientrato dall’infermeria. Aveva portato con sé tremende notizie: il capitano Solceti e il guardiamarina Brambini non ce l’avevano fatta. Erano morti, rispettivamente per polmonite e dissenteria.

    Non era un mistero che il cibo facesse schifo, sia per come era conservato che per le misere quantità, e che il freddo stesse logorando un po’ tutti. Nonostante questo, la notizia aveva avuto un certo effetto perché erano i primi due morti, della loro baracca, dopo Moravici.

    Fernando Moravici, un giovane ufficiale dell’Aeronautica, una notte di fine ottobre era uscito e si era messo a correre. Urlava, si vedeva che non era in sé.

    Soffriva di depressione, conseguenza delle rovinose battaglie aeree nei cieli dell’Africa Orientale, e di alcolismo. Tutti quelli della baracca avevano fatto di tutto per far sì che non fosse giustiziato o, peggio ancora, mandato in un lager come malato mentale.

    Chiamava sua madre.

    Mamma! Mamma! Arrivo! Arrivo! gridava.

    Non si sapeva come avesse fatto, ma aveva tagliato la rete della baracca e abbandonato un tronchese per terra. Si era ritagliato una sagoma per fuggire e aveva evitato le guardie.

    A terra c’era una piccola tanica, di quelle usate per trasportare liquidi alla rimessa dei veicoli o in infermeria, con delle piccole pozze che bagnavano il pavimento. Distillato, molto probabilmente di contrabbando, frutto di chissà quali scambi, o rubato; Moravici lo doveva aver mischiato con le sue medicine.

    Novaretti, noncurante del pericolo, aveva provato a inseguirlo. A fermarlo.

    Correva, con una sensazione di bruciore ai polmoni, anche se Moravici aveva un netto vantaggio. Era stato Fresi, quello che dormiva sopra al letto di Novaretti, che aveva dato l’allarme.

    Le urla per dissuaderlo non servivano e le discussioni su chi fosse il più adatto per provare a salvarlo sembravano inconcludenti.

    Così Novaretti era uscito dalla porta ed era partito.

    Ma, prima che potesse raggiungerlo, le urla di Moravici avevano già messo in allerta i sorveglianti e svegliato i prigionieri.

    Quando ormai Novaretti era a pochi passi, si era dovuto fermare. I tedeschi avevano già incominciato a sparare.

    L’avevano fatto con cattiveria inutile, colpendolo prima alle gambe e poi alle braccia, con i proiettili del fucile.

    Una volta che Moravici era a terra e strisciava, dolorante, erano arrivati i soldati con il mitra e l’avevano falcidiato.

    Poi avevano puntato i mitra verso Novaretti, ma non avevano sparato. Solo in quel momento, Novaretti si era reso conto che i suoi commilitoni erano dietro di lui.

    Immobili e fermi, nonostante fossero circondati da guardie.

    Senza il bisogno di dire una parola, Novaretti si avvicinò in mezzo alle grida, i tentativi di respingerlo dei tedeschi e il fuoco dalle torrette che colpiva il terreno a ogni suo passo.

    Un urlo di un alto ufficiale li dissuase dall’andare avanti a perpetrare quel gesto.

    Il generale Selvesterein, in pigiama, aveva ordinato ai suoi uomini di desistere e di cessare il fuoco. Aveva capito cosa voleva fare Novaretti.

    Non era un tentativo di rivolta o di fuga.

    Si era avvicinato al corpo. L’aveva preso in braccio e, in religioso silenzio, aveva fatto dietrofront.

    Seguito dal crocchio dei suoi camerati della baracca B, si era diretto verso l’apertura nel filo spinato e poi verso la porta aperta della camerata.

    Qualche timido applauso era arrivato dalle altre sezioni del campo. Ormai, gli altri prigionieri erano usciti dalle loro baracche e guardavano dalla rete quello che stava succedendo.

    I timidi applausi erano diventati, gradualmente, scrosci. Quella notte non c’erano rancori o dissidi.

    Erano tutti prigionieri e basta. Un’eccezione di umanità non del tutto scontata come potevasi pensare.

    Prima di rientrare, il generale Paceco aveva parlato con il suo omologo.

    Selvesterein, comandante del campo e uomo corretto, più vicino alla logica militare di Von Paulus e Rommel, aveva pagato cara quella concessione. Probabilmente punito da una spia interna alle sue guardie, era stato sostituito qualche giorno dopo dal generale Wittgenstauer, un fanatico severo ed estremista, di origini dell’Austria settentrionale come il suo Führer.

    Così il trattamento, se era possibile, era peggiorato ancora di più.

    Ma loro prigionieri, almeno per quella notte, non avevano avuto ulteriori problemi.

    Fino all’alba avevano potuto vegliare il loro defunto amico.

    CAPITOLO 2

    Ormai avevano gran parte della mattinata libera.

    C’era stata la conta e la colazione. I cancelli erano stati aperti e, escludendo alcune zone del campo vietate ai prigionieri, potevano muoversi liberamente.

    Non era mancata l’ennesima richiesta, durante la conta, di aderire alla GNR e tornare in Italia a combattere per la patria. Nessuno aveva aderito.

    Novaretti stava valutando se uscire o meno. Aveva una partita di scacchi in sospeso con il tenente generale Tyuschenko, oppure avrebbe potuto andare verso la baracca F dei polacchi e continuare la discussione, fermata la sera precedente dalla chiusura e dallo spegnere le luci con il tenente Portuzek e il capitano Slovsky sul campionato mondiale di calcio del 1938.

    Loro sostenevano che la vittoria del Brasile al primo turno sulla loro nazionale era stata un puro caso fortuito. Affrancavano le loro tesi con il fatto che la Polonia, durante quella partita, aveva pareggiato per ben cinque volte.

    Novaretti ribatteva che il Brasile aveva vinto perché era più forte, considerando lo stato di grazia in cui si trovava il loro fuoriclasse, Leonidas, che in quella partita aveva segnato ben tre gol. Nonostante lo stato del campo, pesante per la pioggia e avverso al calcio spettacolo da loro praticato, i brasiliani avevano vinto per sei a cinque e avevano eliminato la Polonia agli ottavi di finale.

    Il discorso, probabilmente, sarebbe proseguito su altri ambiti sportivi in cui raffrontare le loro nazioni.

    Il francese e l’inglese erano le principali lingue d’interazione all’interno del campo.

    Si girò e guardò tra le sue cose. Aveva piegato la sua divisa dell’esercito, con appuntate la croce di guerra e la medaglia d’oro al valore militare, e l’aveva deposta sulla branda. Insieme a esse, si sommavano le due croci di ferro nazista, di prima e seconda classe, oltre alla croce di cavaliere della croce di ferro.

    Le prime due gli erano state conferite dal generale Alexander Löhr per il suo comportamento eroico durante le battaglie della Neretva e della Sujetska. La seconda dal generale Joseph Sepp Dietrich per aver provveduto, con i suoi uomini, al salvataggio di un unità delle SS del colonnello Artur Phleps, dispersa e circondata dai partigiani di Tito in Montenegro.

    Il colonnello, notoriamente critico verso il Regio Esercito di stanza in Jugoslavia, era rimasto stupito e aveva ammesso che alcuni maccaroni erano utili alleati in guerra.

    La cerimonia era avvenuta a Zagabria. Dietrich, di passaggio, aveva fatto le veci di Himmler. Novaretti era stato premiato in mezzo ad altri sconosciuti, tra croati e tedeschi.

    Era curioso considerare come l’otto settembre avesse cambiato tutto. Il fatto che lui avesse tenuto le medaglie sulla divisa, senza che nessuno gli dicesse nulla o lo trattasse meglio, identificava com’era la situazione: quando i nazisti non li odiavano per il tradimento, si limitavano a ignorarli.

    Lui, in fondo, non si riconosceva nella grandezza immortale delle medaglie che aveva ricevuto. Sapeva il sangue, anche innocente, che era stato versato durante la campagna nei Balcani. Lo aveva visto con i suoi occhi e ne era stato complice diretto.

    Affiancati c’erano i pantaloni, il berretto della tenuta e una foto, in una cornice di poco valore.

    Anna si era fatta riprendere con in braccio Linda. Quella foto risaliva a quasi due anni fa.

    La sua bambina stava crescendo e lui erano ormai tre anni che non la vedeva. Da prima dell’invasione della Grecia.

    Era bella, come sua mamma.

    I lunghi capelli di quel biondo ramato, con quelle tracce di castano. E quel sorriso semplice, genuino, anche se appena accennato, in mezzo alle lentiggini che le abbellivano il viso.

    Anna si sforzava di sorridere, anche se Novaretti sapeva che non era naturale. La sofferenza le si leggeva negli occhi e nelle pieghe del viso.

    Del resto, era stata di Novaretti l’idea di non andarle a trovare per le licenze, durante il conflitto. Non se ne era fatto assegnare nemmeno una.

    Le cedeva tutte ai suoi soldati.

    Aveva il terrore che, una volta viste, non sarebbe più riuscito a tornare indietro. O che, se fosse tornato, si sarebbe fatto ammazzare per disattenzione.

    In alcune cose, preferiva così, senza mezze misure. Non c’era spazio per il grigio.

    Allora, in modo molto autolesionistico, preferiva non vederle.

    Riceveva le lettere di sua moglie, a volte delle foto, ma non voleva vederle direttamente. Quando poteva, rispondeva sempre e cercava di tranquillizzarla.

    Sua moglie insisteva, ma lui era irremovibile.

    Nell’ultima settimana, se ne era pentito. Sapeva che stava facendo del male anche ad Anna e questo era qualcosa che, piano piano, aveva realizzato.

    Sentiva quasi le parole scritte nella lettera che prendevano viva voce.

    Vuoi davvero che l’ultima immagine che hai di noi sia un addio?

    Quella mattina si era sentito di tirare fuori dai suoi effetti personali l’unica immagine in cui comparivano tutte due.

    Prese in mano la cornice, tolse la foto e la strinse tra le mani.

    Era come se avesse un presentimento.

    CAPITOLO 3

    Pensieri, Rocco?

    Era la voce del generale Paceco. Una voce profonda, ma sempre raffinata e quasi tranquillizzante.

    Novaretti si voltò.

    Ildefonso Maria Paceco, generale di quasi settant’anni, stava leggendo un libro, sdraiato sulla sua brandina.

    Aveva origini uruguaiane da parte di padre, siccome i suoi avi erano vissuti in Sudamerica per alcune generazioni. Il suo cognome aveva perso la h tra la c e la e quando i suoi nonni e il suo futuro padre avevano lasciato Paysandù per tornare a vivere nei pressi di Cuneo, la terra da cui erano partiti i loro antenati. Pacheco era stato italianizzato in Paceco.

    Eroe della Grande Guerra, reduce dalla campagna di Russia, era stato catturato nei mesi seguenti al suo ritorno in Italia. Dopo l’otto settembre, mentre rientrava a casa, una tenuta sui colli piemontesi, era stato catturato dai tedeschi e spedito in Germania con il primo convoglio.

    Si sospettava che fosse in contatto con l’esercito di Badoglio per fuggire verso Brindisi e aderire alla lotta contro l’invasore nazista.

    Un abile stratega, molto ferrato sulla tattica militare e la storia delle battaglie dell’antica Roma.

    Sicché, il libro che stava leggendo, parlava proprio di guerra. Anche se fuori dalla sua epoca preferita.

    Era una versione italiana di un’opera di Carl Von Clausewitz, un generale tedesco vissuto all’epoca di Napoleone Bonaparte.

    "Della Guerra," si intitolava.

    Paceco aveva il viso nascosto dietro al volume, ma evidentemente aveva sbirciato, osservando cosa faceva Novaretti.

    Sì, generale, rispose Novaretti, sincero.

    Paceco chiuse il libro in modo molto plateale, si abbassò gli occhiali da vista sul naso e lo guardò.

    Familiari?

    Novaretti, dopo qualche secondo, gli porse la foto.

    Mia moglie e mia figlia, le presentò.

    Il generale sorrise: Quanti anni avrà la bambina? Quattro?

    In quella foto sì. Ne ha fatti sei a maggio di quest’anno.

    Come si chiama?

    Linda.

    Linda... ripeté il generale, un bel nome per una bella bambina. Gli restituì la foto.

    Io ho due nipoti, Pietro e Simone. Due manigoldi, non vi dico quante marachelle che combinano, però almeno mi rallegrano un po’ la vita. Sono un po’ più grandicelli della vostra bambina. Io e mia moglie Ersilia li viziamo, anche se mio figlio e mia nuora ci sgridano. Ma che ci volete fare? I nonni servono a questo.

    Non vi preoccupate. Mia madre e mia suocera fanno lo stesso con Linda. È normale.

    Il fatto è che me li portano così poco, santo cielo! A me, quando arrivano, sembra di ringiovanire. Quasi come se potessi tornare bambino ed essere un loro complice, un compagno di giochi, un fedele alleato nella loro piccola e innocente guerra ai genitori...

    Si incupì: Mancano molto anche a me, vi confesso. Spero di poter superare questa brutta esperienza per vederli ancora...

    Certo, generale. Non ditelo manco per scherzo.

    Eh, non lo so, caro Rocco. Ormai sono vecchio, il mio cuore non è più quello di una volta. Mi dispiace solo che, con la guerra, li ho potuti vedere ancora meno di quello che volessi. Ero sempre in giro... prima in Etiopia, poi in Dalmazia e infine in Russia.

    Vedrete che ce la farete.

    Speriamo...

    Novaretti cambiò discorso: Dov’è andato Fresi? chiese, indicando la brandina vuota sopra di lui.

    E voi lo sapete? Quel gaglioffo è scomparso stamattina. Diceva che aveva certi giri...

    Paceco mimò il gesto di un furto con la mano.

    Blaterava che se andava tutto bene avremmo avuto caldo per un mese. Indicò la stufa a carbone.

    Novaretti scosse la testa, sorridendo.

    Il tenente Antonio Totò Fresi era sempre così: coinvolto in oscure e losche trattative che conosceva solo lui.

    Diceva che la sua arte di contrattare e affabulare l’aveva imparata al mercato della Vucciria, a Palermo, dove suo padre e i suoi fratelli avevano il banco di pesce più bello di tutta via Roma.

    Nel loro baraccamento riusciva a procurarsi di tutto, dalle sigarette all’olio per motori.

    Se quello che aveva dedotto il generale era giusto, Fresi stava cercando del carbone per la stufa. I tedeschi lo centellinavano e loro erano spesso vittime di un gelo quasi mortale.

    Auguriamoci che almeno non torni a mani vuote.

    Ah, Rocco! Io dopo la Russia non mi lamento più di niente.

    Nemmeno io.

    Novaretti si ricordava il freddo dei monti greci, di quello che ti penetrava nelle ossa e non usciva più.

    Come se avesse percepito di essere stato evocato, il tenente Fresi comparve sulla porta della camerata, con un sacco sulle spalle. Si muoveva veloce e circospetto.

    Arrivò verso di loro e fece segno di vittoria con la mano.

    Ce l’hai fatta, eh, Totò?

    Sì, maggiore. Almeno per un po’ staremo meglio, anche se ho fatto fatica a evitare i controlli dei crucchi. Alla fine, il tenente Van Beender ha ceduto e mi ha dato un sacco del loro carbone per qualche moneta d’argento, due bottiglie di vino e un salame.

    Il tenente Van Beender era della baracca dei prigionieri olandesi.

    Novaretti supponeva che buona parte dei traffici di Fresi fossero derivati dal suo impiego volontario in cucina, come inserviente e cuoco occasionale. Questo avrebbe spiegato la presenza delle bottiglie di vino e del salame, considerando che i pacchi che arrivavano dalla Croce Rossa spesso erano molto meno consistenti e non avevano prelibatezze del genere. Quando lo erano, i tedeschi si prendevano la merce migliore e relegavano ai prigionieri le rimanenze.

    Fresi, da quello che diceva, riusciva ad avere accesso ai magazzini del piccolo spaccio esclusivo per i gestori del campo. Non si sapeva come, ma era riuscito anche a mantenere i suoi privilegi perfino con la nuova gestione del campo.

    Tirò fuori un pacchetto di sigarette Pall Mall e le lanciò a Paceco.

    Tenete, generale. Non sono i vostri cari toscani, ma meglio di niente.

    Grazie, Antonio. Li fece sparire sotto al cuscino.

    Poi si rivolse a Novaretti: Non mi sono dimenticato di voi, maggiore. Ecco qui.

    Gli porse un pacchetto di Lucky Strike: Queste vengono direttamente dal colonnello Bowers.

    Ah, ottimo. Ringrazialo da parte mia.

    Francis Richard Bowers, colonnello dell’esercito americano. Un uomo del sud, per la precisione di Frankfort nel Kentucky, simpatico e allegro. Uno dei pochi americani che cercava di fare comunella.

    Aveva aiutato il colonnello a scrivere una lettera a sua moglie e un’altra per suo figlio. Bowers era un uomo poco propenso per la scrittura, diceva che si trovava più a suo agio con i fatti che con le lettere e non sapeva da che parte iniziare. Novaretti gli aveva dato una mano, conoscendo bene l’inglese, a esprimere i propri sentimenti.

    Da quel momento, per quello che poteva valere in un campo di prigionia, erano diventati amici. Era riuscito anche a ricevere segni di rispetto da altri prigionieri americani, grazie alla mediazione di Bowers.

    Novaretti fece sparire il pacchetto sotto al maglione che indossava.

    Videro il sottotenente Esposito che corse dentro, seguito da tutti gli altri.

    "Presto! Arriva o’ scarrafone!"

    Quelli che erano fuori rientrarono tutti a rotta di collo.

    Duiso fece sparire Puccio in un pertugio, dentro il muro, coperto da una stampa religiosa.

    Fresi fece rotolare il sacco sotto la brandina di Novaretti.

    Si allinearono tutti sugli attenti.

    Se mi beccano, qui siamo tutti fottuti! sussurrò Fresi.

    Stai tranquillo. Non possono fare un’ispezione. L’hanno già fatta l’altro ieri. È improbabile.

    E chi glielo vieta, maggiore? Sono loro che comandano.

    A questo, Novaretti non sapeva cosa rispondere.

    Il colonnello Lusanke, accompagnato da due sentinelle che imbracciavano un MP40, si diresse spedito verso il fondo della baracca.

    "Ecco, vedete, maggiore? E adesso che minchia facciamo?"

    Stai calmo, Totò. Qualcosa ci inventiamo.

    Arrivati davanti alla branda di Fresi e Novaretti, Lusanke fece qualche passo avanti e poi tornò indietro. Si fermò di fronte a Novaretti.

    Vestitevi, Novaretti, mettete la vostra divisa ufficiale. Il generale Wittgenstauer vi vuole nel suo ufficio. Immediatamente.

    CAPITOLO 4

    L’ufficio del generale Wittgenstauer era isolato rispetto a tutti i baraccamenti. Si trovava nella zona adibita ad abitazione per il personale del campo.

    Erano delle costruzioni molto tradizionali. In legno o in cemento, a più piani, ospitanti una moltitudine di persone in condizioni igienico-sanitarie nettamente migliori rispetto ai prigionieri.

    La costruzione dove si trovava Wittgenstauer era a un piano solo, con l’amministrazione al piano terra. Vi si accedeva da un muro alto e rinforzato con del filo spinato all’estremità; era sorvegliata da guardie nelle torrette e una guardiola con una barricata di ferro a bloccare il passaggio, alzata manualmente con una manovella.

    Il generale viveva al primo piano, in un appartamento grande e spazioso di cinque stanze.

    Non aveva mai tenuto delle feste nel suo alloggio. Qualche volta riceveva la sua famiglia o qualche alta carica del comando nazista.

    Di solito, quando il personale voleva divertirsi, era invitato a dei ricevimenti nei dintorni. Alcune volte, si sussurrava, avevano dei veri e propri bordelli personali.

    Donne catturate in altri paesi, spedite in Germania come fossero merci e costrette a prostituirsi in dei postriboli per militari. Polacche, in genere, o ucraine e bielorusse.

    Una pratica triste e disumana, retaggio della guerra d’invasione.

    Novaretti aveva visto le stesse cose in Grecia e in Jugoslavia, quindi sapeva che era tutto vero ed esistente, non semplici voci di corridoio.

    Una scala di legno a tre gradini introduceva alla porta.

    Ai lati non c’era nessuno, solo i soldati della Wehrmacht che camminavano per il cortile.

    Novaretti era costretto a camminare tra le due guardie, dietro a Lusanke.

    Una volta arrivati negli ultimi dieci metri, Lusanke alzò un braccio.

    Non ti muovere. Era passato al tu.

    Le due guardie gli misero, rispettivamente, la mano destra e la mano sinistra sui bicipiti e li strinsero.

    Lusanke andò a parlare con uno dei soldati alla sbarra di ferro. Ebbero un breve dialogo, concluso con il saluto nazista.

    Il soldato, allora, fece un segno al suo collega e la barriera di ferro iniziò ad alzarsi lentamente, fino a risultare totalmente sollevata.

    Lusanke tornò indietro: Da questa parte, seguimi.

    Una delle guardie diede uno spintone a Novaretti, che ricominciò a camminare.

    Il passo era pesante per via della neve, nonostante il passaggio fosse stato fatto da alcuni prigionieri norvegesi, offertisi volontari. Le montagnole che erano cadute, infatti, erano state ammassate contro le mura.

    A testimonianza del lavoro fatto c’era una pala, abbandonata in un angolo, appoggiata alla parete.

    Lusanke proseguì spedito, tanto che Novaretti fu costretto ad accelerare il passo, tallonato dai suoi carcerieri.

    Quando furono davanti alla porta, chiusa, le due guardie si fermarono e trattennero Novaretti.

    Lusanke avanzò e bussò. Entrò e si chiuse la porta alle spalle.

    Passarono circa cinque minuti, nei quali le due guardie non dissero niente. Quella di destra si era accesa una sigaretta, rimasta a metà, ma sempre preziosa. Il fumo iniziò a vorticare nell’aria, mescolandosi al vento freddo della stagione.

    Lusanke uscì e fece segno a Novaretti di avanzare.

    Le due guardie rimasero immobili, come statue.

    Novaretti si avvicinò.

    Puoi entrare, ma vedi di non fare scherzi, lo ammonì, qui fuori è tutto sorvegliato e come provi anche solo a toccare il colletto inamidato del generale, ti ammazziamo.

    Per accertarsene, Lusanke tirò un pugno allo stomaco di Novaretti. Il maggiore lo incassò, piegandosi e toccandosi il punto colpito; aveva emesso a malapena un sibilo.

    Siamo intesi, fottuto porco italiano?

    Novaretti riassunse una posizione eretta. Il colpo era stato abbastanza forte e lui si era sforzato di attutirlo, nonostante il suo fisico, resistente di natura, fosse stato indebolito dall’ultimo mese della mensa del campo.

    Di sicuro in cucina non c’era Pellegrino Artusi.

    Ma non era per quel motivo che il pugno di Lusanke aveva dato più fastidio del previsto.

    Il tutto era dovuto al mese precedente. I nazisti avevano disposto un torneo di boxe tra prigionieri.

    Novaretti era stato il rappresentante degli italiani, nonostante le sue stesse proteste.

    Era il benvenuto al generale Wittgenstauer e al suo stato maggiore.

    Il torneo partiva dai sedicesimi, per un totale di cinque incontri. Il vincente avrebbe sfidato Karel Hubert, una guardia nazista alta più o meno un metro e novantadue. Prima dell’arruolamento nell’esercito, Hubert aveva messo in difficoltà persino Max Schmeling, in un incontro tenutosi a Norimberga, nel 1932.

    Ebbene, Novaretti aveva vinto il torneo dei prigionieri. Aveva buttato giù Bertinot, un capitano francese, poi il tenente Mulberry degli inglesi, il maggiore Kolciak dei russi e, in finale, il colonnello MacDonald degli americani.

    MacDonald era stato l’osso più duro. Anni prima era stato campione regionale e nel giro del titolo mondiale dei pesi massimi, prima dell’avvento di James Braddock e Joe Louis.

    Un mezzo irlandese, con precedenti nella polizia di New York, grande e grosso.

    C’era stato un giro di scommesse, tutte sfavorevoli a Novaretti e agli italiani. In palio, per i prigionieri, c’era una settimana di doppia razione alla mensa, sigarette e barrette di cioccolato, oltre all’oggetto più richiesto: fotografie di donne nude in abbondanza.

    Il tutto sarebbe stato consegnato solo se il prigioniero che avesse vinto il torneo avesse anche resistito almeno quattro riprese con il gigante della Renania.

    Novaretti non solo aveva resistito alle botte di Hubert, ma l’aveva anche buttato giù al dodicesimo round, con un montante che si era sentito rimbombare per tutto il campo.

    Nonostante fossero anni che non boxava, gli era salito un orgoglio patriottico e quella sensazione, che banalmente gli esperti chiamano cuore, da cui il combattere bene e le nozioni di tecnica erano riemerse da sé.

    Aveva finito l’incontro tutto rotto. Hubert picchiava come un fabbro ferraio e lui aveva cercato di difendersi e di contrattaccare nei momenti giusti. Nonostante questa tecnica attendista, il tedesco tirava certe legnate che sembravano mozzargli il fiato e spaccargli le ossa con ogni colpo. La sua vittoria, inattesa ed eccitante, aveva fatto sì che fosse portato in trionfo da tutti i suoi compatrioti, tra i fischi dei tedeschi e il rispettoso silenzio degli altri prigionieri.

    Ovviamente, non era arrivato niente di tutto quello che avevano promesso.

    Le vecchie guardie non pensavano certamente di fare una figuraccia così evidente con il nuovo comandante. Molti avevano perso soldi.

    Le razioni vennero quasi dimezzate, le sigarette furono bandite e le fotografie erotiche rimasero nella camera oscura di qualche fotografo. Nemmeno Fresi aveva potuto procurarsi qualcosa di più del dovuto.

    In compenso, Novaretti venne riempito di botte in un angolo buio del campo. Accettò il pestaggio in silenzio: erano troppi per stenderli e il difendersi avrebbe solo aggravato la sua posizione, oltre a quella dei suoi commilitoni,

    Ci mise diversi giorni prima di tornare ad alzarsi dal letto. Dopo due settimane, seppur acciaccato, era tornato a muoversi come prima. I prigionieri non avevano più parlato del torneo, come se non fosse mai avvenuto.

    Adesso stava bene, ma sarebbe stato meglio se quel nazista non gli avesse tirato quel cazzotto.

    La stima e il rispetto crescente dei prigionieri di altre nazionalità verso Novaretti erano aumentati anche grazie a quello.

    Dopo aver ricevuto il colpo, fece come dopo il pestaggio delle guardie. Annuì soltanto alla domanda retorica di Lusanke.

    Poi aprì la porta ed entrò.

    CAPITOLO 5

    L’ufficio di Wittgenstauer era più comune di quello che sembrava. Vi si poteva entrare oltrepassando un lungo corridoio, sul cui pavimento era stesa una moquette rossa.

    Lo spazio era molto stretto nel corridoio, circa tre passi, tant’è che ci si poteva quasi scontrare tra dirimpettai degli uffici. Tutto questo perché le stanze, adibite alla gestione amministrativa del campo, erano occupate da numerosi civili e vari militari.

    Nell’edificio si trovavano l’ufficio matricole, l’accettazione e l’archivio storico del campo.

    L’Oflag 523 era stato aperto già nel 1940 per ospitare i prigionieri polacchi e francesi, a cui poi si sono aggiunti tutti gli altri.

    Oltre a essi, c’era anche un piccolo ufficio postale autonomo, munito di telegrafo. Serviva per mantenere le comunicazioni con Berlino e gli altri campi del Reich.

    Secondariamente, in tutti i sensi, era il posto dove arrivavano i pacchi della corrispondenza per i prigionieri e quelli della Croce Rossa Internazionale.

    Il famoso spaccio era in un altro edificio, a metà strada tra l’alloggio del comandante del campo e quelli degli altri ufficiali responsabili.

    Un sergente lo stava aspettando sulla soglia dell’ufficio, rigorosamente chiusa da una porta in legno pregiato. Bussò e ottenne risposta affermativa.

    Poi, aprì la porta e fece segno a Novaretti di entrare.

    Dopo che ebbe oltrepassato la porta, la sentì richiudersi alle sue spalle.

    Il generale Wittgenstauer era in piedi dietro la scrivania. Di media statura, robusto e con i capelli pettinati in modo rigoroso, di un grigio candido, come i baffetti.

    Gli occhi vivaci, un po’ acquosi ma sempre in movimento, stavano osservando Novaretti. Indossava la sua divisa ufficiale, la quale emanava un vago profumo di amido.

    Sedetevi, maggiore, ordinò, indicando una sedia di fronte alla scrivania. Il tono non ammetteva repliche, ma non era nemmeno così severo come lo era stato altre volte.

    Novaretti ubbidì. Si guardò intorno.

    Ammirò la condizione dell’ufficio.

    La stanza era ampia. Vi si arrivava dopo altri tre gradoni in legno, costruiti subito dopo la porta.

    Era riscaldata, in autunno, da un camino sempre rifocillato puntualmente con legna dei boschi limitrofi. In quel momento, era spento.

    Oltre a esso, una stufa a carbone serviva per le stagioni più rigide e per temperature più basse, come quella.

    Dei cannoni in ferro trasportavano il calore anche al piano superiore, dove viveva il generale.

    Tuttavia, era stranamente vuota. Fin troppo spartana, con un gran senso di spazio inutilizzato o sprecato.

    A parte quegli elementi, infatti, non vi era nulla, a parte qualche quadro alle pareti, rubato da chissà quale collezione privata di ebrei francesi, e una finestra che dava sul panorama oltre al campo.

    Un piccolo sentiero che portava a un bosco, superato il quale dovevano esserci minuscoli villaggi e centri abitati.

    Solo un armadietto e un appendiabiti, sulla destra della scrivania. E l’immancabile fotografia di Adolf Hitler, affiancata dalla cartina militare delle operazioni sul fronte orientale.

    Novaretti sospettava che le bandierine con la svastica, disposte in maniera fin troppo magniloquente e ottimistica, fossero poco aggiornate.

    Wittgenstauer, infatti, aveva combattuto su quel fronte. Paceco aveva raccontato che il generale aveva partecipato all’invasione della Polonia e al grande piano d’invasione dell’Unione Sovietica.

    Per questo era così duro, oltre che con gli italiani, con i sovietici e i polacchi.

    Come vi trovate al campo? chiese, con tono palesemente falso.

    Novaretti vide che armeggiava con due soli fogli sulla scrivania, affiancati a un fascicolo sulla cui copertina si leggeva un numero di matricola.

    Brutto segno, si disse.

    Benissimo, rispose, cercando di nascondere il sarcasmo. Si morse la lingua per non aggiungere che voleva portarci la sua famiglia a soggiornare in inverno, per la stagione sciistica, non appena la guerra fosse finita.

    Il generale annuì: Vi trattano bene le guardie? Avete avuto qualche problema?

    No.

    Non siete un soggetto facile da ammansire, lo ammetto, affermò.

    Si mise degli occhiali da lettura e sfogliò il fascicolo, in silenzio.

    Eppure, aggiunse, dopo qualche minuto, siete un ottimo soldato e un buon fascista, da quello che leggo. Lo chiuse.

    Avete combattuto bene, nelle campagne nelle quali il vostro esercito è stato impegnato. Le medaglie che avete conseguito, anche da parte della mia nazione, lo dimostrano. Non fosse per quella questione del generale Osso...

    Novaretti ribatté subito: È stato un incidente.

    La fate facile, mio caro maggiore. Avete ucciso un vostro superiore.

    Non era mia intenzione, generale. Vi ripeto che è stata una tragedia. È avvenuto tutto troppo velocemente, non ho potuto valutare al meglio la situazione in quel preciso momento. Non ho potuto pensare, mi sono limitato ad agire. I banditi ci avevano attaccato e si nascondevano ovunque, nel villaggio. Comunque, sono stato prosciolto da tutte le accuse.

    Sapeva bene che non era vera la versione degli eventi.

    Non era stato un incidente, ma i suoi l’avevano coperto perché detestavano Osso quanto lo poteva fare lui.

    Però, a sua discolpa, sapeva che non era nemmeno stato un atto deliberato e volontario.

    Si era limitato a difendersi.

    CAPITOLO 6

    Novembre 1942, villaggio di Kapobolivar, Montenegro

    La pioggia aveva iniziato a scendere in maniera scrosciante. Il generale Osso ordinò di fermarsi.

    Vucci, Pajano, Sellera, Bizonti, Fullicoli. In avanscoperta.

    I cinque soldati si incamminarono.

    Kapobolivar si raggiungeva superando un pineto, dopo una ripida salita e una strada, ai piedi di un massiccio più

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