Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Vendetta (eLit): eLit
Vendetta (eLit): eLit
Vendetta (eLit): eLit
E-book332 pagine4 ore

Vendetta (eLit): eLit

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dopo il disastro aereo in cui disgraziatamente sono morti il marito e i figli, Jennifer Fox ha perso la voglia di vivere. Ma sapere che si è trattato di un incidente orchestrato da qualcuno che la desidera morta fa nascere in lei almeno un desiderio, l'ultimo: la vendetta!
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788858972908
Vendetta (eLit): eLit

Leggi altro di Rachel Lee

Autori correlati

Correlato a Vendetta (eLit)

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Vendetta (eLit)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Vendetta (eLit) - Rachel Lee

    successivo.

    Prologo

    Era rimasto sdraiato tutta la notte nella neve, sul crinale, ad aspettare che il cielo si schiarisse.

    Sotto di lui, l'inverno aveva coperto la valle di un sudario bianco. Solo i rami nudi dei pioppi proteggevano, come dita ossute, lo chalet dal tetto spiovente.

    Il cacciatore s'era appostato in un boschetto di abeti, gli sci e lo zaino al suo fianco. Fasciato in una tuta impermeabile bianca, da lontano non sembrava altro che un mucchio di neve sferzato dal vento. Solo i suoi occhi si vedevano. Tra le mani teneva un lungo fucile scuro, la canna appoggiata contro un ramo. Il mirino ad alta precisione dell'arma era puntato verso lo chalet al centro della valle. Nonostante la tuta termica da sopravvivenza si sentiva intirizzito e le sue dita, le cui punte sbucavano dai guanti per stringere il metallo ghiacciato, cominciavano a intorpidirsi. Le ignorò. Aveva un lavoro da portare a termine. Solo questo contava.

    Nella croce del mirino, teneva sotto tiro una cucina. Poiché era mattino presto, era logico che la finestra fosse illuminata. Prima o poi il suo bersaglio sarebbe passato davanti a quella finestra, e lui avrebbe premuto il grilletto e finito il lavoro.

    Amava il senso di potere che gli davano quei momenti, la consapevolezza d'avere tra le mani la vita di un'altra persona. Lui viveva per quel lavoro. Viveva per l'emozione della caccia.

    Il bersaglio si presentò, finalmente. Una donna dai lunghi capelli scuri. Gli occhi freddi di lui accarezzarono i suoi lineamenti nel mirino, confrontandoli mentalmente con quelli delle fotografie. L'identificazione fu positiva.

    Scelse il punto esatto, la delicata curva dell'orecchio dietro il quale lei aveva ricacciato una ciocca di capelli. La donna stava facendo qualcosa al lavandino, ma anche se si fosse girata, la sua testa sarebbe rimasta in posizione di tiro.

    Perfetto.

    Un silenzio interiore lo pervase. Fu come se perfino il suo cuore avesse smesso di battere. Si riempì i polmoni d'aria, poi cominciò ad aumentare la pressione sul grilletto.

    Era la prima volta che lo pagavano per uccidere una donna. La prima volta che era stato ingaggiato da una donna. Non che gli importassero certe cose. Per lui contavano solo quei momenti in cui tutto si fermava, tutto si faceva silenzio, e lui lentamente… molto lentamente… premeva il grilletto.

    1

    La voglia di fumare era pressoché irresistibile. Ma s'era imposto di smettere. Rook Rydell strinse gli occhi e si guardò attorno.

    Una donna s'era fermata, incerta, sulla porta della taverna. Rook si chiese se avesse una vaga idea di quali rischi correva. Non che a lui importasse.

    Il locale era fiocamente illuminato e puzzava di birra irrancidita. I ventilatori a soffitto giravano lenti, agitando l'aria greve di fumo. Il barista e i tre camerieri sembravano in grado di contenere una piccola guerra. Un vecchio negro dal fisico possente suonava il piano in un angolo, gli occhi chiusi, come se al mondo ci fossero solo lui e i suoi blues.

    Quello era il girone dei dannati. Gli uomini che frequentavano quel locale vivevano esistenze illecite. Lì trovavano rifugio in un mondo ostile. Lì potevano rilassarsi, affogare le loro pene nell'alcool, o procurarsi un altro lavoro. La donna dal tailleur blu sembrava fuori posto, lì, come un angelo all'inferno.

    Lui la vide voltarsi con esitazione verso il bancone del bar, poi attraversare il locale con passo sorprendentemente deciso. Il barista, Pepe, la scorse arrivare e si lasciò sfuggire un sospiro. Due dei camerieri, prevedendo guai, si avvicinarono.

    Rook si guardò attorno e osservò che tutti quanti s'erano fatti attenti. Quella donna sembrava giungere da un altro pianeta. Non era solo giovane e attraente. Rook era anche pronto a scommettere che avesse addosso un buon profumo, una cosa che a molti di quegli uomini non capitava di sentire da tempo.

    Qualcosa, però, impediva agli avventori di reagire sguaiatamente, come facevano sempre quando una donna sconosciuta arrivava lì. Forse era l'aspetto professionale di lei. Forse era il fatto che aveva colto tutti di sorpresa. O forse era l'ossessiva, sconfinata tristezza dei suoi occhi. Quegli occhi la rendevano una di loro.

    Lei raggiunse Pepe, gli parlò brevemente. Il barista guardò nella sua direzione, inarcando un sopracciglio.

    Cercava lui, pensò Rook vagamente sorpreso. Fu tentato di scuotere il capo, ma che altro aveva da fare, a parte finire la sua tequila? Fece un lieve cenno d'assenso al barista.

    Eppure non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che quella donna portasse guai. Mentre lei si faceva strada tra i tavoli, guardando dritto davanti a sé, a un tratto un brivido lo gelò. Non appena lo sentì, Rook capì che doveva liberarsi di lei alla svelta. Lui non ignorava mai le premonizioni.

    Tutti gli occhi seguirono l'avanzata della donna, ma quando lei arrivò al tavolo di Rook, gli avventori distolsero lo sguardo. Era ormai off-limits.

    Lui alzò il viso lentamente, restio a incontrare i suoi occhi angosciati. Nella luce fioca era difficile dire di che colore fossero, ma non si poteva fraintendere la loro espressione. Quella donna aveva visto l'inferno.

    Venne subito al punto. «Un amico ha detto che forse lei può aiutarmi.»

    «Ne dubito.» Ciò che in realtà Rook avrebbe voluto dire era che dubitava che ci fosse qualcuno in grado di aiutarla. «Quale amico?»

    «Alan DeVries.»

    Rook si sentì rizzare i capelli in testa. Era passato molto tempo da quando aveva chiamato amico Alan DeVries. «È in prigione.»

    «Lo so. È lì che gli ho parlato ieri. Mi ha mandato da lei.»

    «Cosa gli ha fatto? Lo ha torturato con uno schiacciapollici?» Rook era pronto ad alzarsi e andarsene. A uscire dal bar e sparire nella notte. Sentiva puzza di trappola.

    «Per la verità, mi sono limitata a chiedere.»

    «DeVries è troppo furbo.»

    «Mi ha detto di ricordarle che gli deve un favore per La Palma.»

    Rook si irrigidì. Solo DeVries avrebbe potuto saperlo. «Lei è della polizia?»

    La donna scosse la testa. «Se fossi un poliziotto, avrei avuto il buon senso di non venire qua in tailleur.»

    O diceva la verità o era maledettamente brava a mentire. «Allora, chi è?»

    «Sono un avvocato. Il signor DeVries è un cliente del mio studio.»

    Lui cominciava a crederle. «Di che cosa ha bisogno, di preciso?» S'aspettava una richiesta d'informazioni o l'offerta di un piccolo lavoro di sorveglianza. Le sue parole lo colpirono come un pugno allo stomaco.

    «Voglio far uccidere qualcuno.»

    Se il mondo si fosse rovesciato, lui non sarebbe potuto restare più sbalordito. Non era che non avesse mai sentito parlare di certe cose. Diavolo, gli era anche già capitato di sentirsele chiedere. Solo, non s'aspettava una richiesta del genere da quella donna. Non s'aspettava che certe parole uscissero da quelle tenere labbra rosate. Non aveva previsto che degli occhi così tristi potessero celare tanta durezza.

    Quale segreto nascondeva quella donna? Chi l'aveva ferita al punto che lo voleva morto? Un marito? Un amante? In fondo non gli importava. Interessarsi agli altri causava solo sofferenze. Erano anni che aveva imparato a infischiarsene di tutto. «È venuta dall'uomo sbagliato» dichiarò in tono piatto.

    Per un attimo lei parve disorientata, come se fosse stata così totalmente concentrata nella sua missione da non aver previsto un rifiuto. Se Rook si fosse concesso certi lussi, gli avrebbe quasi fatto pena.

    «Io…» Lei s'interruppe, gli occhi che vagavano disperatamente per il locale. Poi, determinata, tornò a fissarlo. «Il signor DeVries ha detto che lei avrebbe saputo come dovevo fare.»

    «Che cos'è? Una specie di trappola?» Ma era il primo a non crederci. Quella donna non stava recitando. Rook avrebbe voluto scrollarla rabbiosamente per farla rinsavire. Non che gli importasse. Non gli importava più di niente.

    «No! Oh, no! Ho solo bisogno di… di un'informazione. Devo sapere a chi rivolgermi…»

    «Perché?» Non appena l'ebbe chiesto, lui si pentì. Non voleva sapere nulla!

    Lei si irrigidì. «Non credo che il motivo la riguardi. Non mi resterà che chiedere a uno di questi altri signori.»

    Chiedere a uno di quei signori? O quella donna era pazza, o era cieca. Probabilmente, entrambe le cose. Se si metteva a passare di tavolo in tavolo, rischiava di fare una brutta fine. Non che questo lo riguardasse, ma se la donna avesse provocato una rissa, lui avrebbe dovuto cercarsi un altro posto in cui passare la sera…

    Si tolse di tasca un taccuino e ne strappò un foglietto. Ci scribacchiò sopra un numero e lo spinse verso di lei. «Chiami questo numero. Lui forse saprà dirle cosa fare.»

    Lei afferrò il foglietto come se temesse che l'uomo potesse riprenderselo. «Grazie» mormorò con sorprendente dignità.

    «Solo, non gli racconti niente di se stessa. Potrebbe essere rintracciata.»

    Lei annuì come se avesse già considerato la possibilità. O non le importasse. «Posso offrirle da bere?»

    Lui si chinò sopra il tavolo, il viso duro. «Se ne vada di qua, prima che le dica cosa penso della gente che fa sporcare le mani agli altri.»

    Il sangue le defluì dal viso, lasciandola bianca e senza vita come un cadavere. Senza una parola, lei si alzò e se ne andò in fretta.

    Per un attimo Rook pensò di seguirla per assicurarsi che arrivasse alla macchina sana e salva, poi respinse l'idea. Che se la cavasse da sola. Gesù. Quell'angelo voleva assoldare un sicario.

    Jennifer Fox arrivò alla macchina sana e salva, probabilmente perché se le fosse successo qualcosa non le sarebbe importato gran che. Ma una volta a casa, si accasciò contro la porta chiusa e cominciò a tremare.

    Anche nel suo stato attuale, riusciva a provare orrore per quello che aveva appena fatto. Riusciva a tremare per la reazione nervosa alla terribile tensio ne di quelle ultime due ore. La sua mano affondata nella tasca della gonna stringeva il foglietto che le aveva dato il mercenario. Ce l'aveva fatta!

    Gradualmente il tremito si calmò. Su gambe ancora un po' incerte, Jennifer andò in cucina e si versò un goccio di bourbon. Non le piaceva il gusto del liquore, ma aveva l'effetto desiderato. La scaldava e la rilassava. Fino a pochi mesi prima aveva toccato appena l'alcool. Ormai, ci ricorreva spesso.

    Non fare questo a te stessa, Jennifer. Le sembra va di sentire la voce di Mark come se fosse lì in cucina con lei. Un pugno implacabile le afferrò il cuore e glielo strinse finché le lacrime non le appannarono gli occhi. Jennifer smise di respirare, combattendole. Piangere non serviva a niente. Mark non l'avrebbe più abbracciata, non avrebbe più riso con lei.

    Vuotò il bicchiere e lo posò sul lavandino, accanto ai bicchieri di ieri, di quelli del giorno prima, e forse anche di quelli del giorno prima ancora. Non ricordava l'ultima volta in cui aveva mangiato, eppure neanche ora, pensandoci, provava il morso della fame.

    L'unica cosa al mondo che desiderava era morire.

    Ma doveva essere cauta sul come. C'erano i suoi genitori da tutelare, e la famiglia di sua sorella. La sua morte sarebbe già stata un duro colpo per loro. Non dovevano pensare che avrebbero potuto in qualche modo prevenirla. Un suicidio era fuori questione. Per questo lei aveva in tasca quel foglietto.

    Con un altro bourbon in mano, salì le scale nel quotidiano pellegrinaggio alla tomba dei suoi sogni perduti. Non aveva più toccato nulla dall'incidente aereo, e la polvere di mesi copriva ogni cosa. Lei non la notava, però. Attraverso la polvere, vedeva ancora com'era stato tutto prima che diventasse un mausoleo.

    Entrò per prima cosa nella stanza di Bethany. La sponda del lettino era ancora abbassata come lei l'aveva lasciata l'ultima mattina in cui aveva svegliato sua figlia. Chiudendo gli occhi, Jennifer riusciva ancora a sentire quel corpicino caldo tra le braccia.

    L'ennesima lacrima le scivolò lungo la guancia e lei sbatté le palpebre, per dare un'altra lunga occhiata a quella stanza che era ancora piena di mobili e di pupazzi, ma che sarebbe rimasta vuota per sempre.

    Accanto c'era la camera di Eli. Sul tavolino c'era ancora la costruzione coi mattoncini Lego che lui stava facendo quel mattino, uno strano incrocio tra un castello e una nave spaziale. Sul pavimento erano sparse le macchinine che gli piacevano tanto. Portandosi il guanciale al viso, Jennifer s'illuse di sentire ancora il dolce, caldo profumo del suo bambino.

    E infine c'era la camera da letto matrimoniale. Lei dormiva ancora lì, quando dormiva. Cercava ancora Mark nel sonno, e abbracciava il vuoto.

    Il vuoto. La sua vita era diventata uno spazio vuoto. Tutto quello che le importava era sparito.

    Sentì un fruscio di carta in tasca. Quel foglietto, almeno, era una rassicurazione.

    C'era una via d'uscita.

    Tornò di sotto, estrasse il foglietto e lo allargò accanto al telefono dello studio, chiedendosi se dovesse chiamare subito o aspettare. Per qualche motivo, le ore della sera sembravano le più indicate a quel genere di telefonata.

    Non riusciva a indursi a sollevare la cornetta, però. Aveva pensato che sedere alla scrivania di Mark le avrebbe reso le cose più facili. Avrebbe dato un senso di giustizia a quello che stava per fare. Ma sedere a quella scrivania non faceva altro che precipitarla nell'abisso d'angoscia che s'era aperto sotto i suoi piedi da quando l'incidente aereo le aveva portato via Mark e i bambini.

    Cocenti lacrime le sgorgarono dagli occhi, mentre i singhiozzi le squassavano il corpo. Aveva pianto così ogni giorno, dall'incidente, e avrebbe pianto in quel modo finché non fosse morta. Piangeva tanto disperatamente da stare male, ma il dolore fisico non era nulla in confronto a quello che aveva nel cuore.

    Il telefono si mise a suonare, ma lei lo ignorò. Probabilmente era sua madre, che chiamava per dispensarle vuote frasi di conforto e per dirle che col tempo se ne sarebbe fatta una ragione. Ma lei non si sarebbe mai rassegnata. All'inizio anche Jennifer s'era illusa che col tempo avrebbe imparato ad accettare quella perdita, ma la sua angoscia s'ingigantiva col passare dei giorni invece che alleviarsi.

    Quando finalmente i singhiozzi si placarono, Jennifer aveva il fuoco in gola e gli occhi così gonfi che riusciva appena a tenerli aperti. Ma quel disagio fisico era ben poca punizione per il suo peccato più grave: non essere salita su quell'aereo con loro.

    Quando il telefono tornò a squillare, lei rispose, sperando in un attimo di distrazione e sentendosi automaticamente in colpa per quella speranza.

    «Ciao, Jennifer» disse la calda voce di Scott Paxton. «Maureen e io volevamo sapere come stai.»

    Cosa doveva rispondere? Scott era uno dei titolari dello studio che l'aveva licenziata di recente. Una volta lei aveva creduto che fosse un amico, ma un amico non avrebbe preso le sue parti? Perché non aveva insistito perché lei si prendesse semplicemente un'aspettativa?

    «Jennifer? Sei lì?»

    «Sono qui.» Avrebbe dovuto riagganciare. Invece, si aggrappò alla cornetta e ascoltò quella voce. Scott aveva una voce incredibile. Calda, suadente, ipnotica. Qualunque distrazione era benaccetta. Compreso Scott Paxton. Doveva riprendersi abbastanza da chiamare il numero di quel foglietto.

    «Scusa. Ti ho telefonato in un brutto momento? Maureen e io abbiamo pensato molto a te e ci chiedevamo se ti avrebbe fatto piacere venire da noi a cena, sabato. Poche persone, solo alcuni dei tuoi vecchi amici dello studio. Felix e Rochelle, Dowd e Sally, Karl e Gretchen, forse un paio d'altri.»

    Una scintilla della vecchia Jennifer si riaccese, una scintilla che non era stata spenta da quel fiume di lacrime. «Perché dovrebbe farmi piacere passare una sera con ex colleghi, Scott? Non avevate tutti tanta fretta di liberarvi di me?»

    «Jennifer, questo non è giusto, e lo sai bene. Ne abbiamo già parlato, se non sbaglio. Tu non ci hai lasciato scelta.»

    «Io non vi ho lasciato scelta? Perché non avete suggerito che mi prendessi un'aspettativa, invece?»

    «Non potevamo. La Allied Technologies ha mi nacciato di rivolgersi a un altro studio se non ti licenziavamo in tronco dopo che avevi fatto quel pasticcio con la clausola sulle royalty

    «Sono riuscita a sistemarlo.»

    «Sì, ma la Allied si innervosisce quando un avvo cato fa certi errori. Sai bene che è il nostro maggiore cliente.»

    «Così mi hai gettato ai lupi e ora vuoi che venga a cena da te?»

    «Per dissipare ogni nube tra noi, Jennifer. Credimi, capiamo quanto siano stati difficili questi ultimi mesi per te.»

    «Davvero, Scott? Chissà perché, ne dubito.»

    Questa volta lui non rispose subito. Quando alla fine parlò, nella sua voce c'era una strana tensione. «Forse no, Jennifer. Come potremmo capire veramente quello che hai passato? Ma ci importa di te. Se quelli della Allied ci avessero lasciato un'alterna tiva, lavoreresti ancora con noi. Ma non lo hanno fatto, e io devo considerare le cento e più persone che lavorano alla Paxton, Wilcox & Moore. Senza il contratto con la Allied parecchie di loro avrebbero perso il posto.»

    Lei non aveva preso in considerazione quell'aspetto e, nonostante l'angoscia, riuscì a provare un moto di disgusto verso se stessa. Il dolore, cominciava a scoprirlo, rendeva incredibilmente egocentrici. Sospirò. «Quando è questa cena, Scott?»

    «Sabato. Vieni alle sei e mezzo. La cena è alle otto, ma prima prenderemo un cocktail.» Detto questo la salutò poi riappese.

    Sulla scrivania di Mark c'era una fotografia di loro quattro. Lei la teneva a faccia in giù, perché i ricordi non le tendessero agguati inaspettati, ma ora la girò e la guardò. Presto sarebbe stata con loro.

    Con il cuore che le martellava in gola, alzò la cornetta e compose il numero. Al terzo squillo rispose una roca voce maschile.

    «Sì?»

    «Io… Io voglio far uccidere qualcuno.» Era riuscita appena a pronunciare quelle parole. Solo un'occhiata alla foto riaccese la sua determinazione.

    «Ha sbagliato numero, signora.»

    «Io…» Jennifer esitò. Poi l'avvocato che era in lei prese il sopravvento. «È stato Rydell a darmi questo numero.»

    Questa volta all'altro capo della linea ci fu un lungo silenzio. «Io non faccio certe porcherie.»

    «Rook pensava che lei potesse conoscere qualcuno che…»

    Un'altra lunga pausa. «Forse. Vuole uno bravo?»

    «Il migliore.»

    «Bene, se mi capita di incontrare una certa persona, gli darò il suo numero di telefono. Qual è?»

    Lei glielo disse.

    L'uomo ebbe un colpetto di tosse da fumatore. «Forse qualcuno la chiamerà. Distrugga il mio numero. Ha capito?»

    «Sì.»

    Ma lui aveva già riagganciato.

    Non volendo lasciare alcuna traccia che potesse rivelare che la sua morte era in realtà un suicidio, lei portò il foglietto al lavandino e lo bruciò.

    Non voleva lasciare la casa per paura di perdere la telefonata del killer, ma aveva detto a Scott che sarebbe andata a cena da lui. Più di una volta fu tentata di telefonare a Maureen Paxton per scusarsi, e ogni volta se lo impedì. Il killer non poteva aspettarsi che lei restasse seduta accanto al telefono.

    E poi, quella cena le avrebbe dato la possibilità di verificare il suo sospetto che il problema con la Allied non fosse stato l'unico motivo del suo licen ziamento. La Allied avrebbe potuto limitarsi a chie dere che fosse un altro avvocato a occuparsi dei suoi contratti. Scott e soci dovevano avere avuto altre ragioni per prendere una posizione così rigida. E lei voleva sapere quali fossero. In fondo al cuore, sospettava che un altro avvocato dello studio l'avesse fatta fuori.

    Le cene a casa di Scott erano sempre occasioni formali. Jennifer indossò un abito nero da cocktail e non si stupì nel trovare la padrona di casa in lungo.

    Scott le diede il benvenuto con più calore del solito e l'abbraccio di Maureen fu stranamente forte. Jennifer cercò di ignorare la costrizione alla gola. Santo cielo, s'era così isolata ultimamente da commuoversi per un semplice abbraccio?

    Era arrivata tardi di proposito, perché era più facile affrontare una stanza piena di persone piuttosto che salutarle una per una quando arrivavano.

    «Cosa prendi?» chiese Scott, allungando istintivamente la mano verso la bottiglia dell'acqua brillante che lei chiedeva sempre.

    «Bourbon con ghiaccio.»

    Lui inarcò un sopracciglio, ma le versò il liquore. «Tu non bevi, Jennifer.»

    «Bevo ora.»

    «Non è una buona cosa. Non fare questo a te stessa.»

    Lei abbozzò un sorriso. «Non c'è più molto che possa fare, ormai.» Poi s'allontanò, sperando che tutti le permettessero di restare nascosta in un angolo finché non le fosse passato quel folle istinto di scappare.

    Sally Carstairs, un altro avvocato dello studio, puntò dritto verso di lei. Lei e Jennifer erano state impegnate in una sfida su quale delle due sarebbe diventata per prima socio titolare. Sally l'aveva sempre presa scherzosamente e le due donne spesso avevano pranzato insieme. Chi le aveva mostrato uno spiccato antagonismo era il marito di Sally, Dowd. Quest'ultimo aveva sempre dato l'impressione di credere che Jennifer Fox fosse una seria minaccia alle ambizioni di carriera della moglie. Jennifer non s'era mai sentita a suo agio con lui.

    «Cara, sono stata così in pensiero per te!» esclamò Sally abbracciandola forte.

    «Sto bene, Sally. Davvero.»

    «No» sbottò l'altra. «Non è possibile che tu stia bene. E poi, tu non hai mai bevuto.»

    «Bevo ora.»

    «Io non posso criticarti di certo» osservò Sally, indicando il proprio martini. «È solo che tu eri l'u nica di noi a non bere alcolici. È così strano vederti con un bourbon in mano.»

    «Potrebbe essere ginger ale

    Sally rise. «Non ci sono bollicine. Devi imparare a essere più furba, cara. La prossima volta chiamalo tè freddo.»

    Jennifer sorrise, chiedendosi come avrebbe fatto ad arrivare alla fine di quella serata di chiacchiere insulse. Ora che lei non faceva più parte dello studio, nessuno avrebbe discusso di lavoro davanti a lei. Era un'outsider, ormai, e la sua presenza avreb be impresso un tono diverso all'intera serata.

    Dowd Carstairs stava in un angolo da solo. Quando incrociò lo sguardo di Jennifer, annuì e alzò il bicchiere in una specie di brindisi. Era il saluto più amichevole che lei avesse mai ricevuto da lui, ma, ovviamente, ora era fuori dal giro. Non era più una minaccia per la carriera di nessuno.

    Karl e Gretchen Gruber furono le persone successive che vennero a salutarla. Karl dirigeva la divisione fiscale dello studio. Figlio di immigrati tedeschi, era andato in Germania a cercare moglie ed era tornato con Gretchen, una bionda teutonica dalla personalità effervescente. Quando lei le baciò una guancia, Jennifer si sentì rincuorata.

    Perfino Karl la abbracciò affettuosamente, cosa che non aveva mai fatto in passato. Avevano lavorato spesso insieme a fusioni societarie, perché tutto in una corporazione aveva ramificazioni fiscali. Ma anche se i loro rapporti di lavoro erano stati buoni, non avevano mai avuto contatti personali di alcun tipo. Karl era un uomo riservato, anche lui in concorrenza per il posto di socio titolare che desiderava Jennifer. Era persino arrivato a dichiarare apertamente che Jennifer avrebbe avuto la promozione prima di lui per il semplice fatto che era una donna, e che lo studio non aveva ancora soci titolari di sesso femminile.

    Jennifer s'era risentita, allora, perché sentiva che se mai avesse ottenuto quella posizione era perché se l'era meritata. Quanto le sembravano lontani, adesso, quei tempi.

    Lui le trattenne la mano alcuni istanti più del solito, prima di mormorarle: «Mi dispiace, Jennifer. Mi dispiace davvero».

    Per qualche motivo, lei non gli credette.

    E, finalmente, arrivò Felix Abernathy. Il caro, caro Felix che era stato il suo più grande amico allo studio, anche se appartenevano a divisioni diverse e non avevano mai lavorato insieme. Felix era un penalista. Era lui, fra l'altro, che rappresentava Alan DeVries, l'uomo da cui lei aveva avuto il nome di Rook Rydell. Felix non ne era al corrente e, per il bene di tutti, lei sperava che non lo scoprisse mai.

    Felix era già un socio junior, perciò fra loro non c'era la solita rivalità. Inoltre, era stato Felix ad aiutare Jennifer nel corso del primo, difficile anno allo studio, quando il lavoro le era parso massacrante. Lei non aveva mai scordato la sua generosità.

    Quando Felix la pilotò verso un angolo tranquillo, lei lo seguì volentieri, ansiosa di sfuggire ad altre vuote conversazioni. Si sedettero su un divano.

    Felix le prese una mano. «Mi dispiace, Jennifer. So che te l'ho detto al funerale, e so che te l'ho detto quando sei stata… Non importa. Voglio dirtelo ancora. Rochelle e io

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1