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Lo sconosciuto (eLit): eLit
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E-book320 pagine4 ore

Lo sconosciuto (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Chi minaccia la famiglia Tate? È forse lo sconosciuto da poco giunto in città che dice di voler scrivere un libro sulla guerra del Vietnam e che vive accampato nella vecchia miniera abbandonata? Il clima di tensione cresce a mano a mano che gli atti intimidatori si fanno più sottilmente crudeli, complicato dall'attrazione nata nel frattempo tra l'uomo e la figlia di Tate. Il buonsenso dice alla ragazza che è impossibile fidarsi di lui, ma il suo cuore e i suoi sensi non sembrano intenzionati ad ascoltar ragioni...

ROMANZO INEDITO
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2018
ISBN9788858990087
Lo sconosciuto (eLit): eLit

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    Anteprima del libro

    Lo sconosciuto (eLit) - Rachel Lee

    successivo.

    Prologo

    C'era qualcosa di strano.

    Marge Tate si fermò bruscamente sulla soglia della cucina. Tendendo un braccio indietro, bloccò la zanzariera prima che potesse chiudersi con il consueto colpo secco, poi tese l'orecchio, senza muovere nemmeno un muscolo.

    C'era qualcosa di strano.

    In tutti gli anni che lei aveva vissuto in quella casa, non le era mai capitato di provare niente di simile.

    C'era qualcosa di strano.

    La sensazione non poteva essere ignorata, ma lei non riusciva a giustificarla. Rimanendo perfettamente immobile, mentre i suoni della tranquilla giornata primaverile le giungevano attraverso la porta aperta alle sue spalle, cercò di determinare cosa provocasse in lei quel senso di inquietudine. Non c'erano rumori insoliti all'interno della casa, nulla che lei potesse identificare come motivo del suo disagio.

    Suo marito Nate le aveva sempre detto che, se le fosse mai capitato di avere l'impressione che in casa fosse penetrato un estraneo, lei avrebbe dovuto lasciare tutto all'istante e correre a telefonargli da una cabina pubblica. Un impulso quasi irresistibile le suggeriva di farlo in quel preciso momento, ma lei non poteva evitare di pensare che si sarebbe sentita una perfetta idiota se Nate fosse arrivato con un paio dei suoi vice soltanto per scoprire che in casa non c'era nessuno.

    Se ci fosse stato qualcuno, lei lo avrebbe sentito, no?

    No.

    La recisa risposta risuonò come un quieto ammonimento nella sua testa. Lei indietreggiò di un passo, poi si dominò. Tutto ciò era assolutamente ridicolo! Santo cielo, quella era Conard County, nel Wyoming, non una metropoli violenta come New York o Los Angeles. Lì, la maggior parte della gente non si prendeva nemmeno il disturbo di chiudere a chiave la porta quando usciva.

    Raddrizzando le spalle, Marge entrò in cucina e lasciò che la porta si chiudesse dietro di lei. Senza un indizio anche minimo che confermasse il suo vago sospetto, si sarebbe sentita una stupida a chiamare Nate e creare un inutile trambusto. D'altra parte, se lei avesse davvero trovato qualcosa di minaccioso, o se avesse udito qualcosa, non avrebbe esitato un solo istante a scappare più velocemente di una lepre che avesse fiutato un cane da caccia.

    Ma a quel punto cominciava la parte più difficile. Ora lei doveva controllare il resto della casa e dimostrare a se stessa che non c'erano uomini neri in agguato negli armadi.

    La sgradevole sensazione non sembrava intenzionata ad abbandonarla. Mentre lei si muoveva attraverso la casa, i suoi passi attutiti dalla spessa moquette che lei e suo marito avevano posato l'anno prima, si chiese come mai l'impressione che una presenza estranea si nascondesse fra quelle mura non scemasse a mano a mano che lei trovava ogni stanza vuota.

    Ormai non restava che la sua camera da letto. Rapidamente, prima di varcare la soglia, Marge ne scrutò l'interno. Non c'era nessuno.

    Ma quando lei entrò, una intensa e speziata fragranza parve andarle incontro. Era il suo profumo preferito, quello che lei riservava per le occasioni speciali.

    Un formicolio le percorse la nuca, e lei dovette reprimere l'impulso di scappare. Non usava quel particolare profumo da un paio di settimane ed era quindi impossibile che fosse così percepibile ora, più forte perfino dell'odore della cera che lei aveva usato per lucidare la toeletta quella stessa mattina.

    Qualcuno era entrato in quella stanza.

    L'anta dell'armadio era aperta, ma lei l'aveva lasciata così nella fretta di arrivare in orario al suo appuntamento. Anche la porta del bagno era aperta e le bastò girare la testa per assicurarsi che quella stanza era vuota come le altre.

    Non c'era nessuno lì.

    Era forse stata lei a rovesciare la boccetta del profumo facendo le pulizie? Nate era forse passato da casa a prendere qualche cosa che aveva dimenticato?

    Sì, pensò con sollievo. Era tutto così semplice. Nate era venuto a casa per qualche ragione e inavvertitamente aveva urtato la boccetta. Se lei non aveva chiuso bene il tappo...

    Sì, era davvero tutto così semplice. Tranquillizzata, Marge si voltò per ritornare in cucina. Fu in quel momento che si accorse che la fotografia del suo matrimonio nella cornice d'argento era sul comodino.

    Il cuore le balzò in gola. Per quasi trent'anni lei aveva tenuto quella fotografia sulla sua toeletta. Senza mai cambiarle posizione.

    Suo marito poteva averla spostata quand'era venuto a casa, ragionò. Lui forse l'aveva presa per guardarla e poi distrattamente l'aveva messa sul comodino.

    Poteva essere andata così.

    Ma lei non lo credeva.

    Qualcuno era entrato in quella stanza.

    1

    Un leggero fremito increspò la nuca di Janet Tate e lei si girò di scatto, sicura di essere osservata. Nessuno. Solo le baracche della città mineraria abbandonata e le scure profondità della foresta che la circondava. Lei rabbrividì un poco quando un freddo soffio di brezza primaverile si insinuò nel bavero della sua giacca.

    Nessuno.

    «Stupida...» borbottò, tornando a voltarsi verso la sua macchina fotografica posta sul treppiede. La luce del tardo pomeriggio cadeva obliquamente sulla città fantasma, ma nel giro di qualche minuto sarebbe sparita con lo sprofondare del sole dietro la cima della Thunder Mountain. Le lunghe ombre accentuavano il contrasto e i cadenti edifici si stagliavano in maniera netta contro lo sfondo dei pini che si ergevano verso il cielo, le ombre alla loro base già impenetrabili. Una immagine perfetta quanto fugace perché ben presto il crepuscolo avrebbe appiattito e sfumato ogni contorno.

    La creatura dentro il suo grembo si mosse dolcemente, distraendola per un istante con il più piccolo sfarfallio di sensazione, poco più del guizzare di una bollicina di champagne nel profondo del suo essere. Lei chiuse gli occhi per un attimo, sorridendo, poi si chinò per accostare l'occhio al mirino.

    Aveva fotografato quella città morta per oltre dieci anni, da quando le era stata regalata la sua prima macchina fotografica a Natale. La passione per quell'attività non l'aveva più abbandonata, e quel luogo era diventato uno dei suoi soggetti preferiti. Lei lo aveva fotografato in tutte le stagioni, con ogni genere di luce, cogliendo nel frattempo il progressivo deteriorarsi degli edifici abbandonati e l'inesorabile avanzata della foresta circostante.

    Janet scattò la fotografia, fissando la scena un attimo prima che il sole si arrendesse all'incalzare del tempo, e il crepuscolo calasse sul paesaggio.

    Una sensazione di gelo le percorse ancora una volta la spina dorsale. Si disse che era soltanto la brezza che soffiava dai campi innevati alle altitudini superiori. Non c'era nessun altro in quel luogo. Non c'era mai nessun altro in quel luogo.

    E tuttavia, sarebbe stato un nascondiglio perfetto per un vagabondo. Le ombre si stavano infittendo mentre il sole scivolava sempre più in basso dietro la montagna, e d'un tratto lei si rese conto di quanto quel luogo fosse isolato e solitario. Il sussurro del vento tra gli alberi e il sommesso gorgogliare del ruscello erano gli unici rumori. In assenza del sole, l'aria stava diventando fredda. Era il momento di ritornare a casa.

    Janet ripose la macchina fotografica nella sua custodia e piegò il treppiede. Un giorno o l'altro sarebbe dovuta salire lì a scattare qualche fotografia con la luna piena. Le bastò immaginare l'aspetto che quel luogo avrebbe avuto nella spettrale luce argentea per sentire un brivido e istintivamente lanciò ancora una volta una rapida occhiata tutt'attorno. Se lì c'erano dei fantasmi, si disse, dovevano essere all'opera in quel momento.

    Rapidamente sistemò l'attrezzatura fotografica dietro il sedile della sua jeep. Lei stava scappando, pensò. Stava scappando come un bambino scappava di fronte a paure indistinte. Stava scappando dall'uomo nero nell'armadio.

    Non c'era nessun motivo di credere che qualcuno la stesse davvero osservando. Il formicolio alla nuca non era altro che un nuovo sintomo della gravidanza giunta ormai al settimo mese. In tutti gli anni che lei era venuta alla vecchia città mineraria, soltanto una volta le era capitato di incontrare una persona.

    Ma i buchi neri delle finestre e delle porte nelle baracche fatiscenti sembravano fissarla come orbite. Se qualcuno avesse voluto nascondersi lì, avrebbe trovato un'ampia scelta di possibilità. Ma perché qualcuno avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Quali ragioni potevano portare una persona a cercare di nascondersi in un luogo sperduto come quello? Be', nessuna delle ipotesi che le si affacciarono alla mente risultò rassicurante.

    E allora l'unica soluzione sarebbe stata quella di andarsene via e chiedersi più tardi se il suo comportamento fosse sciocco.

    Ma lei non era mai stata il genere di persona che fuggiva di fronte al drago sotto il letto o all'orso nell'armadio. Suo padre le aveva sempre insegnato che il solo modo di vincere una paura era quello di affrontarla. Vergognandosi della propria vigliaccheria, Janet decise di fare una passeggiata attraverso la città fantasma prima di tornare a casa. Il crepuscolo indugiava a lungo sulle montagne, e le restava luce più che sufficiente per muoversi senza timore.

    Il formicolio alla nuca continuò, ma lei si impose di ignorarlo mentre camminava tra i ruderi. In quel luogo non c'erano altro che ricordi di un'epoca lontana in cui poche centinaia di individui avevano scavato quel terreno alla ricerca del filone d'oro che non esisteva. A eccezione di qualche uccello, nulla si muoveva. A eccezione dei ricordi, nulla si agitava.

    Ogni volta che lei veniva alla miniera non poteva fare a meno di pensare a tutti quei sogni infranti. Tanti sogni infranti. Come i suoi.

    La piccola creatura che cresceva nel suo grembo si mosse ancora una volta, rassicurando Janet con la sua dimostrazione di vitalità. La bambina era un nuovo sogno, portato da un uomo che aveva annientato tutti quelli vecchi. Talvolta non era facile, ma lei aveva promesso a se stessa che non avrebbe covato risentimento. Non c'era scopo. Il destino dei sogni era quello di essere perduti e sostituiti. Erano molto pochi quelli che si avveravano.

    Una torre di trivellazione si innalzava sopra il vecchio pozzo, rosa dagli agenti atmosferici. La ruggine aveva colorato di un rosso scuro le carrucole, e la fune era ormai marcita. Qualcuno un tempo aveva lavorato accanitamente per costruire quella miniera, aveva versato sudore e sangue, sperato e pregato. Di tutto ciò ora non restava che un luogo abbandonato e dimenticato.

    Janet sentì suo malgrado un bruciore di lacrime agli occhi. Autocommiserazione. Disgustoso. Sbatté le palpebre più volte, fece un respiro profondo e continuò a camminare a passo spedito, decisa a sconfiggere i demoni.

    Fu allora che vide l'uomo. Era in piedi al margine della foresta, non molto distante da un pozzo crollato sopra il quale una torre di trivellazione di legno si inclinava in maniera instabile. Simile a uno spettro, sembrava soltanto un'ombra scura, una semplice sagoma nera sullo sfondo della foresta. Con le mani sui fianchi, le gambe larghe, appariva forte e vagamente minaccioso.

    Janet fece un passo indietro, mentre la sua mano si spostava subito sul ventre arrotondato in maniera protettiva. Oh, perché non se n'era andata non appena aveva cominciato ad avere la sensazione che qualcuno la stesse osservando? Perché aveva voluto a ogni costo dimostrarsi tanto coraggiosa? Indietreggiò ancora e incespicò, rischiando quasi di cadere.

    L'uomo non mosse un muscolo. «Non ho intenzione di farle del male» disse. La sua voce era cupa e profonda, sommessa ma con un vago accenno di impazienza.

    La mente di Janet lavorava già affannosamente, calcolando la distanza che la separava dalla sua auto, calcolando le diverse possibilità di fuga. Erano esigue. «Chi... chi è lei?»

    L'uomo rimase immobile. «Sono semplicemente accampato qui. Non intendevo spaventarla.»

    «Lei mi stava spiando!» Il suo tono era accusatorio, e Janet quasi trasalì per l'asprezza con cui quelle parole risuonarono nel sereno silenzio della montagna.

    «Se la mia intenzione fosse stata quella di spiarla, signora, lei non mi avrebbe mai visto.» Adesso lui sembrava davvero spazientito.

    Lei doveva andarsene subito da lì. Indietreggiando di un altro passo, chiese: «È un amico di Billy Joe Yuma?». Se lui era uno dei veterani che vivevano su quelle montagne, allora probabilmente conosceva il marito di sua sorella Wendy. Quella era una circostanza che avrebbe potuto proteggerla.

    «No.» La monosillabica risposta pronunciata recisamente non contribuì in alcun modo a rassicurarla.

    Janet arretrò di nuovo, rammaricandosi di non avere il coraggio di voltare le spalle a quell'uomo e dirigersi verso la sua auto. Per qualche ragione dubitava che fosse prudente voltare le spalle a quel misterioso individuo. «È accampato qui da molto?»

    «No.»

    Lo sconosciuto non si era ancora mosso, e in lei cominciò a farsi strada l'idea che se l'uomo avesse avuto cattive intenzioni, di sicuro a quel punto le sarebbe già balzato addosso.

    «Lei... lei non è dei dintorni, vero?»

    «Che cos'è questo? Un interrogatorio?»

    Nella sua esperienza, la maggior parte dei campeggiatori tendevano a essere cordiali ed espansivi. Quell'individuo non corrispondeva a nessuna delle categorie cui lei era abituata. Affermava di essersi accampato lì, ma lei non aveva visto traccia di una tenda, e l'uomo non manifestava affatto la cordialità tipica delle persone che fuggivano nei boschi per le loro vacanze. In effetti, c'era in lui la dura e tagliente freddezza che la città insegnava.

    Janet fece l'ennesimo passo indietro. «Be', io salgo spesso qui a scattare fotografie. Probabilmente la vedrò in giro.» Senza attendere una risposta, si voltò di scatto e si avviò verso la sua auto, camminando il più velocemente possibile senza tuttavia mettersi a correre.

    Nella fioca luce, solo troppo tardi si accorse di una profonda depressione nel terreno. La sua caviglia si piegò, mandandola a gambe levate. Lei protese istintivamente le mani e lanciò un grido quando sentì la ghiaia conficcarsi nelle palme. Ma il suo scopo era quello di proteggere il ventre. Proteggere la sua bambina.

    Un istante dopo, lo sconosciuto si stava accoccolando accanto a lei, senza toccarla in alcun modo. «Tutto a posto?» le domandò. Sembrava irritato, forse perché avrebbe preferito non prendersi il disturbo di soccorrerla.

    «Sto bene. Sto bene...» Janet si girò e fissò il cielo che si andava oscurando, in attesa che il dolore alle mani, ai polsi e alle ginocchia si placasse. In attesa di sentire qualche eventuale fitta in altre parti del suo corpo, per esempio nel grembo.

    Infine, quasi certa di non avere subito gravi conseguenze, si levò a sedere.

    «Su.» Due mani forti la afferrarono sotto i gomiti e la sollevarono in piedi con grande facilità. Quell'uomo aveva una forza spaventosa.

    «Grazie» riuscì a mormorare Janet. «Grazie.»

    Lui la lasciò andare bruscamente e si staccò di qualche passo. «Non dovrebbe venire da sola in posti fuori mano come questo. Adesso se ne vada via da qui.»

    In un istante, con la stessa rapidità di un fiammifero che venisse strofinato, Janet sentì esplodere la rabbia. «Come osa? Chi diavolo crede di essere? Questo è terreno pubblico, signore, e io posso venire qui quando mi pare e piace.»

    Per la prima volta lei lo guardò direttamente in viso. Nella luce morente del crepuscolo, le ombre scavavano i suoi tratti, trasformandoli in un paesaggio scosceso dove gli occhi erano poco più che buie cavità. L'uomo era alto, imponente, e d'aspetto terribile.

    «Più fegato che cervello» borbottò lui prima di voltarsi e allontanarsi a passo deciso.

    Janet lo seguì con lo sguardo. Avrebbe voluto ribattere a quell'insulto, ma era troppo intelligente per mettersi a litigare con un estraneo. Contrariamente all'opinione di quell'uomo, lei aveva più cervello che fegato. Inoltre, malgrado la sua scontrosità, quell'individuo era venuto in suo aiuto e lei non lo avrebbe dimenticato. Con un sospiro, rassicurata dall'assenza di dolori nel grembo, riprese a camminare verso la sua auto. Era davvero tempo di tornare a casa.

    Il tuono rombò lungo i fianchi della montagna fino nel campo minerario abbandonato. Gli ultimi residui di luce furono inghiottiti dalle dense nubi temporalesche che sembravano mulinare in continuazione attorno alla sommità. Quella sera erano scese a quote inferiori.

    Sotto i piedi, Abel Pierce avvertì il brontolio del tuono come il battito del cuore della montagna. La potenza della natura lo circondava con tutta la sua ferocia, piegando le chiome degli alberi con la sferza del vento e trafiggendo la notte con i bagliori dei lampi.

    Lui aveva quasi dimenticato, durante i lunghi anni passati sulle strade della città, la grande forza della natura scatenata. Aveva dimenticato la cupa atmosfera di una foresta, la sensazione che in quel luogo un'altra legge prevalesse.

    Seduto su un ciocco rovesciato all'interno di una delle baracche cadenti, Abel osservava la furia della tempesta attraverso le finestre senza vetri, stringendosi saldamente attorno al corpo il giubbotto imbottito. Il freddo aumentava di minuto in minuto, com'era tipico della primavera in montagna, ma lui aveva da tempo imposto a se stesso la totale indifferenza agli elementi.

    Solo che quella sera, per qualche ragione, non voleva restare indifferente al temporale, o al freddo, o al suo personale disagio. Per gran parte della sua vita aveva represso gli istinti più basilari del suo corpo, il bisogno di calore quando faceva freddo, di cibo quando gli veniva fame, di riposo quando era stanco.

    Viveva dietro un muro, concentrato sul compito immediato, senza permettere a nulla di frapporsi tra lui e la sua missione. Non era vivere; era soltanto esistere.

    Quella sera voleva sentirsi vivo. Quella sera voleva sentire il freddo e desiderare il fuoco. Voleva sentire la fame e gustare del cibo. Voleva respirare l'umida aria profumata di pino e godere della misteriosa atmosfera della foresta senza avere paura.

    Fu tentato di accendere un fuoco, per lavarsi il viso con l'acqua calda e cucinare un pasto, ma la prudenza glielo impedì. Benché fosse improbabile che la luce o il fumo di un fuoco andassero lontano in una notte come quella, lui preferì ugualmente attendere un'ora più tarda, quando sarebbe stato ancora più difficile che qualcuno circolasse nei paraggi.

    Per il momento si accontentò di sedere al freddo, rabbrividì un poco, e si concesse per una volta di comportarsi da essere umano.

    La donna che aveva bighellonato intorno alla miniera quel giorno avrebbe potuto rappresentare un problema, si disse. Inclinò la testa, ascoltando lo sconsolato gemito del vento che scivolava tra le cime degli alberi, e cercò di non pensare a lei se non in quei termini. Se fosse salita spesso alla vecchia città abbandonata, lui sarebbe stato costretto a trovarsi un altro rifugio. Non voleva che il suo isolamento fosse disturbato in continuazione.

    Ma la sconosciuta probabilmente non sarebbe tornata tanto presto, non dopo avere scoperto che era accampato in quel luogo. La donna si era dimostrata decisamente aggressiva, affrontandolo con più coraggio che accortezza, ma lui sospettava che quella reazione fosse dipesa più da una scarica di adrenalina che da una sua naturale disposizione di carattere.

    Era piuttosto carina, con capelli rossi e luminosi occhi verdi che avevano quasi la stessa tonalità del muschio. Appariva assai fragile, con quei lineamenti così delicati e le mani tanto piccole da sembrare a malapena in grado di reggere la macchina fotografica che aveva usato. Ma una grande forza si celava dietro quell'aspetto, un carattere e una fermezza insospettati.

    E perché mai lui stava pensando a quella donna? Si trattava soltanto di una perfetta estranea che probabilmente non avrebbe più rivisto. Apparteneva a un mondo nel quale non gli era mai stato concesso di entrare, come se gli mancasse il necessario passaporto.

    Non che desiderasse farne parte. Lui era soddisfatto del modo in cui viveva la sua vita, dei suoi scopi e dei suoi obiettivi. Ma la notte era fredda e vuota, dominata soltanto dalla violenza del temporale, e la sua mente sembrava voler pensare a cose più serene. Cose più dolci. Cose più calde.

    Come una donna con i capelli rossi, gli occhi verdi e un pizzico di aggressività. Una immagine abbastanza evocativa da fargli dimenticare che lui desiderava un fuoco.

    Janet fu quasi tentata di non tornare a casa. Il problema era che lei non aveva nessun altro luogo dove andare. Infine fermò l'auto davanti all'abitazione dei suoi genitori e guardò le finestre illuminate. Era vero, pensò tristemente; il ritorno era impossibile.

    E d'altra parte non c'era nemmeno scopo a rinviare l'inevitabile. Scacciando i suoi cupi pensieri, prese la macchina fotografica dietro il sedile e si incamminò con riluttanza verso la porta d'ingresso. Una premurosa accoglienza la attendeva. Sua madre doveva essere alle prese con la preparazione della cena, ma avrebbe subito insistito perché lei si sedesse coi piedi sollevati e bevesse qualcosa di caldo. Anche suo padre era rientrato, come dimostrava la sua jeep di servizio parcheggiata sul vialetto dietro l'auto di Marge, e di sicuro stava seguendo con un occhio il telegiornale mentre chiacchierava con le sue figlie più piccole di come avessero trascorso la giornata. Tutto prevedibile e inevitabile come il sorgere del sole.

    Un vago senso di oppressione le chiuse la gola. Lei non faceva più parte di quel mondo. Quello era l'aspetto più triste dei cambiamenti avvenuti nella sua vita; gli eventi l'avevano allontanata in una maniera tale che lei adesso si sentiva simile a un'ospite nell'unica vera casa che avesse mai conosciuto.

    Varcando silenziosamente la porta, si augurò di riuscire ad attraversare di corsa l'atrio e di arrivare alla sua stanza senza che nessuno la intercettasse, ma sua madre proprio in quel momento stava uscendo dalla cucina per andare nella sala da pranzo.

    «Janet! Stavo cominciando a preoccuparmi.»

    «Scusami. Sono stata alla vecchia miniera a fare fotografie, e ho perso la cognizione del tempo.» A nascondermi, mamma. Mi stavo nascondendo. Era tutto tranquillo lassù, e sereno.

    «Vai a metterti comoda mentre io ti preparo qualcosa di caldo da bere. Non dovresti stancarti a questo modo.»

    Il bel volto di sua madre esprimeva sollecitudine e affetto, e Janet si sentì un'ingrata della peggiore specie per avere desiderato di evitare quelle attenzioni. «Credo che mi stenderò semplicemente per qualche minuto, se per te va bene.» Avrebbe preferito dare una mano con la cena, ma fino a quel giorno non le era stato concesso di farlo. In realtà, non le era stato permesso di fare quasi nulla. E ciò contribuiva ad accrescere la sua sensazione di essere un'ospite in quella casa.

    Scappò nella stanza che un tempo aveva diviso con la sua sorella maggiore Wendy e si sdraiò sul letto che era stato suo per tutta la sua vita. Non era la stessa cosa. Tutto era cambiato. Forse lei avrebbe fatto meglio a restare a Boulder coi suoi amici, invece di fuggire da quel luogo che le aveva procurato tanto dolore per ritornare precipitosamente a casa come una bambina in cerca di conforto.

    Ne aveva trovato in abbondanza, ma non si stava rivelando affatto ciò di cui lei aveva veramente bisogno. Lei doveva trovare un posto dove vivere, tanto per cominciare. Un luogo dove avrebbe potuto affrontare e analizzare nella solitudine della sua mente le lezioni che l'anno appena trascorso le aveva fornito. Un luogo nel quale non avrebbe corso il rischio di essere costantemente interrotta dai premurosi membri della sua famiglia che non volevano farla sentire sola o ignorata.

    Un colpo alla porta fin troppo familiare le disse che lei non sarebbe stata lasciata sola nemmeno in quella occasione.

    «Entra pure, papà.»

    Lo sceriffo Nathan Tate avanzò nella stanza di sua figlia. Era un uomo alto, con un fisico ancora poderoso benché fosse ormai alle soglie dei cinquant'anni. Per Janet lui aveva sempre rappresentato un simbolo di solidità e sicurezza, e tutt'a un tratto lei avrebbe voluto semplicemente gettarsi tra le sue braccia e piangere proprio come aveva fatto da bambina. Sentirsi al sicuro in un grande e forte abbraccio, certa che suo padre l'avrebbe protetta da ogni male.

    Un'altra illusione mandata in frantumi dalla realtà dell'età adulta. Nessuno era in grado di offrire sicurezza, e due braccia potevano fare male almeno quanto potevano proteggere.

    Nathan Tate doveva avere riconosciuto l'angoscia sul volto della figlia, poiché si sedette sulla sponda

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