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Il verdetto (eLit): eLit
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E-book367 pagine4 ore

Il verdetto (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Brillante, disincantato, a volte un po' cinico ma sempre attento al lato umano della giustizia, l'avvocato Harrison J. Walker - conosciuto da tutti come Jaywalker - vanta un tasso di assoluzioni vicino al novanta per cento, ma ci sono processi che neppure lui può vincere. Quando un ragazzo, dopo una rissa in strada, insegue l'avversario battuto e lo uccide con un colpo di pistola in fronte mentre è a terra, impotente e terrorizzato, c'è una sola parola per definire il suo gesto, ed è quella usata dall'accusa: esecuzione. Eppure il contrasto fra la violenza dell'omicidio e il carattere del ragazzo che l'ha commesso, timido, gentile, mite, e tuttavia deciso a rifiutare ogni offerta di patteggiamento e ad affrontare il verdetto della giuria, fornirà a Jaywalker la chiave per giungere, a poco a poco, a presentare ai giurati una diversa verità. Ma la passione che mette nel suo lavoro sarà sufficiente per vincere un caso così disperato?

LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2014
ISBN9788858928042
Il verdetto (eLit): eLit
Autore

Joseph Teller

"Ho passato la mia vita nelle aule di tribunale racconta Joseph Teller ed è lì che è nata la mia voglia di raccontare storie". Avvocato penalista per trentacinque anni nello Stato di New York, ha difeso assassini, spacciatori, ladri ed anche serial killer. "E ho sempre cercato di leggere nella loro anima."

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    Anteprima del libro

    Il verdetto (eLit) - Joseph Teller

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Overkill

    Mira Books

    © 2010 Joseph Teller

    Traduzione di Marina Boagno

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5892-804-2

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    1

    Quando accade, Jaywalker è seduto nella Stanza 30. La Stanza 30 è una delle aule in cui si tengono le udienze della Corte Suprema, al numero 100 di Centre Street. È lì che si compare per la prima volta davanti a un giudice, dopo essere stati formalmente accusati di un crimine.

    Un crimine è qualunque azione che comporti una pena superiore a un anno. Come l’omicidio, diciamo.

    Jaywalker si trova là per una sentenza.

    Un suo cliente, un furbacchione di nome Johnny Cantalupo, sei settimane fa si è dichiarato colpevole di possesso di droga, per evitare di andare in prigione per averla venduta. Era cocaina, e non in un quantitativo particolarmente alto, e Johnny è bianco e non ha alcun precedente degno di nota, perciò l’assistente del procuratore distrettuale e il giudice si sono accordati per la libertà vigilata e una breve detenzione, nella fattispecie i due giorni che Johnny ha già trascorso dentro quando è entrato nel sistema.

    Nel sistema.

    Ogni volta che sente questa espressione, Jaywalker non può fare a meno di immaginare un’enorme bestia che ingoia le povere persone arrestate, le digerisce per un paio di giorni, e poi... be’, il resto è un po’ vago. Li risputa fuori? Li vomita in un’aula di tribunale? O anche peggio, forse.

    Benché sia stato il primo avvocato a giungere in tribunale, stamattina, e Johnny (sotto minaccia di morte da parte di Jaywalker) il primo imputato, devono aspettare che il loro caso sia chiamato. Un rapporto scritto per la libertà vigilata deve prima completare un arduo percorso attraverso tre interi piani dell’edificio, impresa che può richiedere ore, a volte giorni o perfino settimane. Non ha importanza se il rapporto non avrà alcun impatto sulla sentenza. La sua presenza è obbligatoria per legge. Anzi, la comparsa davanti al giudice di questa mattina promette di essere una pura formalità, poiché i dettagli della sentenza sono stati elaborati da molto tempo, registrati negli archivi e garantiti all’imputato, con la sola condizione che si presenti oggi in tribunale, cosa che Johnny ha puntualmente fatto.

    Di conseguenza, Jaywalker prenderà a malapena la parola, non avendo alcun bisogno di convincere il giudice a fare qualcosa o ad astenersi dal fare qualcosa. Perciò la sua attenzione può vagabondare liberamente dal cruciverba finito a metà che ha sulle ginocchia agli imputati che, a uno a uno, sono condotti davanti al giudice per ascoltare, in piedi accanto ai loro avvocati, le imputazioni che sono state loro contestate da un gran giurì.

    La prima cosa di quel giorno fuori dall’ordinario che colpisce Jaywalker accade quando un usciere chiama un particolare caso, e un avvocato, anziché alzarsi dal suo posto fra il pubblico e portarsi con calma al tavolo della difesa, grida forte: «Difensore!».

    Questo lo fa subito riconoscere come un avvocato civilista, con scarsa familiarità con il modo in cui avvengono le cose dal lato penale della legge.

    Il tizio ha perfino l’aspetto di un civilista, decide Jaywalker. E non solo perché è piccolo e calvo. Questa descrizione si applica a moltissimi penalisti. No, c’è di più. C’è qualcosa di decisamente sfuggente in lui, qualcosa giusto appena un po’ troppo costruito. Qualcosa che fa pensare a un cacciatore di ambulanze. Richiama alla mente perfino il vecchio termine shyster, più o meno equivalente di azzeccagarbugli, un tempo attribuito in senso dispregiativo agli avvocati ebrei. Ma Jaywalker lo scarta subito, perdonandosi in parte solo perché lui stesso è per metà ebreo. Più o meno come, adesso, gli afroamericani sono liberi di chiamarsi fra loro negro, ma agli altri non è consentito farlo.

    Il cliente del tizio viene accompagnato in aula dalla porta che conduce alle celle, e l’attenzione di Jaywalker si sposta su di lui. È un ragazzo, un ragazzo che non dimostra più di sedici o diciassette anni. Alto, però, con un buon portamento per un adolescente, la pelle chiara e capelli biondi tagliati cortissimi. Se avesse un paio d’anni in più potrebbe sembrare una recluta dei Marine, pensa Jaywalker, o un cadetto del primo anno di West Point. Ma la cosa davvero notevole è quanto è bello. Anche se, essendo cresciuto negli omofobi anni Settanta, Jaywalker ha ancora qualche remora ad applicare il termine a un uomo. Aitante, sì. Di gradevolissimo aspetto, certo. Ma bello? Non c’è bisogno di lasciarsi trasportare. Ma il fatto è che il ragazzo lo è davvero, anche dopo un paio di giorni nel sistema.

    Il nome gli sfugge, in compenso chinandosi in avanti riesce a cogliere la parola omicidio, mentre il cancelliere legge le imputazioni e chiede al ragazzo se si dichiara colpevole o non colpevole.

    Ora, il fatto è che la risposta a questa domanda è: «Non colpevole». Sempre. Anche se subito dopo l’avvocato si avvicina al banco, confabula con il giudice, conclude un patteggiamento e sessanta secondi dopo la dichiarazione di non colpevolezza viene ritirata e sostituita con la colpevolezza di un reato minore, con una condanna ridotta. Esattamente com’era accaduto nel caso di Johnny Cantalupo, sei settimane fa.

    Solo, non è ciò che accade adesso.

    Invece, non appena il cancelliere pone la domanda, l’avvocato civilista risponde per il ragazzo: «Colpevole, con una spiegazione».

    Ora, questo può funzionare in un processo per un’infrazione al traffico, o quando viene chiamata in causa una terza persona. Ma qui, quello che succede è che l’intera aula – ed è un’aula grande, quasi completamente piena – piomba in un silenzio impietrito.

    «Prego?» dice il giudice, un tizio d’altri tempi, con i capelli bianchi, di nome McGillicuddy.

    «Colpevole» ripete l’avvocato, «ma con una spiegazione. La mia opinione è che la libertà vigilata potrebbe essere un’adeguata mis...»

    Non riesce a dire di più prima che McGillicuddy faccia cenno a lui e all’assistente del procuratore distrettuale di avvicinarsi. Il che, a modo di vedere di Jaywalker, è un atto di cortesia da parte del giudice, per non far fare una brutta figura al tizio davanti a un’aula piena di gente.

    Perché il fatto è che non si può ottenere la libertà vigilata, con un’accusa di omicidio, neppure con la migliore spiegazione nella storia dell’universo. Le dieci migliori spiegazioni. Una condanna per omicidio può variare da un minimo di quindici anni all’ergastolo.

    Jaywalker non può sentire ciò che viene detto al banco, ma può vedere che, quali che siano le parole, è quasi soltanto il giudice a parlare, e in modo assai meno caritatevole di un momento prima. L’avvocato civilista è praticamente ridotto a rispondere a gesti, per lo più allargando le mani e alzando le spalle.

    «E chi lo sapeva?» sembra dire.

    Quanto all’assistente del procuratore distrettuale, una donna carina, bruna, con gli occhiali dalla montatura scura e una grossa cartella sotto il braccio, ha avuto il buonsenso di farsi il più possibile in disparte, evidentemente per non essere coinvolta nella scena di un giudice irato che fa a brandelli un avvocato difensore incompetente. Nel frattempo, al tavolo della difesa, all’accusato è stata offerta una sedia da un usciere premuroso, che deve avere deciso che quello spettacolo imprevisto andrà avanti per un pezzo.

    Invece, non è così.

    Finisce bruscamente, con il giudice che si alza e ordina agli avvocati di tornare ai loro posti.

    «L’avvocato Fudderman è esonerato» annuncia.

    Poi, scrutando la prima fila del pubblico, cerca un sostituto.

    La reazione istintiva di Jaywalker è di guardare da un’altra parte.

    È stato nell’esercito, è stato nella polizia e ha imparato molto tempo fa che non ci si deve mai, mai offrire volontari per alcunché. Non può derivarne niente di buono, mentre il potenziale di un disastro è virtualmente illimitato.

    Perciò, anche se sente i colleghi alla sua destra e alla sua sinistra che, in qualche modo, si raddrizzano di scatto sulla loro sedia e lanciano dei messaggi subliminali per supplicare il giudice di sceglierli, Jaywalker fissa il suo cruciverba, concentrando tutte le sue energie su una parola di otto lettere per seccatura.

    «Avvocato Jaywalker?» sente.

    M-O-L-E-S-T-I-A, scrive, imperterrito.

    «Avvocato Jaywalker?»

    Più forte, stavolta.

    Lui alza gli occhi, fingendosi stupito.

    «Venga qui, prego.»

    Jaywalker guarda ai due lati e da sopra la spalla prima di voltarsi di nuovo verso il giudice.

    «Sì, proprio lei

    2

    Risultò che il suo nome era Estrada, Jeremy Estrada. Jaywalker lo scoprì in cella, seduto di fronte al ragazzo per condurre quello che caritatevolmente poteva essere definito un breve colloquio.

    Il giudice McGillicuddy non gli aveva ordinato di farlo, ma aveva fatto capire piuttosto chiaramente, senza dirlo in modo esplicito, che, a suo modo di vedere, Jaywalker gli doveva quella cortesia, e anche di più.

    Non appena Jaywalker aveva cominciato a protestare che era di gran lunga troppo impegnato, anche se non era vero, McGillicuddy aveva segnalato, con il solo movimento delle labbra: Stronzate. L’assistente del procuratore aveva accennato un sorriso, ma si era subito ripresa aggiustandosi gli occhiali. Senza dubbio etichettava l’incidente come un paio di maschi alfa che si scontravano fra loro.

    Ma il chiaro segnale del giudice non era sfuggito a Jaywalker. Circa sei mesi prima, durante una banale causa per furto, McGillicuddy aveva preso una decisione opinabile su una prova materiale, e Jaywalker aveva borbottato: «Stronzate...» abbastanza forte perché la giuria lo sentisse.

    Il giudice l’aveva ignorato, anzi aveva perfino finto di non avere udito, benché senza dubbio la parola gli fosse arrivata all’orecchio. Anziché far sgomberare l’aula, accusare Jaywalker di oltraggio e magari anche metterlo dentro per una notte a riflettere sulla sua uscita infausta, aveva semplicemente archiviato l’incidente, deciso a metterlo da parte per un giorno di pioggia, come recitava un vecchio modo di dire. E benché in quella particolare mattina di maggio il tempo fosse sereno e asciutto, era proprio come se diluviasse. Il saldo del debito era stato richiesto.

    Il fatto che il ragazzo avesse un cognome latino destò una certa sorpresa in Jaywalker. A giudicare dalla carnagione chiara, i capelli biondi e gli occhi grigioazzurri aveva pensato di avere a che fare con qualcuno scappato dal Minnesota, o da qualche luogo del genere. Ma quando gli chiese se parlava inglese, Jeremy rispose a bassa voce: «Sì, sono nato qui», senza alcuna traccia di accento.

    «Capisci quello che è successo poco fa in aula?» gli chiese Jaywalker.

    «No, non proprio» disse lui, ancora a voce così bassa da essere a malapena udibile.

    «Be’, tanto per cominciare, il tuo avvocato ha cercato di farti dichiarare colpevole di un reato che comporta l’ergastolo. Dove lo hai scovato?»

    «L’ha trovato mia madre. Ha detto che l’aveva aiutata dopo che ci avevano tagliato l’elettricità in casa. E immagino che non ci fosse molto tempo, sa.»

    Jaywalker non sapeva, e aveva quasi paura a chiedere. Aveva accettato di parlare per dieci minuti con il ragazzo prima di far sapere a McGillicuddy se era disposto a difenderlo per la parcella di un avvocato d’ufficio. Jaywalker aveva cercato di spiegare che non era più negli elenchi degli avvocati d’ufficio, essendone stato cacciato tempo prima per avere consegnato le note di pagamento con mesi di ritardo, e a volte anche anni. Ma il giudice non gli aveva dato retta.

    «Forse la famiglia ha un po’ di soldi» aveva osservato. «O lei potrebbe sempre farlo pro bono. Di sicuro, da quello che stava dicendo quell’altro pagliaccio potrebbe trattarsi di un’accusa di omicidio colposo. In altre parole, un’udienza o due.»

    Quell’altro pagliaccio, detto a proposito dell’avvocato civilista, sembrava qualcosa di simile a un manrovescio, ma Jaywalker aveva tenuto la bocca chiusa. Assai più importante, il taglio dell’elettricità in pratica rispondeva alla domanda se la famiglia aveva soldi. E quanto a pro bono era una vecchia espressione latina che, liberamente tradotta, significava: Okay, farai il lavoro, ma non sarai pagato.

    Eppure...

    Che cosa significava quell’eppure?

    Jaywalker si sarebbe posto quella stessa domanda cento volte, durante le settimane e i mesi a venire. E ogni volta la risposta migliore che riusciva a trovare era che il ragazzo era maledettamente simpatico, con la sua voce sommessa, la sua aria innocente, e il modo in cui ti guardava con quei suoi grandi occhi azzurri. Che cosa avrebbe dovuto dire Jaywalker al giudice? Spiacente, non intendo farlo? Si cerchi qualche altro sfigato?

    No, McGillicuddy aveva saputo esattamente quello che stava facendo quando aveva scelto Jaywalker fra la dozzina di avvocati presenti nell’aula. Aveva saputo benissimo che fra loro ce n’era uno solo che, nonostante la facilità con cui poteva mandare a quel paese un giudice durante un processo, semplicemente non era capace di dire di no a un ragazzo nei guai fino al collo.

    A proposito di stronzate.

    «E così» attaccò il giudice quando il caso fu richiamato, «lei rappresenterà il signor Estrada?»

    Stavolta Jaywalker era in piedi al tavolo della difesa con Jeremy. All’apparenza, McGillicuddy non aveva intenzione di offrirgli il lusso di un colloquio ufficioso al banco, dove avrebbe potuto rifiutare in relativa privacy.

    Ma il giudice non avrebbe dovuto preoccuparsi.

    «Sì, Vostro Onore.»

    «Benissimo. Il caso è assegnato al giudice Wexler, aula 55. Tre settimane per le mozioni della difesa. Le stesse condizioni per la cauzione. Il prossimo caso.»

    Tornato nella zona di detenzione – Jaywalker non lasciava mai un tribunale senza prima spiegare al suo cliente che cos’era appena successo e che cosa era probabile che succedesse fra quel momento e la prossima udienza – disse a Jeremy che in settimana lo avrebbe fatto riportare là per un vero colloquio. Il ragazzo sorrise a quel pensiero.

    Senza dubbio lui e l’avvocato Fudderman non avevano passato troppo tempo insieme.

    «Può farmi un favore?» chiese Jeremy.

    «Ci proverò.»

    «Mia madre è in aula. Può dirle che sto bene?»

    «Sicuro.»

    «E...»

    A quel punto Jeremy esitò, come imbarazzato.

    «Sì?»

    «Potrebbe anche chiederle di portarmi delle calze? Fa un po’ freddo, la notte» si ritrovò a spiegare.

    «Sì, posso farlo.»

    Entrambi si alzarono, anche se fra poco si sarebbero avviati in direzioni molto diverse. Jaywalker sarebbe rientrato in aula e poi, una volta pronunciata la sentenza di Johnny Cantalupo, sarebbe uscito nell’aria fresca di Centre Street. Okay, relativamente fresca.

    Jeremy sarebbe stato trasferito in un’altra cella ad aspettare l’autobus dell’una che lo avrebbe riportato a Rikers Island.

    Jaywalker gli tese la mano, e se la strinsero. Nell’era dell’AIDS, dell’epatite C e della tubercolosi resistente ai farmaci, i suoi colleghi penalisti avevano da tempo abbandonato quell’abitudine. Per Jaywalker era una ragione di più per mantenerla.

    «Grazie per avere accettato il mio caso, avvocato Jaywalker» disse Jeremy, leggendo il nome, con qualche difficoltà, dal biglietto da visita che Jaywalker gli aveva dato poco prima, quello su cui c’era il numero di telefono. Un’altra cosa che distingueva Jaywalker dai suoi colleghi.

    «Chiamami Jay.»

    Jeremy sorrise.

    «Jay Jaywalker?»

    «Solo Jay.»

    Non sembrava necessario spiegare che un tempo era stato Harrison J. Walker, e che aveva lasciato cadere la parte Harrison come troppo pretenziosa e rifiutato Harry perché faceva troppo Lower East Side.

    «Grazie, avvocato Jay.»

    Tornato in aula, Jaywalker trovò la madre di Jeremy e si appartò con lei in corridoio. Era una donna bassa e robusta di nome Carmen. Le riferì il messaggio del figlio, secondo cui stava bene. Non accennò alle calze.

    «Come si mette?» chiese Carmen con una voce roca, pesantemente accentata.

    «È troppo presto per dirlo» rispose Jaywalker.

    «Deve fare del suo meglio per lui, avvocato Joewalker. Deve prometterlo.»

    Sarebbe stato il primo di molti tentativi per pronunciare il suo nome nel modo giusto.

    Jaywalker promise. Aveva vinto dei casi e ne aveva perso altri, ma nessuno – nessuno – lo aveva mai accusato di non avere fatto del suo meglio.

    La donna frugò nella borsa e tirò fuori una manciata di banconote spiegazzate.

    «Ho portato questi per l’avvocato Fudderman» spiegò. «Devo darli a lei, invece?»

    «Questo deve deciderlo lei» rispose Jaywalker.

    Gli sarebbe piaciuto dire che no, non era necessario. Ma era in arretrato di un mese e mezzo con l’affitto, perciò accettò il denaro e la ringraziò. Aspettò fino a quando ebbero finito di parlare e lei si fu allontanata prima di curarsi di riordinare le banconote e contarle.

    Ammontavano a cinquantotto dollari, un anticipo piuttosto modesto anche per gli standard di Jaywalker. Neppure il suo affitto era così basso.

    Johnny Cantalupo ottenne la sua libertà vigilata verso le dodici e mezzo, ma anche allora Jaywalker non lasciò il tribunale. Invece, prese l’ascensore per il settimo piano e andò negli uffici della procura per un colloquio con Katherine Darcy, l’assistente che aveva incontrato davanti al banco del giudice quella mattina. Era risultato che il caso era suo, il che significava che lo avrebbe seguito, anche in un eventuale dibattimento, se si fosse arrivati a quella fase.

    Ora, seduto di fronte alla sua scrivania, Jaywalker decise che era meno giovane di quanto aveva pensato... forse sui quaranta, calcolò... ma altrettanto carina, se solo si fosse lasciata un po’ andare. Avrebbe potuto cominciare con il togliersi gli occhiali, quasi le suggerì. La facevano sembrare una bibliotecaria. Ma combatté l’impulso di condividere con lei i suoi pensieri, essendo praticamente certo che esprimerli ad alta voce lo avrebbe solo messo nei guai e al tempo stesso avrebbe danneggiato il suo cliente.

    «Allora» cominciò Jaywalker. «Che cosa abbiamo qui?»

    «Quello che abbiamo qui è un paio di giovani stalloni macho e le loro amichette» rispose lei. Lo disse con disinvoltura, senza bisogno di guardare la pratica. Era chiaro che conosceva il caso. «Uno di loro dice: Stai guardando me?, e l’altro risponde: Sì, sto guardando te. A dire la verità, non so chi abbia cominciato. Ma non ha importanza. Una sfida viene lanciata e accettata. Si allontanano di qualche isolato e regolano il conto. È una lotta leale, a pugni» continuò. «A quanto risulta, il suo cliente la vince. Poi, non soddisfatto, tira fuori una pistola e spara alla vittima, un ragazzo di vent’anni di nome Victor Quinones.»

    «Così, semplicemente?»

    «Così, semplicemente.»

    «Testimoni?» chiese Jaywalker.

    «Testimoni. Tre, forse quattro. La prima ferita non è grave, un colpo di striscio che sfiora l’addome di Victor. Lui scappa. Il suo cliente lo raggiunge e, mentre Victor è steso sul marciapiede e chiede pietà, lo agguanta per i capelli e gli spara in mezzo agli occhi a bruciapelo. Il giorno dopo parte per Portorico. Resta là per sei, sette mesi. Torna, si costituisce. A quel punto dev’essersi liberato dell’arma, e pensa che i testimoni siano spariti da tempo. Solo che non è così. Sono tutti ancora in circolazione e disponibili. Perciò la risposta più chiara e semplice che posso dare alla sua domanda è che quello che abbiamo qui è un’esecuzione.»

    3

    «Quindi, suppongo che un patteggiamento per disturbo della quiete pubblica sia praticamente fuori questione» osservò Jaywalker.

    «Sono contenta che trovi il caso così divertente» disse Katherine Darcy.

    Ma sulla sillaba centrale della parola divertente la sua voce si spezzò in modo appena percettibile.

    Jaywalker lo notò e sollevò entrambe le sopracciglia – aveva provato a imparare a sollevarne solo una alla volta, ma aveva rinunciato da tempo – per segnalarle che la cosa non gli era sfuggita. Ma lei rifiutò di ammettere che aveva notato il suo sguardo, scegliendo invece di fingere che non fosse successo niente. E forse era così. Forse la poverina aveva un difetto di pronuncia, per quello che Jaywalker ne sapeva, o un polipo in gola, o il raffreddore. Lasciò correre.

    «Mi sforzo di trovare qualcosa di divertente in tutti i miei casi» rispose. «Se non lo facessi, mi sarei sparato già da molto tempo.»

    Lei non ribatté.

    «Quindi, mi dica» continuò Jaywalker. «Di che cosa avrebbe bisogno per un omicidio non intenzionale di primo grado?»

    Diversamente dall’omicidio volontario, con un’accusa di omicidio non intenzionale un giudice avrebbe avuto a disposizione un ampio ventaglio di sentenze, da venticinque anni fino a soltanto cinque.

    Ma Katherine Darcy non abboccò.

    «Lasci che mi spieghi chiaramente» disse. «Non ci sarà un’offerta per questo caso, né per l’omicidio non intenzionale, né per nessun’altra. Ne ho parlato con il capo del mio ufficio e l’ho presentato a una riunione settimanale. Nessuno si è agitato troppo per il primo sparo. Il calore del momento, nessuna ferita grave... niente di che. Ma non appena hanno sentito dell’ultimo colpo, il coup de grace, tutti hanno convenuto che non lasciava spazio per un patteggiamento. Come ho detto poco fa, un’esecuzione. Perciò, è un caso di omicidio volontario e resterà un caso di omicidio volontario. Se qualche giudice vorrà comminare al suo cliente il minimo della pena per questa accusa, liberissimo. Non ho controllo su questo.»

    Non che avesse bisogno di qualche controllo. Il minimo per omicidio era da quindici anni all’ergastolo.

    «Sembra che voglia portare il caso al dibattimento» osservò Jaywalker.

    Lei si strinse nelle spalle.

    «Se non lo faccio con questo, lo farò con un altro. Onestamente, per me non fa alcuna differenza.»

    Jaywalker si alzò. Sembrava un momento buono quanto ogni altro per andarsene, prima di cominciare ad arrabbiarsi sul serio con lei. A suo modo di vedere, era okay, per un pubblico ministero, essere duro, purché restasse ragionevole e disposto a essere flessibile quando la situazione lo richiedeva. Trattare tutti i casi come se fossero uguali, e comportarsi come se gli imputati fossero intercambiabili era un altro paio di maniche. Non erano intercambiabili, almeno, non per come la pensava lui. Ciascuno di loro era un essere umano, per quanto fallibile e pieno di difetti. Ciascuno era differente, e i fatti e le circostanze di ciascun caso erano diversi. Poteva non sembrare sempre così, a guardare le cose da lontano, ma se ci si avvicinava abbastanza, si poteva vedere che era vero.

    «Quanti casi di omicidio ha portato in aula?» le chiese, sforzandosi di far apparire la domanda innocente e nata solo da semplice curiosità. Giusto per fare due chiacchiere.

    Katherine esitò un momento e lui pensò che forse stava contando mentalmente. Ma risultò che non era così.

    «In realtà, questo sarebbe il primo» rispose. «Ma sono stata alla Corte d’Appello per otto anni e mezzo, e scommetto che ho discusso almeno quindici o venti casi.»

    «Non è proprio la stessa cosa» insinuò Jaywalker.

    «Sono sicura che non lo è» ribatté lei, con quello che lui interpretò come un sorriso condiscendente. «Ma me la caverò. E nel frattempo sarà un onore imparare dal migliore di tutti. Ho sentito molto parlare di lei, avvocato Jaywalker, e...»

    «Jay.»

    «... E non vedo l’ora di vivere questa esperienza. Davvero.»

    Scendendo in ascensore, Jaywalker si impose di respirare a fondo, calmarsi e non prendere l’atteggiamento dell’avvocato Darcy come un fatto personale.

    Lavorare alla Corte d’Appello era un po’ come esercitare la professione in una biblioteca legale. Si aveva a che fare con regole stilate in legalese, principi astratti della legge e fredde regole sulle prove. Si passava il tempo leggendo verbali di processi lunghi centinaia di pagine, a volte migliaia. Potevano contenere ogni parola pronunciata dal banco dei testimoni e ogni commento riportato nel verbale. Ma quello che non avevano, quello che restava fuori, era altrettanto importante: il teste che sudava e balbettava, l’incapacità di mantenere il contatto oculare, la ripetizione di frasi o il modo errato di pronunciarle che, nel momento e nel luogo reali, valevano volumi... volumi che non sarebbero mai comparsi nelle pagine scritte.

    Il verbale non diceva nulla sul giovane o sulla donna affranta

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