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Quell'estate del '48: 1948: il dopoguerra del Commissario Novaretti
Quell'estate del '48: 1948: il dopoguerra del Commissario Novaretti
Quell'estate del '48: 1948: il dopoguerra del Commissario Novaretti
E-book523 pagine4 ore

Quell'estate del '48: 1948: il dopoguerra del Commissario Novaretti

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Info su questo ebook

Agosto 1948.
L’ex commissario capo Rocco Novaretti esce da San Vittore, dopo tre anni di prigione per crimini di guerra e il rischio perenne della fucilazione.
Ritorna alla sua casa natia di Fabbrica Curone, dove lo aspetta la sua famiglia.
Mentre cerca di rifarsi una vita come falegname e scoprire qual è stato destino di suo zio Oreste, gli strascichi del conflitto civile sono ancora vivi e vegeti.
Oscuri individui lo rivorrebbero in servizio, date le sue violente abilità, per guadagnare potere nella gerarchia della neonata Repubblica.
Quando un ex comandante partigiano ed eroe locale viene trovato assassinato nella vicina Varzi, gli diventa impossibile non essere coinvolto nelle indagini.
In mezzo a nuovi scontri e proteste, dovrà dare il suo contributo per scongiurare un massacro annunciato.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2021
ISBN9788893782524
Quell'estate del '48: 1948: il dopoguerra del Commissario Novaretti

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    Anteprima del libro

    Quell'estate del '48 - Matteo Tamburelli

    Prima parte

    Prologo

    12 agosto 1948

    Il portone del carcere di San Vittore si aprì, facendo entrare nell’edificio i caldi raggi di sole di quella prima mattinata di un giorno d’estate.

    Due guardie scelte, armate di mitra, erano appostate ai lati.

    Un maresciallo degli Agenti di Custodia accompagnava tre detenuti; epiteto che gli sarebbe rimasto ancora per pochi secondi, dato che quella era la data ufficiale del loro rilascio. Avevano già firmato tutte le carte, ritirato i loro miseri oggetti personali e si erano accomiatati dagli sciagurati compagni di cella che, sconsolati e immalinconiti, sarebbero rimasti all’interno di quel triste ritrovo di anime perdute.

    Il primo dei tre guardò a destra e a sinistra, poi vide una donna con una borsetta e lo sguardo commosso che lo aspettava dall’altro lato della strada, muovendo la mano in un gesto di saluto. Senza dire niente, attraversò e le corse incontro. Si abbracciarono stretti, si baciarono da bravi coniugi e si allontanarono il più velocemente possibile.

    Il secondo si girò verso il terzo.

    Sembra che per noi non ci sia nessuno, disse.

    L’altro alzò le spalle. Io sono a posto. Non mi aspettavano.

    Dopo qualche minuto, una Lancia Ardea sbucò da dietro l’angolo che faceva via Gian Battista Vico con piazza Gaetano Filangieri e si fermò a pochi metri dal portone. Strombazzò e l’autista fece un cenno con la mano.

    Ah, come non detto! Mio cugino...

    L’uomo si diresse verso la portiera sul davanti, poi si fermò. Si girò verso l’ex compagno e tornò verso di lui. Era dispiaciuto.

    Vuole un passaggio in Centrale?

    L’altro scosse la testa: No,no, vai pure tranquillo, Rodrigo. Io prendo il tram o magari faccio due passi. Ne ho bisogno.

    Come vuole lei. Allora, buona fortuna.

    Gli tese la mano e gliela strinse.

    Buona fortuna anche a te, ragazzo, rispose lui.

    Rodrigo aprì la portiera posteriore, buttò il suo fagotto e si sedette dalla parte del passeggero.

    Prima che la macchina partisse, salutò di nuovo. L’uomo ricambiò il saluto e osservò la Lancia sparire lungo viale Papiniano.

    Appoggiò il suo fagotto a terra, si frugò nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne estrasse una e se la mise tra le labbra.

    Poi, si tastò anche sul davanti della camicia, ma non trovò i fiammiferi.

    Il maresciallo lo raggiunse.

    Permette, commissario?

    Strofinò il fiammifero e lo aiutò ad accendersi la sigaretta.

    La ringrazio, maresciallo.

    Perché non ha accettato il passaggio? Sarebbe arrivato prima.

    Il maresciallo Antonio Rubinelli era un uomo robusto e gioviale, tra i pochi a trattare bene i detenuti. Bastava che ti comportassi secondo le regole e lui era corretto, altrimenti era anche capace di spaventarti e farti rigare dritto.

    Con le buone o con le cattive, un secondino alla vecchia maniera.

    Conosceva da più di vent’anni l’uomo a cui aveva offerto il fiammifero. Al contrario di molti altri detenuti, lo rispettava in modo quasi reverenziale e non riusciva nemmeno adesso, una volta avvenuta la sua uscita, a considerare che era stato un’unità di quell’inferno di poveri disgraziati che rappresentava la prigione.

    L’uomo sorrise: Preferisco così, maresciallo. Faccio due passi, mi schiarisco le idee, riassaporo un po’ di libertà di movimento e aria fresca.

    Quanti anni sono stati, commissario? Tre?

    Tre ai primi di maggio. Tre anni e tre mesi, più o meno.

    E sua moglie? Perché non è venuta ad aspettarla?

    Non gliel’ho detto.

    Vuole farle una sorpresa?

    L’uomo non rispose. Non sapeva se sarebbe stata una bella sorpresa.

    Rubinelli capì l’antifona. Fece il saluto militare e poi tese la mano.

    Lei è stato uno dei migliori detenuti che abbia avuto il compito di sorvegliare, commissario. Spero di rivederla in altre circostanze. Le auguro buona fortuna per la sua nuova vita da uomo libero.

    L’altro sorrise e ricambiò la stretta: Grazie a lei, maresciallo. Mi saluti sua moglie e i bambini.

    Il maresciallo guardò le spalle di quell’individuo, su cui una corda teneva il fagotto, allontanarsi lungo la strada.

    Rifletteva su chi aveva appena salutato. Un uomo intelligente, sempre corretto con lui e rispettoso, quasi alla totalità, delle regole scritte e non del carcere. Un collega, pericoloso e temuto, ai limiti dell’orrore; una leggenda, nel bene e nel male, all’interno della polizia, che usciva di prigione e se ne andava nell’anonimato. Gli veniva spontaneo chiedersi cosa ne sarebbe stato di lui.

    L’altro, Rocco Novaretti, camminava a passo svelto lungo piazza Filangieri.

    Gli faceva ancora strano sentirsi chiamare commissario.

    Non ci era più abituato.

    CAPITOLO 1

    Aprile/maggio 1945

    Dopo essere stato preso in carico dagli americani, non era stato portato direttamente a San Vittore.

    L’avevano fatto entrare in una caserma e fatto sedere all’altra estremità di un tavolo in ferro. Era stato interrogato in inglese per un’ora abbondante, poi era stato rinchiuso in una stanza.

    Un letto, una porta chiusa a chiave, una scrivania e una sedia. Sorvegliato tutti i minuti, nonostante i pasti regolari e i continui rifornimenti di pacchetti di sigarette; poteva uscire, accompagnato, solo per andare in bagno.

    Dopo una settimana, nella stanza era entrato un tenente. Si era scusato per il soggiorno forzato, ma l’aveva giustificato con la scusa della sua sicurezza personale.

    Nelle strade c’erano stati numerosi scontri a fuoco, tra le ultime resistenze nazifasciste e i soldati Alleati, aiutati dai partigiani. Inoltre, una personalità come Novaretti sarebbe stata messa al muro e fucilata, immediatamente.

    Una consistente parte del CLN lo voleva morto.

    Il nostro compito finisce qui, commissario, aveva enunciato il tenente Louis Jonas Parker. Da ora in avanti, lei non è altro che un comune prigioniero a carico delle patrie galere dello stato italiano. Si vesta e si prepari. Fra pochi minuti, una jeep la condurrà al carcere di San Vittore.

    La prima reazione fu di rabbia, dovuta alla cattività mai spiegata dai suoi salvatori-sequestratori. Aveva voglia di prendere quel ragazzino dai modi raffinati da college con una parlata degna dei migliori salotti di Manhattan, sbatterlo contro il muro e rompergli la faccia.

    Durò pochi secondi. Sopravvennero la ragione, il buonsenso e anche la rassegnazione della sconfitta.

    Il signor Minghi dice che non sarà facile, ma sta facendo tutto il possibile per tirarla fuori dai guai. Ci vorrà molto tempo, la invita a tenere duro. Al momento opportuno, le spiegherà tutto.

    Lui si limitò ad annuire e seguì, da bravo, i due soldati che lo scortarono a San Vittore.

    Fu messo nel braccio del carcere riservato a tutti i fascisti catturati. Venne accolto come un eroe, abbracciato e strattonato a destra e a manca.

    Lì apprese che era successo qualcosa a suo zio. Un milite della GNR gli disse che era stato prelevato da casa, portato in chissà quale posto e nessuno l’aveva più visto.

    Non gli seppe dire nulla sul destino di sua moglie e sua figlia.

    Visse per due settimane con la morte nel cuore, il panico che anche Anna e Linda fossero state vittime della foga vendicativa dei vincitori.

    Poi arrivò Minghi.

    Novaretti venne chiamato a colloquio e se lo trovò di fronte.

    Quel simpatico socialista genovese, a cui aveva salvato la vita dieci anni prima e che lo aveva appena ricambiato la settimana precedente. Era dall’altra parte del tavolo, con un sorriso tranquillo e l’aria provata da anni di lotta clandestina.

    "Caro Rocco, non sa come sono contento di vederla vivo e vegeto. Ne ero confidente, ma non troppo. Molte persone vogliono la sua morte, sia tra i miei compagni di partito che tra gli altri membri della Resistenza. Mi sono adoperato affinché ciò non avvenisse, ma anche i miei agganci sono fragili e corruttibili come quelli di chiunque altro, di questi tempi. Comunque, ora sono qui. Sono venuto per spiegarle la situazione e rispondere a tutte le domande che vorrà pormi. Io, nonostante le nostre divergenze di opinione politica, le sarò sempre grato e le devo la vita.

    Avrebbe potuto schiacciarmi come una pulce, invece ha avuto il coraggio di risparmiarmi, finendo lei stesso in una vita infernale. Ben pochi nella sua posizione avrebbero fatto tanto.

    Lei può avere sulla coscienza anche l’anima di mille persone, ma la mia l’ha salvata e io non posso che cercare di fare lo stesso con la sua. Ma ora, bando alle ciance! Ho da raccontarle molte cose e il tempo corre…"

    Iniziò dal punto dolente.

    Suo zio Oreste era stato ucciso. Il corpo non era ancora stato trovato, ma le sue fonti dicevano che i responsabili della sua morte erano dei partigiani comunisti provenienti dalla Val Borbera. Pagava il suo ruolo importante nel fascismo nazionale e quello dominante nella politica locale.

    Purtroppo, Minghi non aveva potuto fare niente per lui.

    Anna e la bambina stavano bene, invece, così come sua madre e sua suocera. Non c’erano accuse a loro carico ed erano al sicuro, nella loro casa del Mulino. Nessuno aveva in progetto di far loro del male. Erano fuori da ogni logica di vendette e Minghi si era già mosso affinché ciò avvenisse sul serio.

    Il politico lo aggiunse subito, con sollievo e gioia, allungando una mano oltre il vetro che li divideva. Era un pacco, ben confezionato.

    Come vede, non sono venuto a mani vuote. Anche io sono stato un detenuto e so bene cosa vuol dire essere lontano dagli affetti e dalla propria famiglia. Mi faccia solo il favore di aprirla dopo che me ne sarò andato, perché purtroppo i miei soldi hanno potuto comprare solo un’ora di colloquio riservato.

    Maffei, suo figlio Riccardo, le due donne che li avevano ospitati e Pitti si erano salvati. Nessuno aveva torto loro un capello.

    Pitti e Maffei avrebbero dovuto fronteggiare delle procedure disciplinari e una commissione per l’epurazione degli elementi fascisti dalla polizia, ma in poco tempo sarebbero ritornati al loro lavoro.

    Il discorso, ahimè, cambia per lei.

    Novaretti era finito nel mirino delle neonate Corti Straordinarie d’Assise, create per punire i responsabili di collaborazionismo con i tedeschi.

    I tribunali alleati degli anglo-americani non erano interessati a portare avanti accuse o processi, ma i suoi compatrioti sì.

    A loro si aggiungeva la giustizia ordinaria che aveva aperto fascicoli informativi sugli omicidi degli oppositori politici negli anni del Ventennio e sulle attività dell’OVRA.

    "Non sarà per niente facile, ma sto lavorando con gli americani affinché queste corti la salvino dal patibolo. Dovrà affrontare processi e, mi dispiace essere così franco, ma passerà qualche anno in galera. Se sarà fortunato, saranno pochi: tre, massimo cinque. Se avrà sfortuna, potrebbero essere di più. Tutto sta ai nostri liberatori e quanto riuscirò a contare nella lotta politica per il potere che si sta instaurando nel nostro Paese. Per adesso vengo ancora tenuto in considerazione e ascoltato nel CLN, gli anglo-americani sembrano essere dalla mia parte in questo arduo compito.

    Paiono molto interessati a fermare i comunisti dal prendere il potere e sono molto disponibili a rivalutare i vecchi ingranaggi, soprattutto nei gangli principali del potere occulto e della forza pubblica del vecchio regime. Questo ci favorirà.

    Dentro al nostro partito c’è chi è a favore ad allearsi con i comunisti e chi invece rivendica una nostra indipendenza. Non le dico cosa ne penso io, perché non è importante in questo momento.

    Per adesso, le procurerò un bravo avvocato e le farò avere la normale vita di un detenuto, anche se, mi dispiace essere monotono, nemmeno questo sarà semplice. Lei non passerà mai inosservato, Rocco. Tuttavia, se conosco qualcuno che può farcela, costui è lei."

    Andò via dieci minuti prima del previsto. Il secondino non lo richiamò subito; Novaretti capì immediatamente che non era un caso e ringraziò, con la mente, Minghi.

    Ebbe il tempo di aprire il suo pacco. Stava vivendo la stessa sensazione di quando suo zio lo venne a salvare dal campo d’internamento in Germania. Era smarrito. Paradossalmente, l’essere rimasto lì lo faceva sentire in una situazione più normale.

    Il contenuto.

    C’erano cinque pacchetti di sigarette, una lettera e un mazzo di foto, legate assieme da una cordina. La sua famiglia. Lui e Anna. Loro due con la bambina, prima che accadesse tutto. E poi Linda, da sola e con sua mamma, mentre cresceva negli anni in cui lui era lontano.

    Pianse, appoggiato al ripiano di legno al di là del vetro che divide gli uomini liberi da quelli prigionieri, mentre leggeva la scrittura gentile di sua moglie e sfogliava quelle diapositive di una vita che, per quanto dura e difficile, era la sua.

    Era quello che stava perdendo? Era quello che stava abbandonando?

    CAPITOLO 2

    I primi due anni furono davvero duri. Subì processi e interrogatori, costantemente, senza tregua.

    La sua epurazione dalla polizia fu immediata, seduta stante.

    Le corti d’Assise lo condannarono prima a vari anni. Altri gliene vennero assegnati quando finì nella gabbia degli imputati per il processo ai vertici della Legione Autonoma Ettore Muti.

    Nel frattempo, arrivò fatidica e decisiva la sentenza a morte per i rastrellamenti, i crimini collaborazionisti e le stragi a cui aveva partecipato.

    La Repubblica di Jugoslavia chiese la sua estradizione per i massacri compiuti dalla sua unità come criminale di guerra. Anche lì, l’avrebbero giustiziato.

    Tra le tante notizie che avrebbe preferito non scoprire ci fu quella della morte del colonnello Zucco, fucilato alla fine di aprile dai membri della Brigata Garibaldi, e del maresciallo Tancesconi, picchiato a morte in una cascina delle campagne varesine, dove si era nascosto.

    Novaretti aveva visto sua madre, una o due volte, perché per lei era troppo lacerante vedere suo figlio in prigione ad aspettare la morte. Qualche volta compariva Rosaria, tra i fischi di approvazione degli altri detenuti che credevano chissà cosa, che gli portava le arance. Erano quelle di Anna, le visite che lo facevano stare meglio. Lei era stanca, delusa, arrabbiata e angosciata.

    Per le feste o in alcuni eventi speciali, portava anche la bambina. Cosicché, come gli altri detenuti, potesse sentire meno la loro lontananza; altrimenti, veniva da sola tutte le settimane.

    I primi tempi cercava di essere ottimista, solare e affettuosa. In seguito, il pensiero che suo marito morisse, la vita grama e pericolosa che avevano fatto per tutti quegli anni e l’idea che non ci fosse un modo per raddrizzare le cose, la facevano essere distaccata e rancorosa. Le pesava tutto sulle sue spalle, che, per quanto fossero diventate forti dalle fatiche della vita, iniziavano a essere affaticate quasi al punto di rottura totale.

    Scoppiava spesso a piangere, durante i loro colloqui, e gli urlava contro un mucchio di cattiverie, che lui accettava a testa bassa senza ribattere, perché si sentiva l’unico colpevole di tutta quella situazione.

    La data dell’esecuzione non arrivava mai. I giorni passavano grigi e vuoti, tra la miseria e il sovraffollamento della prigione, con gli scontri, per fortuna solo verbali, tra i fascisti rinchiusi e i partigiani arrestati perché non capaci di reinserirsi nella vita civile. Ogni giorno uguale all’altro. Il mattino, la sbobba, il passeggio e la cella.

    Ci fu la rivolta del 1946, tra botte e cariche della polizia, e l’amnistia Togliatti. Quest’ultima, per lui, non fu altro che silenzio. Minghi non si era più fatto vedere e la sua situazione rimaneva in sospeso, come quella di tutti i condannati a morte.

    Avvennero le prime elezioni libere, il referendum tra monarchia e repubblica e la Costituzione.

    Anna iniziò a venire sempre di meno a trovarlo e lui soffriva.

    Aspettava sempre di essere chiamato per i colloqui e quando vedeva che non veniva nessuno, arrivava a capire il dolore che aveva causato ad Anna. Il senso di immobilità eterna, quasi come un oblio, si addensava sempre di più dentro di lui. La paura inconfessabile di essere dimenticato, di passare anni in galera e di morire, senza sapere mai quando e dove, che cercava di ramificarsi. Magari proprio quando la speranza naturale di sopravvivere tornava a farsi sentire, subdola e innocente, perché umana.

    In guerra sapevi che potevi morire da un giorno all’altro, ucciso da un nemico o vittima di effetti collaterali del conflitto, come bombardamenti o rese dei conti dell’ultimo minuto. Ma, in prigione e nella sua situazione di condannato a morte, era attendere l’indefinibile; era conscio che avvenisse, ma non certo perché non glielo avevano garantito.

    Le corti sentenziavano condanne a morte in continuazione, con possibilità di ricorso. Lui ne aveva fatti, ma i suoi crimini erano troppi, inquantificabili ed efferati in maniera peggiore dei criminali che aveva arrestato negli anni della polizia.

    Molte esecuzioni venivano eseguite, mediante fucilazione, ma la sua, come la peggior tortura psicologica, era ferma. I ricorsi sospesi o farraginosi. La morte era tenuta lì, come una mannaia pronta a calare su di lui o perennemente bloccata del tutto. Vedeva i suoi compagni di cella uscire o morire, chiedendosi quando sarebbe toccato a lui e quale sorte delle due.

    No, per lui il destino non era così semplice. Decisamente no.

    Non era un uomo comune e il suo caso veniva trattato come un’eccezione dei testi di legge.

    Potevano ucciderlo nella giornata stessa, come non fargli più sapere niente e rilasciarlo quando era vecchio, con il tempo ormai esaurito. Il non sapere era la cosa peggiore.

    E il tempo scorreva, sempre più lancinante.

    Sapeva di meritarlo e lo avrebbe accettato, con consapevolezza sempre più crescente che lo avrebbero giustiziato per ultimo. L’ultimo dei boia fascisti, il più feroce e crudele, lanciato in pasto ai giornali di cronaca nera e giudiziaria come il peggior carnefice di tutti i camerati in camicia nera. Ma non fu così. Tutto cambiò nei primi mesi del 1948. Si presentò, una mattina, un ufficiale americano della CIA, il servizio segreto.

    Gli comunicò che suo zio aveva nascosto da qualche parte le preziose informazioni che aveva dichiarato di aver venduto ai suoi camerati in cambio del rimpatrio del nipote dalla Germania. Venne fuori che gli archivi consegnati non erano quelli ufficiali. Modificati ad arte perché potessero sembrare veri e originali, ma artefatti in modo che non si scoprisse che erano una copia. Qualcuno aveva detto di chiedere a lui, suo nipote. Di indicare un posto che potessero conoscere solo lui e suo zio.

    Novaretti era scettico.

    Ah, dimenticavo! disse quello che si chiamava Smith. Quell’uomo brontolava di una faina, di un ruscello e di vostro nonno, ma non sapeva esattamente a quale luogo si riferisse il signor Oreste.

    Novaretti prese una sigaretta dal pacco che l’americano gli aveva aperto davanti. Se la fece accendere, sbuffò una nuvola di fumo, poi scoppiò a ridere.

    Cos’ha tanto da ridere, signor Novaretti? Ho detto qualcosa di comico?

    Novaretti si spinse avanti, con un sorriso beffardo. Negli occhi una scintilla spenta parecchi anni prima; era quella scintilla che s’accendeva quando l’ultimo vagone di un treno passava davanti, correndo e a pochi passi, e bisognava saltarci sopra per non perderlo. La possibilità di giocare a quel gioco di intrighi psicologici che era il pane per un poliziotto.

    "Non mi prenda per il culo, signor Smith, anche se dubito che questo sia il suo vero nome. Se lei parla davvero di quello che intendo io e dando per buona la sua descrizione di un fantomatico informatore, dubito che vi serva il mio aiuto per trovare quei documenti che vi farebbero tanto comodo per gli anni a venire. Conoscendo mio zio, è probabile che li abbia nascosti in un solo posto.

    Non mi stupisco, era da lui. Sapeva muoversi nei meandri del potere come un’anguilla nelle valli di Comacchio. Probabilmente era già in contatto con voi prima ancora che io finissi nelle vostre mani.

    Quei documenti, che sono sempre stati pericolosi, valevano argento prima. Adesso, per i vincitori e i loro alleati, sono oro allo stato puro. A me l’aveva detto anni fa, ma solo un’altra persona lo sapeva. Pensavo che tutto si fosse concluso con lo scambio per me, non credevo che quel secondo nascondiglio valesse anche dopo la consegna a chi di dovere, a cui è noto che non piaceva essere presi per il naso.

    Chi lo sapeva è un suo collega, Mr. Smith, un agente segreto del nostro vecchio SIM che non ci avrebbe mai tradito. Se lo ha fatto, è perché c’è qualcosa sotto e perché mio zio è stato ucciso. Il perché di adesso, come data, credo di saperlo, ma lo tengo per me.

    Il posto era un luogo che fosse importante per noi due, che in effetti conoscevamo solo noi della famiglia. Un posto che, ormai, non vale più niente perché è stato scoperto.

    Li avete già voi, siete stati bravi. Ora, io mi chiedo, cosa volete da me? A che vi servo, io? Per voi sarebbe più comodo sbarazzarvi di me, no? Io avrei miriadi di posti da dirvi e mandarvi fuori strada. Voi potreste offrirmi la salvezza in cambio, ma sono certo che non vi converrebbe. Avete detto delle mezze frasi, inesatte, che solo chi sa dove si nascondono i documenti può sapere. Li avete già in mano, ne sono sicuro."

    Il signor Smith sorrise: Lei è molto furbo, Novaretti. Non siete di quelli che vogliono salvarsi a tutti i costi, che supplicano e si dimenano perché hanno paura dei colpi di fucile. Sono spiacente, comunque, di non potere ancora soddisfare le sue domande. Mi faccia il piacere, Novaretti, mi dica il posto dove sono quei documenti. Le conviene, mi creda. Non è un ricatto, si fidi dei suoi amici. Sono qui per loro. In un certo senso, sono un suo alleato.

    Novaretti guardò Smith negli occhi. Era sincero.

    Anche se sincero era il termine meno adatto a definire gli agenti segreti.

    Lui, però, aveva l’esperienza sufficiente da dargli sensazioni plausibili per capire quando e come gli uomini mentissero. Smith non lo stava facendo.

    Novaretti si appoggiò alla sedia. Sospirò.

    Sono sotto a un frutteto, a pochi passi dall’orto dietro casa nostra. Sulla sinistra c’è un piccolo ruscello che scorre.

    La storiella che c’è dietro? insistette Smith.

    Novaretti sorrise, amaramente: "Mio padre, prima di partire per la guerra, un pomeriggio aveva trovato una civetta sul suo ramo. Dalle nostre parti la chiamano la murì, dicono che viene a posarsi sui tetti delle persone che stanno morendo, nella notte stessa in cui vengono a mancare. Il povero animale sembrava in difficoltà. Mia madre gli aveva detto di lasciarlo lì, di non toccarlo perché portava male. Ma lui non le ha dato retta. L’ha presa delicatamente e l’ha fatta volare via.

    Tempo dopo, quando mio padre è morto a Caporetto, mia madre ha sostenuto che quello fosse stato un brutto segnale. Un presentimento che stesse per avvenire qualcosa di brutto.

    Quell’animale era venuto a prenderlo in anticipo."

    CAPITOLO 3

    Smith se n’era andato, ringraziandolo.

    È stato onesto con noi, Novaretti. Vedrà che le cose, per lei, saranno differenti. Pazienti ancora qualche mese e cambierà tutto.

    Gli strinse la mano e se ne andò.

    Le cose cambiarono davvero.

    Minghi aveva un altro alleato comune nella corsa per salvare Novaretti: il capitano Paolo Volpe, storico amico della famiglia, carabiniere e agente del SIM. Negli anni era stato promosso colonnello in tempi molto rapidi, grazie alla sua bravura sul campo. Aveva ottime amicizie con gli inglesi, gli americani e i francesi. Perfino con i tedeschi e i russi.

    Minghi, il principale protettore dell’ex commissario, faceva parte della corrente Unità Socialista che si era scissa dal PSI e rientrava nell’orbita di ipotetiche alleanze con la Democrazia Cristiana dopo le elezioni di aprile.

    Gli americani stavano facendo di tutto perché i comunisti non ottenessero la maggioranza e vincessero le elezioni. Per questo una personalità come Minghi ricopriva un ruolo importante e riusciva a trattare con loro.

    Minghi dal punto di vista politico e Volpe da un punto di vista professionale spinsero da entrambe le parti affinché gli americani interferissero con le ruote della giustizia e rimettessero in libertà Novaretti, cancellando con un brutto colpo di spugna le sue accuse e favorendo il suo reintegro nella società libera.

    Era in corso una spartizione di aree di influenza tra i blocchi di potenze che avevano vinto la guerra. La Polonia e la Jugoslavia avevano seguito il modello dell’Unione Sovietica, come parte della Germania occupata dai russi. L’Ungheria si apprestava

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